IL
CONFLITTO FRA FORMA E VITA
La novella La trappola, che ho letto con voi la
volta scorsa, tratta il tema del conflitto fra la forma la vita. Si tratta di una tematica che
Pirandello declina in molte maniere, per tutta la sua produzione, mi spingerei
a sostenere, sin dall’inizio e per
quanto riguarda tanto la produzione novellistica, quanto quella teatrale,
quanto la saggistica, pensando ad esempio al saggio L’umorismo.
Proprio sul saggio,
allora, occorre a questo punto soffermarsi. Ampio e documentato, pubblicato una
prima volta nel 1908, e in edizione aumentata nel 1920 (tra l’altro è dedicato Alla buon’anima di Mattia Pascal,
bibliotecario) si occupa della
letteratura umoristica di varie epoche e varie nazioni, procedendo a svariati
distinguo che derivano per cominciare dalle differenze nazionali nel modo di concepire il riso.
Il
primo passaggio è etimologico: Pirandello fa notare che etimologicamente c’è un
nesso tra umore (da cui umorismo) e malinconia. “Umore” appartiene al lessico
della medicina antica, ippocratica, secondo la quale gli umori del corpo sono
quattro, ossia sangue, bile gialla, bile nera (malinconia, appunto), flemma
(catarro). Da questo procede la considerazione che appunto vi sia un nesso fra
umorismo e malinconia (la relazione, precisa l’autore, attiene alla sfera dello
spirito). Il termine umore è comunque usato normalmente in senso neutro, così
da richiedere necessariamente precisazioni attributive: umore buono o cattivo,
gaio, nero. I problemi e i dubbi interpretativi sul termine sorgono, sostiene
Pirandello, anche in altre lingue oltre all’italiana (inglese, francese e
tedesco) e alla fine tende a prevalere la faciloneria, la semplificazione: così
accade che per il grosso pubblico l’autore umoristico è quello che fa ridere. Nemmeno
vale, per introdurre un elemento utile di distinzione, usare al posto di
umorismo la parola ironia: infatti anche l’ironia è basilarmente distinta
almeno in due tipi, quella retorica e quella filosofica. La prima si esprime
per via di contraddizione, voluta e fittizia, fra ciò che si dice e ciò che si
vuole sia inteso. Quanto all’ironia filosofica, Pirandello ne fa risalire la
definizione a Federico Schlegel che la derivò dall’idealismo di Fichte [allievo
di Kant, primo dei tre idealisti, lui stesso, Shelling e Hegel,
che sono quasi contemporanei, ma le cui teorie si superano l’una con
l’altra, fino al culmine con Hegel;
quello di Fichte è stato definito da Hegel idealismo soggettivo in quanto l’Io è l’atto del porre
non solo la materia ma anche la forma dell’oggeto (tesi), del mettere in
contrapposizione a ciò che si è posto (antitesi), e del sintetizzare e comporre (sintesi)].
L’Io
(che in Fichte è la sola realtà), diventa in Schlegel quello che sa sorridere della vana parvenza dell’universo narrativo
che è lui a porre e, così come l’ha posto, può anche annullarlo: di qui
l’ironia filosofica di questo artista creatore che può ben prendere le distanze
dalla materia e dalla forma che sono sue, senza farsi zimbello delle creazioni,
ma ridendo di quella che chiama la farsa
trascendentale. Finalmente Pirandello si ritiene soddisfatto: il termine
farsa trascendentale, la definizione di ironia filosofica, riesce a dare conto
del concetto di umorismo, applicato alla letteratura, che Pirandello sta
cercando.
Allora,
cos’è un’opera d’arte davvero umoristica? Quale reazione produce nel lettore,
circoscrivendo l’analisi a quella letteraria? Per iniziare produce perplessità: si vorrebbe ridere, si
ride, ma il riso è come ostacolato dalla rappresentazione medesima. L’umorismo
è infatti, basilarmente, sentimento del contrario. Gli esempi, tratti
dalla letteratura, possono essere utili. Il personaggio di Don Chisciotte, per
cominciare. La sua figura è allampanata, egli è magro ed emaciato, vive in una
realtà modificata, prodotta dalla sua immaginazione sovreccitata da letture cavalleresche.
