PERCHÉ SCIOPERERÒ
MARTEDÌ 5 MAGGIO 2015
Mi
rendo conto che questo è il mio dovere generazionale. Sì, quello che, vi dicevo qualche giorno fa, mi angustia e mi attanaglia: ma solo un po’,
perché poi so individuare quale sia. È il
dovere di prendermi cura di voi, in quanto figli della mia generazione,
colpevole di svariate inadempienze nei vostri confronti. In primo luogo quella
di comunicare quello che pensiamo, se pensiamo qualcosa. Niente più omissioni
di parole e azioni. Per questo voglio spiegare chiaramente perché farò sciopero il 5 maggio.
Il mio disaccordo sulla “buona scuola” procede da
motivazioni sia tecniche sia ideali. Parto dalle prime. In base al DDL
2994 il
Consiglio di istituto e il Collegio dei Docenti non sono più gli organi
deliberanti in materia di POF, ma diventano organi consultivi: vengono
esautorati dal Dirigente Scolastico che assume il pieno controllo del POF, lo
elabora e lo approva. Il Collegio non lo elabora più, il Consiglio non lo
adotta più, ma vengono solo “sentiti” dal DS. Ciò perché il DDL si propone di
“rafforzare la funzione del Dirigente Scolastico” a scapito evidentemente degli
Organi collegiali e dell’autonomia didattica.
Inoltre, recita il comma 11 del DDL, “sulla base delle esigenze e del fabbisogno
espresso nel piano triennale dell’offerta formativa, il dirigente scolastico
sceglie il personale da assegnare ai posti dell’organico dell’autonomia e
propone incarichi di docenza ai docenti iscritti negli albi territoriali
istituiti dalla presente legge”. Questa riforma elimina la distinzione tra
organico di fatto e organico di diritto, che in effetti crea gravi problemi
alle scuole e rende precaria la situazione di chi lavora sulle cattedre di
fatto. Per fare questo introduce il Piano triennale dell’offerta formativa e
gli albi territoriali. Gli albi territoriali permetterebbero di gestire
l’elasticità necessaria in un sistema in cui ci sono distacchi, comandi,
part-time e tante altre situazioni complicate che non permettono di contare
come stabili e definitive alcune cattedre o parti di cattedre. Il personale
immesso in ruolo viene collocato negli albi territoriali in modo da poter
lavorare nelle scuole secondo i piani triennali. In questo c’è una diminuzione
di precarietà, ma occorre chiedere che questo sistema non si allarghi
progressivamente a tutti i docenti, bensì resti transitorio per i docenti neoimmessi in
ruolo, che progressivamente dovrebbero essere assorbiti nell’organico con
titolarità di sede: è evidente che, sotto questo profilo, la riforma necessita
di un ritocco se non sostanziale, certo non collaterale.
Quanto al rafforzamento e alla messa a sistema della
didattica basata sull’alternanza scuola-lavoro, a legislazione vigente, essa
consiste nella realizzazione di percorsi progettati, attuati, verificati e
valutati, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa,
sulla base di apposite convenzioni con le imprese o con le rispettive
associazioni di rappresentanza, con le camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura, con gli enti pubblici e privati, ivi inclusi quelli
del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di
apprendimento in situazione lavorativa, che non costituiscono rapporto individuale
di lavoro ai sensi del decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77 (leggi:
sfruttamento di manodopera gratuita).
Relativamente al piano assunzionale, esso è ridotto di un terzo nella sua consistenza, e
restano senza risposta le attese e i
diritti di migliaia di docenti precari non rientranti nelle tipologie previste
dal piano (ad
esempio i precari abilitati che non sono
nelle Graduatorie a esaurimento), ma da lungo tempo in servizio a tempo determinato, ben oltre i
limiti indicati dalla sentenza della Corte Europea. Altrettanto ignorati dal
piano i precari dell’area Ata. Qualcuno sostiene che non sia vero che i precari di Seconda fascia con più di 36
mesi di servizio perderanno il posto e che la norma, scritta male, sarà
corretta in modo che non sia retroattiva: si tratta però, evidentemente, di una
speranza, che può ben legittimare il ricorso a uno sciopero per non essere
disillusa.
