Le trasmissioni
televisive inondano d’immagini volte a esclusivamente a suscitare emozioni. Lo
stesso fanno i social network. In momenti simili è invece richiesta lucidità: per capire quali siano i nemici e stabilire la condotta da assumere per
combatterli. Occorre, è un dovere di civiltà, applicare le menti, senza distrazioni, a questa
operazione. Un aiuto in tal senso proviene dall’editoriale del volume 3/2015
di Limes, “Chi ha paura del califfo” di
cui riproduco qui solo l’incipit e la
fattiva conclusione. Si trova on line,
ma richiede di abbonarsi.
1. PER BATTERE I TERRORISTI ISLAMICI DOBBIAMO
CAPIRE CHE NON sono solo terroristi islamici. Certo, usano il terrorismo,
battezzato guerra santa, in nome dell’islam. Ma una tautologia non è
spiegazione. Il ricorso a una peculiare forma di violenza legittimata
dall’interpretazione strategica della propria fede caratterizza attori
geopolitici molto diversi, spesso conflittuali. Se stando alle categorie
correnti terroristi islamici sparano su terroristi islamici – come ad esempio
nella macelleria mesopotamica o in quella libica – forse conviene interrogarci
sulla pertinenza di tale definizione. Perché le battaglie si vincono sapendo
contro chi si combatte. Chi sbaglia nemico ha già perso.
Questo volume di Limes mette
in crisi le verità ricevute sulla Grande Paura del dopo-11 settembre. Le quali
si fondano sulla consolante bipartizione noi/loro. Su un fronte il mondo civile
– la fumosa «comunità internazionale», specie di fungibile determinazione, mai
cartografata perché incartografabile. Sull’altro, l’islam deviato da barbari
sanguinari, nemici dell’umanità – di passaggio anche della globalizzazione.
Semplice. Gratificante. Mobilitante. Un teatro strategico allestito e
confermato ogni minuto secondo dall’ortodossia mediatico/politica, tra Stati
Uniti ed Europa, Russia, India e Cina. Comune insomma ai poteri stabiliti del
pianeta, ciascuno variando sul tema in virtù della propria inclinazione. Nella
versione cara all’emisfero euroatlantico, il duello è ancora più secco:
Occidente contro Oriente. Per i più ispirati, cristianesimo contro islam.
Lettura bipolare che coincide, a valori rovesciati, con quella dei jihadisti e
con alcune pulsioni profonde che traversano la frastagliata ecumene maomettana,
«islamici moderati» compresi. Strano rimbalzo comunicativo.
Se noi non siamo loro né loro noi, perché propagande
contrapposte attingono alla medesima grammatica? Per compattare i fronti. E
confermarli nell’illusione che siano solo due. Bene e male, buoni e cattivi.
L’invettiva come analisi. Gioco straniante, che immaginiamo di dominare, mentre
restiamo prigionieri della tattica altrui, giacché rilanciamo goffamente la
palla che ci viene scagliata addosso dall’assai più sofisticata propaganda del “califfo”
e associati.
Ora, una nevrosi non è una strategia. Per curarla,
dobbiamo scavarne le radici. Archeologia dolorosa ma rivelatrice. Alla fine
troveremo di avere in comune interessi che non sappiamo ammettere. E scopriremo
che la contrapposizione fra noi e loro si muove all’interno di un circuito.
Ossimoro? Parrebbe di sì. Ma dalla fisica dei quanti sappiamo che l’interazione
temporanea fra due sistemi li muta entrambi, sicché dopo la separazione nessuno
resta ciò ch’era prima d’ibridare l’altro. Se non ce ne accorgiamo adesso,
mentre l’intrico è così stretto che quasi ci stordisce, lo dovremo stabilire
dopo, quando mai riuscissimo a emanciparci da un rapporto che non ci migliora. […]
Una strategia prudente, consapevole che il puzzle
libico non offre soluzioni nette e apprezzabili da tutti, impegnerebbe l’Italia
a evitare di aggravare la crisi con l’ennesima, precaria, esibizione
militarista. Il che non esclude operazioni di emergenza a protezione di
connazionali “dal basso”, a partire da quartieri o località da sigillare e
difendere dalle incursioni di miliziani d’ogni colore, per estendere la
relativa stabilità di aree contigue. Si colpirebbe così l’economia dei traffici
e del terrore, offrendo una prospettiva ai giovani senza lavoro e senza futuro
attratti dal soldo del “califfo” o di altri criminali.
Un impegno speciale merita la sacrosanta battaglia
contro il commercio di esseri umani. Da ingaggiare su più versanti. […] Daremmo
così prova di maturità. Perché non si dà terapia risolutiva contro la Grande
Paura. Tutti, in ogni momento, saremo e siamo esposti al terrorismo e a chi lo
manipola. E tutti siamo e saremo chiamati a reagire con calma determinata alle
sue provocazioni. Saper assorbire i colpi del nemico conta di più che
sparacchiare a caso nel mucchio terrorista. I capi jihadisti sanno che non
conquisteranno Roma né mai isseranno la bandiera sulla Casa Bianca. Quando ce
ne convinceremo anche noi e dunque scanseremo le sirene del controterrorismo
che perpetuano il nemico contro il quale dichiarano di battersi, avremo vinto
la nostra battaglia di civiltà”
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