Per lui le osterie sono castelli, gli osti nobiluomini raffinati, le ostesse e
le servette gentildonne bellissime e gentili. Come se non bastasse, cerca di
farsi ordinare cavaliere da chicchessia e ingaggia improbabili combattimenti
persino con i mulini a vento in cui vede furiosi giganti. Il lettore ride di lui ed è, quel suo riso, pervaso di sentimento del
contrario, nel quale si fondono commiserazione, pena e persino ammirazione (non
dimentichiamo che donchisciottesco è
un aggettivo abbastanza positivamente connotato). I lettori sentono che don Chisciotte è il contrario di quello
che dovrebbe essere, e che il suo autore l’ha inventato così per generare questa perplessità nel lettore: un vecchio che dovrebbe starsene
tranquillo a casa, a leggere i suoi libri, e invece va in giro per il mondo a
mettere in pratica una fantasia. Analogamente don Abbondio: è un personaggio
genuinamente umoristico, perché rappresenta, e il lettore perviene a questo
sentimento, il contrario di quello che un vero uomo di chiesa dovrebbe essere
(e il romanzo ne incarna ben due versioni: fra Cristoforo e il Cardinale
Federigo Borromeo. Il vero scrittore umorista riesce a fare in modo che il
sentimento del contrario attivi una riflessione. Solo così l’umorismo si
esplica al suo massimo grado: interessato all’ombra più che al corpo.
Infine, Pirandello distingue in
modo chiaro fra umoristico e comico. La categoria del comico è più semplice: si
tratta di avvertimento del contrario. Coincide con una prima fase percettiva,
quella che suscita un riso immediato, irriflessivo. Il riso che nasce spontaneo
vedendo la “vecchia signora, coi capelli ritinti,
tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente
imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto"
che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora
dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a
questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del
contrario". Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che
quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un
pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente,
s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non
posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me,
mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro:
da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e
l'umoristico.”
Dunque ridiamo perché avvertiamo che la vecchia signora è il contrario che
dovrebbe essere: è un riso immediato e spontaneo, quello di cui si nutre appunto
il comico. Poi però, quando subentri la riflessione, che ci fa intendere perché
la vecchia signora si acconci così, il sentimento del contrario ci consente di
accedere alla percezione umoristica.
E ora torniamo alla forma e alla vita, attraverso l’umorismo.
Da quanto
abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della riflessione
nell’umorista, appare chiaramente quale dell’arte umoristica necessariamente
sia l’intimo processo.
Anch’essa
l’arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la vita:
la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto il
paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità
degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?
L’arte in
genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come
delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che
tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o
almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che
muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti,
assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo
lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche,
così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo,
combinato congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine?
la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro:
l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E
secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi
riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del
nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero,
ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi della vita.
Sì, un poeta
epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta
elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un
carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa
proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre
quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a
rappresentarlo nelle sue incongruenze.
L’umorista non
riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi;
egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la
storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più
ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte
a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole.
Il mondo, lui,
se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia: in camicia il re,
che vi fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con
lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino; e non componete con
troppa pompa nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perché egli è capace
di non rispettar neppure questa composizione tutto questo apparato; è capace di
sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel
morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglio lugubre
nel ventre, e d’esclamare (poiché certe cose si dicono meglio in latino):
-
Digestio post mortem.
187 - La carriola
Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi
guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi
d’addosso.
Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che
stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che
per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al
momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi
assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un
attimo mi libera e mi vendica di tutto.
Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere
solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se
scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile.
Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi
trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.
Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto
fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.
Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di
gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia
opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono
gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere
come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo
dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia obbedienza
inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno piú serio dell’altro,
di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato. Guai,
dunque, se il mio segreto si scoprisse!