Quanto alla valorizzazione del merito del
personale docente, la disposizione mira a valorizzarlo riconoscendo una somma
di denaro (bonus) annualmente ai docenti particolarmente meritevoli. A tale
fine, a decorrere dall’anno 2016 è istituito presso il Ministero dell’istruzione,
dell’università e della ricerca un apposito fondo, con lo stanziamento di 200
milioni di euro annui a decorrere dal 2016. Tale fondo è ripartito a livello
territoriale tra le istituzioni scolastiche in proporzione alla dotazione
organica dei docenti con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università
e della ricerca. Il dirigente scolastico, sentito il consiglio d’istituto,
assegna annualmente la somma al personale docente che, in base all’attività
didattica, ai risultati ottenuti in termini di qualità dell’insegnamento, al
rendimento scolastico degli alunni e degli studenti, alla progettualità nella
metodologia didattica utilizzata, alla capacità innovativa e al contributo dato
al miglioramento complessivo della scuola, è ritenuto meritevole del bonus. Si tratta di un provvedimento da respingere
perché sfugge alla sfera contrattuale, l’unica abilitata a trattare di salario.
Inoltre introduce divisioni e frantumazioni
nella professione docente, prevedendo solo premi individuali disconnessi da
qualsiasi dimensione cooperativa e collegiale e forieri di competizione
divisiva e, in quanto tale, disfunzionale per l’attività docente.
Passo alle ragioni ideali. Si legge nella
“memoria della Fondazione Agnelli”, consegnata alle commissioni come contributo
sulla “buona scuola” , inerente sia alla logica generale del DDL sia, in
particolare, ai temi del piano straordinario delle assunzioni, merito e
carriera dei docenti, potenziamento del ruolo del DS, politiche di inclusione e
open data, che è necessario “raddrizzare
la logica della riforma, partendo dalla riflessione sui curricoli”. Perché, ragionano
i redattori della memoria, “un
supplemento di riflessione consentirà di rimettere in ordine logico i diversi
tasselli del ragionamento, partendo dall’interrogativo più ovvio (ma fino a
oggi assente dal dibattito): quali conoscenze e quali competenze la scuola
italiana dovrà assicurare ai milioni di ragazzi e ragazze che la frequenteranno
nei prossimi due decenni?”. Quel che, però, manca, secondo la Fondazione, “è
il coraggio di riconoscere che alla professione docente nella scuola autonoma
serve una diversa strutturazione della carriera e che soltanto così si può
concretizzare la giusta ambizione di premiare il merito dei docenti. Il passaggio forse più utile a spiegare la
ragione della mia adesione allo sciopero è però il seguente:
“Il docente del
21° secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di
qualità didattico disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista
che deve saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola
autonoma, contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e
impegnarsi nella manutenzione delle proprie competenze: questi sono gli aspetti
che un percorso di carriera deve saper valorizzare. Una sensata articolazione
di carriera dovrebbe essere basata su due o meglio ancora tre livelli, con
tetti percentuali di ammissione definiti per ciascun livello e significativi
incrementi di stipendio, permanenti e “portabili” anche in caso di
trasferimento del docente in altra istituzione scolastica. I passaggi fra
livelli di carriera dovrebbero essere regolati mediante concorso nazionale, in
cui si dovrebbe tener conto di elementi diversi: il giudizio del dirigente
scolastico, i crediti didattici, formativi e professionali accumulati, una
prova pratica, un profilo psico-attitudinale. La carriera dovrebbe essere
unica: come si diceva, appare, infatti, inopportuno distinguere fra un percorso
basato su competenze didattico-disciplinari e un altro basato su competenze
organizzative e di supporto alla dirigenza (distinzione tra docente mentor e
docente di staff, presente nelle versioni preliminari del provvedimento). Un
buon docente non deve solo sapere insegnare, ma deve sapere anche lavorare in
équipe con i propri colleghi: si pensi, ad esempio, a quanto artificiale
risulti la distinzione per un insegnante coordinatore di dipartimento. E, in
linea di principio, la definizione di uno o due livelli superiori per i docenti
va pensata come un percorso di crescita professionale che può condurre a un
ulteriore passo verso la dirigenza scolastica, o la dirigenza tecnica
(ispettori).”
Mi riconosco completamente nell’insegnante umanista
identificato come obsoleto nella comparazione effettuata dalla Fondazione. Sciopero
perché il profilo complessivo del ddl volge nella direzione (peraltro già
intrapresa da anni nella scuola) di promuovere un insegnamento conforme all’aziendalizzazione
promossa dal mondo economico. Sciopero anche perché mi offende la pantomima
democratica inscenata dal governo per fingere di compiere una consultazione “dal basso” in
merito alla buona scuola. Sciopero, infine, perché il “buono” della scuola è
racchiuso nella sua sostanza etimologica, alla quale occorre ritornare: σχολή in origine significava (come otium per i Latini) libero e piacevole uso delle proprie forze,
soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico.
cb
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