Incollo sotto la recensione di un saggio di Maurizio Bettini (Contro le radici) che ho intenzione di comprare e leggere in questi giorni in cui la questione delle identità, del noi-loro, è al centro dell'attenzione. Mi sembra di capire che il saggio offra una visione un po' eccentrica rispetto a quelle cui sono abituata. La stessa messa in discussione delle radici come di un valore lo è. Sono molto curiosa.
Maurizio Bettini è un grande filologo e studioso del mondo antico che presenta, in questo piccolo libro, un saggio di grande eleganza per smontare con le armi della cultura (classica) gli stereotipi dell'identità e delle tradizioni, incarnate nella metafora delle radici. Una metafora potente ed efficace perché "permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione". E alle "visioni" create dalle radici sono dedicati i primi capitoli. Come avevano già capito gli intellettuali romani, le radici hanno una capacità quasi inesauribile di costruire intorno alla loro immagine campi semantici diversi: la fissità del radicamento, la continuità biologica con i discendenti (i rami), l'immutabilità, l'origine del nutrimento vitale, la base e la stabilità del sistema. Tutte caratteristiche che si trasmettono alle "tradizioni" nel momento in cui ne facciamo le nostre radici. E ha ragione Bettini quando scrive che proprio questo aspetto naturalistico conferisce un carattere "biologicamente primordiale" alla tradizione, che diventa parte dell'ordine naturale delle cose, altro totem da sempre rivendicato dai sistemi di pensiero assoluti. D'altra parte, la metafora biologico-naturalistica non nasconde il meccanismo di potere che la anima: natura e vita, fondamento e origine sono canali obbligatori di integrazione: non lasciano alternative alla costruzione di identità individuali, estendendosi a tutti, anche a chi non li sente o non li vuole. Le radici finiscono per rappresentare il "naturale e necessario fondamento" della nostra cultura, come atto autoritario di attribuzione di identità. In tal senso, rivelano la loro natura di "dispositivo di autorità". Il secondo punto meritorio dell'analisi di Bettini riguarda l'insistenza sulla natura artificiale ma indubbiamente culturale della tradizione. Se la tradizione non esiste nella realtà, esiste nella riproduzione orale e scritta di determinati moduli culturali selezionati da una casta dedita al ricordo, o meglio, specializza nella conservazione e nella riattualizzazione della memoria collettiva. Qui Bettini spiega bene un meccanismo che gli storici della cultura hanno da tempo indagato: la costruzione culturale delle identità collettive da parte di un nucleo ristretto, spesso sacerdotale, che, attraverso l'uso della scrittura e la fissazione di codici rituali, determina la memoria collettiva dei gruppi sociali. Ne costruisce anche la "tradizione", i miti di origine, i riti di appartenenza e le forme di esclusione. Naturalmente questo ceto prendeva di fatto la guida politica del gruppo, imponendo ai sudditi la selezione dei ricordi da loro prescelta. La tradizione identitaria si forma infatti per selezione di eventi ritualizzati, per scelte violente che implicano separazioni, de-cisioni, tagli di memorie che rintracciano l'origine di un popolo in un inizio mitico di purezza (esemplare l'analisi dell'origine dei romani narrata da Virgilio nell'Eneide). Con una serie di paradossi inevitabili quando si confrontano tradizioni diverse, insistenti sullo stesso luogo, per esempio Gerusalemme; o quando si studiano le origini inventate di identità etniche che hanno provocato scontri sanguinosi in epoche recenti (Hutu e Tutsi). Segnalerei solo tre piccolissimi punti critici del libro. Il primo è veniale e riguarda la riesumazione di alcuni lacerti oratori di Marcello Pera quando era presidente del Senato: va bene che bisognava ricostruire un pensiero medio, ma di Pera, fortunatamente, ormai nessuno ricorda più neanche l'esistenza (figuriamoci il pensiero). Il secondo è più di sostanza: Bettini a un certo punto avverte la gravità della scelta di quale "tradizione" trasmettere e raccomanda di scegliere "tradizioni sostenibili"; ma qui rischia di confondere tradizioni con "storie del passato" ("cosa si deve sapere del passato"), che sono due cose molto diverse: non esiste, purtroppo, un passato sostenibile, mentre è vero che si possono scegliere immagini tradizionali più civili e umanitarie di altre. Ma devono restare due piani separati. Il terzo elemento di perplessità è più ideologico: Bettini propone di sostituire il modello di tradizione verticale con uno "orizzontale", usando come metafora il fiume alimentato da affluenti diversi che insieme concorrono alla sua formazione. L'immagine ha un suo fascino e forse didatticamente è utile, ma si acconcia, come dire, ad accettare comunque un discorso sulle tradizioni, invece di smontarle sistematicamente, come una cultura critica non dovrebbe mai cessare di fare. Per questo non mi sento particolarmente toccato dall'esempio finale dove Bettini nota (con una punta di rammarico?) che a Corte, la capitale politica della Corsica, l'attrazione turistica abbia ormai del tutto cancellato la memoria di Pasquale Paoli e dell'identità corsa, rinchiusa in un museo. Non mi sembra un male in assoluto: a volte è meno dannosa una diluzione commerciale dei miti identitari che la conservazione ipostatizzata della loro memoria in qualche museo etnico.
Massimo Vallerani
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