La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche
giorno, non mi sento piú sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero
che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è
così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro
accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.
Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio,
può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si
sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me.
Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.
Ritornavo, quindici giorni or sono,
da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.
Uno degli obblighi miei piú gravi è quello di non avvertire la
stanchezza che m’opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi
hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di
distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto reclama. L’unica che
mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui
attendo da tempo, è quella di volgermi a un’altra nuova.
M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune
carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo
alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo
fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano;
vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della
campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi
vedevano.
Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella
che prestavo alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi
s’avvistasse di piú lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli
occhi limpido, lieve, riposante.
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai piú a nulla: restai,
per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur
chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una
lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non
gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto
esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita
remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava
il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima
svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura,
quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio,
insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con
palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora,
sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per
godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.
Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi,
e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico
forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e
arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo,
con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel
quale gli aspetti delle cose piú consuete m’apparvero come votati di ogni
senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, insopportabile.
Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile
che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa.
Ebbene, fu nella scala della mia
casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.
Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di
bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto
dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi
a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e
per non riconoscerla come mia.
Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo
che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio,
l’uomo che abitava là in quella
casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto
d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo,
non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto;
non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia,
da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale
adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve
estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura,
per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da
cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente,
il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva
fatto così, quell’uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo
vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva
imposto tutti quei doveri uno piú gravoso e odioso dell’altro? Commendatore,
professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e
ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti
si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro –
ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m’importava di tutte le brighe
in cui quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto,
di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e
della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso
adempimento di tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione?
Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale
d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti
i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo
tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora
vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero
stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa
certezza) quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era
moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di
quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto
un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o
afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti
qua doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì,
fors’anche la moglie...
Ma i ragazzi?
Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano,
penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo
ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio
consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce
afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo
insoffribile che stava davanti alla porta.
Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche
in quella casa e nella vita di prima.
Ora la mia tragedia è questa. Dico
mia, ma chi sa di quanti!
Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la
propria vita, è segno che non la vive piú: la subisce, la trascina. Come una
cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.
Pochissimi lo sanno; i piú, quasi tutti, lottano, s’affannano
per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala,
credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo
sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi piú da quella
forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono
d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che
gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è
nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è
piú in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma,
senza vederla. e morremmo ogni giorno di piú in essa, che è già per sì una
morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di
noi è morto. Conoscersi è morire.
Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto;
vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno
data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata
mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello,
un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro,
perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io
mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta
che mai non è stata mia: – Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai? – E ho
nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di
questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare.
Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non
m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi;
forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me,
sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi
schiacciano e non mi fanno piú respirare.
Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto,
e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.
Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che
ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto
resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le
conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa,
irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di
esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi piú liberarti?
Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale
sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano,
accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una
forma: che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli
che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev’essere questa,
per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai
signori studenti universitari della facoltà di legge, ai signori clienti che
m’hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non
posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi,
vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel
massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento
opportuno, che nessuno mi veda.
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa,
bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla
vecchiaja.
Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima,
essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori
per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto
che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora
ruzzare con lei giú nel giardino, aveva preso da un pezzo il partito di
rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto
aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e
sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:
«Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro
che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.»
Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di
compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono,
all’improvviso, nel vedermi guardato così.
Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena
qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio
seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la
mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera
dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo
seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se
qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momento solo; gli
occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per
concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un
attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare
per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi
soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto;
piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le
faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non
piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire
l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul
seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima,
carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a
mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle
intendere – ripeto – che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi
così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi.
Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi,
per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.
Questa
novella racconta la tragedia d’un uomo vivo. La tragedia del protagonista della
carriola consiste nel sentirsi nella trappola descritta nell’omonima novella.
