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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

giovedì 24 marzo 2016

MODELLO DI TEMA SVOLTO - TIPOLOGIA B1

MODELLO DI SVOLGIMENTO DI TIPOLOGIA B – AMBITO ARTISTICO-LETTERARIO (realizzazione mia)
ARGOMENTO: Amore, odio, passione.
G. KLIMT, Il bacio, 1907-08
G. DE CHIRICO, Ettore e Andromaca, 1917
P. PICASSO, Gli amanti, 1923
«Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.»
Alessandro MANZONI, I promessi sposi, 1840-42
«Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza, e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
- Sentite! le disse, non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo!
Ammazzami, rispose la Lupa, ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all’anima vostra! balbettò Nanni.»

Giovanni VERGA, La Lupa, in Vita dei campi, 1880
«Ella pareva colpita dal suono insolito della voce di Giorgio; e un vago sbigottimento cominciava a invaderla.
– Ma vieni!
Ed egli le si appressò con le mani tese. Rapidamente l’afferrò per i polsi, la trascinò per un piccolo tratto; poi la strinse tra le braccia, con un balzo, tentando di piegarla verso l’abisso.
– No, no, no...
Con uno sforzo rabbioso ella resistette, si divincolò, riuscì a liberarsi, saltò indietro anelando e tremando.
– Sei pazzo? – gridò con l’ira nella gola. – Sei pazzo?
Ma, come se lo vide venire di nuovo addosso senza parlare, come si sentì afferrata con una violenza più acre e trascinata ancóra verso il pericolo, ella comprese tutto in un gran lampo sinistro che le folgorò l’anima di terrore.
– No, no, Giorgio! Lasciami! Lasciami! Ancóra un minuto! Ascolta! Ascolta! Un minuto! Voglio dirti...
Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. Sperava di trattenerlo, d’impietosirlo.
– Un minuto! Ascolta! Ti amo! Perdonami! Perdonami!
Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte.
– Assassino! – urlò allora furibonda.
E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera.
– Assassino! – urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l’orlo dell’abisso, perduta.
Il cane latrava contro il viluppo.
Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo.
E precipitarono nella morte avvinti.»

