DAL
PURGATORIO AL PARADISO
Sulla
cima del purgatorio, montagna scoscesa, c’è l’Eden, il paradiso perduto, luogo
di assoluta felicità originaria. Lì Adamo ed Eva vissero l’incanto della
primavera del mondo e quella è la cima accarezzata dai raggi del sole che al
principio dell’inferno lo sguardo del viator
scorge e coglie come un segnale di speranza, miraggio in verità immediatamente
contraddetto dal sopraggiungere delle tre fiere che lo fanno precipitare di
nuovo nel buio della selva. Quando vi
arrivano Dante e Virgilio, nel canto XXVII dopo aver superato la parete
fiammeggiante di fuoco purificatore per i lussuriosi, prima si vede la “divina
foresta” (che fa da contrappunto
alla selva oscura), poi si ascoltano le parole pregnanti e suggestive di
Virgilio che sottolinea l’approssimarsi della conclusione del loro viaggio
insieme (nonché il più definitivo degli addii):
“Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero,
dritto e sano è tuo arbitrio,
e
fallo fora non fare a suo senno”
E poi:
“perch’io te sovra te corono e mitrio.”
Ora Dante agens può quel che vuole, sa
quel che deve, farà quello che gli detta la sua capacità di decidere, di
scegliere come essere una volta conosciuto e vissuto tutto il male del mondo.
“Per vedere una cosa veramente bisogna capirla” ha scritto Borges in un
racconto intitolato There are more things
[Ci sono più cose in cielo e in terra, mio caro Orazio, di quante ne può
contenere la tua filosofia; dialogo tra Amleto, che ha appena parlato col
fantasma del padre, e gli amici Orazio e Marcello] contenuto nel Libro di sabbia; poi prosegue ancora scrivendo che “se
vedessimo realmente l’universo, forse lo capiremmo” [riusciamo a vedere ciò che
comprendiamo: una sedia, un paio di forbici presuppongono forme del corpo,
gesti]. Questa predisposizione a veder capendo o capire vedendo si è sviluppata
gradualmente e ancora dovrà raffinarsi, ma intanto è chiaro che l’ultima parte
del cammino ultraterreno viene compiuta da un essere umano in pieno possesso di
tutte le sue facoltà, in una condizione che non è, quasi fino alla fine, quella
estatica della perdita di contatto con le proprie facoltà sensoriali,
sovrastate da una che le compendi, trascendendole, tutte [ricorda: estasi, dal
greco, è fuoriuscita da sé].
Dante,
nel paradiso terrestre, rimasto privo della guida, prova per cominciare un
fortissimo dolore: invoca tre volte il nome del maestro, che risuona
inutilmente nell’aria edenica (“Ma
Virgilio n’avea lasciati scemi, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per
mia salute die’mi”), ma immediatamente risuona anche la voce di Beatrice,
che rinfaccia al viator la sua venuta: come ha osato ascendere al monte dove
l’uomo è felice? “Non sapei tu che qui è
l’uom felice?”. Bene, la felicità. Quella parola di origine indoeuropea che
riconduce al concetto di fertilità, di fecondità in tutte le sue possibili
accezioni, riferibili dunque al corpo e alla mente senza soluzione di continuità
[quindi con continuità]: la pienezza e l’appagamento, che non lasciano spazio
ad altro. Ci possiamo domandare se sia di questo che sta parlando Beatrice
quando dice che qui, cioè lì, nel
paradiso terrestre, nel paradiso vicino a Dio, l’uomo è felice. Cosa sta dunque
rinfacciando, imperiosamente, al viator? Che cosa vuol fargli intendere? Forse,
che ormai, per riprendere lo spunto borgesiano, occorre che vista e
comprensione delle cose divine sovrastino qualunque altra cosa. Il viator deve
imparare a vedere Beatrice, quella vera, l’unica mai esistita. Non la donna
intravista per tre volte nella chiesa di Firenze, e nemmeno quella modificata
dal ricordo a dieci anni dalla sua morte. La Beatrice del paradiso è altra, è
altro, è provvista della stessa doppia natura attribuita dalla fede, negata da
eresie, a Cristo. L’accostamento Beatrice/Cristo, la loro identificazione, è
parsa ad alcuni commentatori nel tempo di per sé un’eresia, sicché per stornare
accuse, altri hanno preferito ritenerlo un semplice abbellimento poetico,
sprovvisto di significati teologici. A noi qui interessa notare che Beatrice,
come Cristo, consente all’uomo, al viator, di capire i propri peccati, di intendere, per
rimanere nel solco del discorso, che peccando si è infelici, mentre liberandosi
dal peccato si perviene alla pienezza dell’io, all’io fecondato, fecondo e
felice. Al v. 89 del XXXI canto dopo i rimproveri di Beatrice (di averla
dimenticata, di essersi sviato da lei) Dante sviene. Impossibile non avvertire
un’intertestualità: lo svenimento più affine è indubbiamento quello che si
verifica nel canto V con Paolo e Francesca. Allora, di là dal sovraccarico di
simbolismi di questi canti finali, un’interpretazione, certo romantica (ma in
verità la devo al lucido filosofeggiare di Borges) si fa strada. Che Dante
fosse un innamorato dell’amore, per le radici stilnovistiche della sua poesia
ma anche per la natura del suo animo. E innamorarsi significa avere una
religione il cui dio è fallibile, contraddittorio, irascibile, travolgente. Un
dio che può ben pararsi da ammiraglio e rinfacciare offese vere e inventate,
come fa Beatrice al primo incontro. Un dio che può essere severo e
inaccessibile, imperioso e infine dolcissimo. Sproporzionato è l’amore di Dante
per Beatrice: per lui lei fu tutto, per lei lui quasi nulla. Morendo
precocemente, gli diede agio di sognare tutta la vita di lei. E nel sogno
dilatato, quasi infinito, è ospitata la poesia della Divina commedia.
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