Una funzione pubblica, un lavoro importante, le necessità familiari, fanno di
lui un manichino della forma, una cristallizzazione della medesima. La vita è
altrove, scorre imperiosa e magmatica, una follia, un esser pazzo che il
protagonista sente essere una possibilità al di fuori di sé, ma in verità così
in armonia con sé da fargli provare una pena infinita a pensare che proprio
essa gli sia preclusa. Così, per uscire dalla trappola della forma imposta e riconosciuta da tutti, con l’eccezione di
chi la detiene, crea uno spazio libero, una zona autonoma, e la riempie di un
significato vero, istintivo originario: quello che proviene da un gesto poco
civilizzato, infantile, che si colloca del tutto di là dalla norma e dalla
convenzione. Nessuno però deve saperlo. Lo scotto da pagare, in questi casi, è
alto. Si deve avere il coraggio di uscire completamente dai propri panni, di
rischiare di rimanere nudi di fronte a tutti.
Altra
ancora è la tragedia di quelle creature dalla bizzarra esistenza che sono i
personaggi, ai quali ora ritorniamo. I personaggi cercano un loro status, e
ovviamente faticano a trovarlo, dato che
altro non sono che ossimori: personaggi vivi, che però non è dato sapere dove e
come siano vissuti per conquistarsi simile status. Non umbrae futurorum e nemmeno praeteritorum. I
personaggi possono ripetersi, devono ripetersi per esistere, e per loro la
forma non è una trappola, non è un rapprendersi inquietante, doloroso, da combattere
con qualche gesto inconsulto. Per i personaggi vivere non è cadere in una
trappola. La loro superiorità rispetto ai vivi pare, da un certo punto di
vista, incommensurabile. Un uomo può ben essere nessuno, ove si sia perso di
vista per via dei cambiamenti che
intercorrono nel tempo; può quindi accadere di interrogarsi su ciò che si
è stati, rispetto a persone e scelte, e
non saper più rispondere, non saper più perché ci si è comportati in un certo
modo. Il dubbio di non saper chi si sia, di non essere nessuno, o di essere
troppi per essere qualcuno, per cui poi centomila diventa nessuno. Il
personaggio, sotto questo profilo, detiene un’unicità: è uno specifico
personaggio, non il personaggio del figlio, ma il personaggio figlio, che
rivive solo se stesso. Sono simili, per certi aspetti, ai dannati danteschi:
portano, nella loro interiorità e nella memoria, il preciso ricordo di quello
che sono stati e che possono-devono rivivere continuamente per garantirsi
un’esistenza. Il loro è un eterno presente e la dimensione in cui lo vivono non
si colloca da nessuna parte, al di fuori delle parete di un teatro. Esistono
solo se parlano, e a garantire la loro
permanenza al mondo è la voce. Voler
morire, come proclama il Figlio è, da parte loro, un paradosso. Eppure il
nostro umorista conduce la rappresentazione anche i questa direzione, il figlio
viene pungolato a far parte della rapprentazione, a far esistere anche la
morte, a farla svolgere in quel chissadove chissaquando al quale il
palcoscenico garantisce status e sostanza.
"Povero
amorino mio, tu guardi smarrita, con codesti occhioni belli: chi sa dove ti par
d'essere! Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos'è un palcoscenico? Ma, vedi?
un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora
la commedia. Sul serio, sai! Anche tu...
L'abbraccerà,
stringendosela sul seno e dondolandosi un po'.
Oh
amorino mio, amorino mio, che brutta commedia farai tu! che cosa orribile è
stata pensata per te! Il giardino, la vasca...Eh, finta, si sa! Il guajo è
questo, carina: che è tutto finto, qua! Ah, ma già forse a te bambina, piace
più una vasca finta che una vera; per poterci giocare, eh? Ma no, sarà per gli
altri un gioco; non per te, purtroppo, che sei vera, amorino, e che giochi per
davvero in una vasca vera, bella, grande, verde, con tanti bambù che vi fanno
l'ombra, specchiandovisi, e tante tante anatrelle che vi nuotano sopra,
rompendo quest'ombra. Tu la vuoi acchiappare, una di queste anatrelle... (dai Sei personaggi in cerca d'autore)
Nessun commento:
Posta un commento