Gabriele D’ANNUNZIO, Il trionfo della morte, 1894
«Emilio poté esperimentare quanto importante sia il possesso di una donna lungamente desiderata. In quella memorabile sera egli poteva credere d’essersi mutato ben due volte nell’intima sua natura. Era sparita la sconsolata inerzia che l’aveva spinto a ricercare Angiolina, ma erasi anche annullato l’entusiasmo che lo aveva fatto singhiozzare di felicità e di tristezza. Il maschio era oramai soddisfatto ma, all’infuori di quella soddisfazione, egli veramente non ne aveva sentita altra. Aveva posseduto la donna che odiava, non quella ch’egli amava. Oh, ingannatrice! Non era né la prima, né – come voleva dargli ad intendere – la seconda volta ch’ella passava per un letto d’amore. Non valeva la pena di adirarsene perché l’aveva saputo da lungo tempo. Ma il possesso gli aveva data una grande libertà di giudizio sulla donna che gli si era sottomessa. – Non sognerò mai più – pensò uscendo da quella casa. E poco dopo, guardandola, illuminata da pallidi riflessi lunari: – Forse non ci ritornerò mai più. – Non era una decisione. Perché l’avrebbe dovuta prendere? Il tutto mancava d’importanza.»
Italo SVEVO, Senilità, 1927, 2 (1a ed. 1898)
Saggio destinato alla sezione Cultura di “Repubblica”
Titolo:
Amare a morte: gli indistinti confini tra amore e odio
Spesso i confini fra sentimenti classificati come opposti risultano, alla percezione individuale come a quella collettiva, indistinti. Lo dimostra, più o meno dolorosamente, la vita di ciascuno, mentre  da secoli l’arte occidentale trae alimento e suggestione da questa contraddittoria esperienza: odi et amo, constatava Catullo nel I secolo a. C., esprimendo così il lucido tormento del suo spirito, destinato peraltro a declinarsi variamente e quindi a sublimarsi nell’esperienza poetica del Liber. Si intravvede, nel dualismo apparente, l’elemento accomunante, il quid dal quale non si può prescindere: odio e amore sono passioni, la cui nota dominante è l’intensità. Tanto l’odio quanto l’amore, nelle loro espressioni meno profonde, cambiano nome, si trasformano in insofferenza l’uno, affetto l’altro, e sono passibili di controllo da parte di chi li prova. Viceversa, nella loro pura manifestazione, possono giungere a travolgere la ragione, a dettare atti inconsulti e immorali,  e per questo la filosofia classica ammoniva a non divenirne preda, insegnando all’auriga a tenere a freno le impennate del cavallo nero 1.
È inevitabile, in una disamina di sentimenti estremi quali odio e amore nella dimensione artistica, volgere principalmente l’attenzione al periodo romantico: si rende così omaggio a quello che pare essere il cuore pulsante del movimento o, per meglio dire, della categoria dello spirito che in esso trovò espressione epocale.  In epoca romantica si elaborano nuove concezioni del bello, creatività e intuizione sono considerate, al pari dei sentimenti, i veri alimenti dell’arte: è una rivoluzione culturale di lunga durata e dalle molteplici sfaccettature, una delle quali si volge nella direzione della realtà. Indagare quest’ultima, ora nella sua manifestazione storica ora in quella sociale ora in quella psicologica, è una delle missioni che  gli artisti definibili, a diverso titolo, romantici si assumono. L’approfondimento delle dinamiche di odio e amore, l’indagine delle passioni sono al centro della produzione di scrittrici come Emily e Charlotte Brontë, rispettivamente autrici di Wuthering Heights e Jane Eyre, di Jane Austen  con Emma  Pride and Prejudice: Cathy e Heathcliff, per limitarsi a loro, sono un esempio classico di “amore a morte”, più ancora che di “amore e morte”, nel senso che il loro amore è distruttivo per la vita di entrambi, e non a caso nel testo ricorre l’immagine dell’inferno, piuttosto che quella del paradiso, come luogo d’elezione per il coronamento della loro infelice storia. Viene qualche volta  il dubbio, leggendo il romanzo, che di amore si tratti, non fosse per l’insistenza con cui l’Autrice sottolinea il legame inestinguibile che li tiene avvinti: “non posso vivere senza la mia anima” è l’indimenticabile esclamazione di Heathcliff dopo la morte di Cathy, e la forza con cui s’incide nella memoria dei lettori, segno dell’intensità che v’impresse la scrittrice, basta a testimoniare che sicuramente di passione si tratta, benché appunto anche i protagonisti non sappiano darle un nome preciso.
A confronto con l’intensa partecipazione emotiva documentata dall’esempio di Wuthering Heights, l’amour fou di Egidio per Gertrude, ellitticamente evocato da un Manzoni interessato a ben altre questioni che all’amore a morte, fa da classico contraltare. Nel sapientemente dosato linguaggio manzoniano l’intrapresa, gravida di insidie per la morale di chi legga, oltre che allusa è comunque icasticamente definita: è così empia da suscitare, in un carattere come quello di Egidio, un godimento anticipato. L’Autore lascia all’immaginazione del lettore colmare gli spazi vuoti lasciati dalle sue parole: in quelli possiamo dipingere il volto di un personaggio sadiano, un conte di Dolmancé alle sue prime prove 2, compiaciuto di valicare confini inaccessibili ai più. Gli stessi che si rifiuta di superare Manzoni, limitandosi ad accennare a una storia che pure scrisse, ma emendò1, lasciando quale unica traccia di una passione ospitata tra le mura di convento la taccia di empietà e di scelleratezza per i suo protagonisti.
Nel pieno della passione, oltre ad annullarsi i confini tra odio e amore, può capitare di imbattersi nella morte: tanto Verga nella novella La lupa quanto D’Annunzio nel Trionfo della morte lo documentano ampiamente. Lasciarsi avvincere dal sentimento, possedere totalmente da lui, è un’esperienza originaria, ancestrale, fatta apposta per soggetti come certi contadini verghiani, che paiono appena partoriti dalla Terra e impregnati dei suoi tellurici umori; d’altro canto, quando è il corpo a parlare, anche le sovrastrutture culturali crollano e viene alla luce l’istinto nudo: nella coppia Giorgio e Ippolita che precipitano nell’abisso, D’Annunzio rende consapevole lui, recalcitrante lei, in omaggio a una sua visione superomistica del mondo, ma soprattutto rappresenta un infruttuoso tentativo di ritorno alla natura, dopo troppe concessioni alla cultura. L’amore, pensa Giorgio, non potrebbe che banalmente estinguersi, l’uggia subentra al sentimento estremo ch’egli vorrebbe eternare e, dove non può più riuscire l’arte, deve allora trionfare la morte. Quella dannunziana è anche  una rivolta contro lo spirito borghese, ottuso nei riguardi di manifestazioni primordiali dell’essere come la passione amorosa, ovvero incline a irreggimentarla in forme rassicuranti, dal matrimonio alla prostituzione, purché riconosciute dalla società.
Se c’è sempre  qualcosa di barbarico e ancestrale nell’avvinghiamento dei corpi,  di cui non si comprende se lottino accanitamente o appassionatamente si amino, nulla di questo trapela dal quadro di Klimt Il bacio, spiritualmente affine piuttosto al Piacere di D’Annunzio. Al romanzo del Vate  lo accomuna la sensualità raffinata e coltivata, che nulla lascia al caso, cospargendo di rose il talamo destinato agli amanti e studiando anticipatamente abbigliamento e gesti, come in una recita in cui tutto dev’essere naturalmente artificioso (o artificialmente naturale). Siamo agli antipodi della ferinità, dell’ancestrale, anche se resta il sentore di una confusione, l’avvertimento di una commistione che è forse troppo reale, cioè troppo radicata nell’umano, perché si possa fingere che non esista. Anche il protagonista di Senilità di Svevo, Emilio, un borghese alla ricerca di artistiche emozioni, deve prender atto di questo, e lo fa nell’unico modo concessogli dalla sua forma mentis: recrimina sul possesso raggiunto, idealizza la fase precedente, la tensione dell’innamoramento, rispetto alla quale il congiungimento col corpo dell’amata (o dell’odiata, com’egli insinua) risulta del tutto inappagante. Svevo rappresenta  in questo romanzo, come farà più compiutamente con La coscienza di Zeno, il tragico allontanamento dell’uomo dalla Natura: quell’uomo che esce  dalla casa della donna appena posseduta pensando che “non sognerà mai più” è un disadattato nel senso più originario del termine. Non è adatto alla vita e non lo è all’amore, né mai potrà comprendere se e dove siano i confini fra l’odio e l’amore. È un inetto e uno che non potrà mai diventare un artista, perché proprio dell’arte è voler essere il sogno di tutti e non temere l’indeterminatezza dei confini che nemmeno la natura ha voluto tracciare per noi.
In questo, forse, risiede una delle possibili forme di libertà per l’uomo: quella di provare, e quindi denominare, i sentimenti e le passioni. Di là dalle classificazioni offerte dalla religione o dalla morale, di là dalle disquisizioni della filosofia, gli esseri umani continueranno ad amarsi e odiarsi in tutti i modi possibili finché (o perché) la morte non li separi.



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