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venerdì 4 marzo 2016

MODELLO DI TESINA SULL'HARAKIRI O SEPPUKU


È nota con il nome di Harakiri o Seppuku una forma di suicidio rituale sviluppatasi e praticata in Giappone fin dall’epoca medievale.
Il termine Harakiri è la forma di lettura più colloquiale di due kanji che significano rispettivamente addome e taglio. Gli stessi simboli in ordine inverso si leggono Seppuku, utilizzando la così detta pronuncia on, ovvero il modo giapponese di rendere i caratteri cinesi, usata nei termini ufficiali.
La parola descrive dunque il metodo con cui veniva attuato tale suicidio: chi lo compiva si squarciava l’addome, l’Hara, da sinistra a destra e poi verso l’alto usando la tipica spada corta giapponese, il wakizashi.

Ci sono documenti recanti testimonianze di suicidio effettuato con una tipologia che poi è stata ufficializzata nel Seppuku già a partire dal XII sec d.C.
Il primo caso noto è registrato nell’ “Hogen Monogatari” (Storia sulla Guerra Civile di Hogen), cronaca di una guerra avvenuta nel 1156, scritta tra il 1185 e il 1190. In essa si narra di come il guerriero Minamoto no Tamemoto si uccise dopo la sconfitta pur di non cadere in mani nemiche, sebbene non utilizzando la ‘forma corretta’ che ancora non era stata istituzionalizzata.

Il Seppuku è forse noto, soprattutto in occidente, nella forma usata dai Samurai, la classe di nobili guerrieri del Giappone medievale: addestrati fin dall’infanzia alle arti della guerra e alla massima disciplina, davano enorme importanza al loro senso dell’onore, e il Seppuku era utilizzato spesso in situazioni in cui il samurai veniva sconfitto in battaglia [soprattutto nelle epoche di continue guerre civili precedenti l’era Tokugawa], come forma di morte onorevole, sempre preferibile alla cattura da parte del nemico. Era un atto specificatamente previsto dal codice di comportamento del samurai, il Bushido (Via del guerriero, 武士道).
Era anche l’atto di espiazione con cui si pagava l’infrazione dei principi di questo stesso codice.

Esistono diverse classificazioni del seppuku basate sul motivo dell’atto o sul metodo di esecuzione.

Il primo viene chiamato Chugi bara (Chugi = lealtà; bara = contrazione di Harakiri), ed è l’atto di seppuku compiuto per fedeltà al proprio daimyo. Si divide a propria volta in due categorie: il Junshi rappresenta l’autoimmolazione alla morte del proprio signore per seguirlo nella tomba come atto estremo di fedeltà; il Kanshi è invece il suicidio compiuto con un proposito di rimostranza e protesta.
Soprattutto il Junshi è una prova della forza dei legami feudali dell’epoca: non sempre risultava spontaneo in realtà, ma era un gesto molto praticato. Solo al sopravvento dell’epoca Tokugawa e in particolare durante il governo del primo Shogun Tokugawa Jeyasu, che fu in grado di stabilire e mantenere la pace, questa pratica fu legalmente e severamente proibita perché considerata uno spreco inutile di vita umana.

C’è poi il Sokotsu-shi, ovvero il seppuku di espiazione. Era una forma onorevole, e come tale riservata prevalentemente ai Samurai, di condanna a morte in caso di crimini o contravvenzioni alle regole e leggi. Sostituiva le forme più comuni e umilianti dell’impiccagione e della decapitazione.
Questa forma di Harakiri iniziò ad essere praticata nell’era Yoshino (1336-1392), la così detta ‘era dei due imperatori’, caratterizzata da violente guerre civili. Si trovano in alcuni documenti giuridici di quest’epoca, in particolare del periodo Ashikaga, prove del fatto che il seppuku, ormai stigmatizzato in una serie di regole e gesti cerimoniali estremamente precisi e complessi, fosse stato preso come forma di punizione onorevole riservata ai Samurai.
In particolare fu però dopo la proibizione del Junshi nel 1663 da parte dello Shogunato di Jeyasu che il seppuku perse il sui significato di sacrificio per una causa d’onore, assumendo quello di onorevole punizione.
Questo tipo di punizione conobbe ampia diffusione nell’era Tokugawa, caratterizzata da rigidissime regole sociali: minime infrazioni di queste potevano portare alla condanna al Sokotsu-shi.

Infine c’è ancora il Munen-bara, il seppuku di mortificazione, con cui si volevano esprimere sentimenti quali odio, ira o risentimento nei confronti di una persona o un fatto ritenuto ingiusto. Funshi, ovvero seppuku di indignazione, è un altro nome attribuito a questa categoria.

Dunque, i casi di Harakiri sono davvero molto numerosi, e le ragioni che li hanno provocati possono sembrare, a occhi occidentali, non abbastanza importanti da valere la perdita della vita.
Nel caso del Chugi bara e di alcuni casi di Sokotsu-shi la causa è spesso da ricercare nei rigidi vincoli feudali e nelle altrettanto rigide e formali regole dei rapporti sociali.
Più in generale, è una questione strettamente legata alla mentalità giapponese, in particolare al senso estremo di onore della classe nobile.
A dimostrazione di ciò, la scelta di una forma di suicidio oggettivamente molto dolorosa e connessa ad un preciso cerimoniale.
Nell’epoca medievale, le condanne a morte venivano generalmente eseguite tramite impiccagione o decapitazione, ma entrambe le pratiche erano considerate estremamente umilianti dai guerrieri.
L’Harakiri era invece una dimostrazione estrema di coraggio e autodisciplina, soprattutto quando ancora non era stata inserita la figura del kaishaku, lo spadaccino incaricato di tagliare la testa al condannato dopo che egli si era praticato il taglio all’addome, per accelerarne la morte. Ma in particolare la scelta dell’Hara come punto da colpire ha altre ragione, profondamente radicate nelle credenze giapponesi. Si riteneva infatti che l’addome fosse sede dell’anima e di tutte le principali emozioni.
Come già detto Harakiri significa letteralmente ‘taglio dell’addome’. La parola hara presenta una radice comune con hari, che significa ‘tensione’: la tensione dell’addome era associata con l’idea di anima e vita. Maggiore era la vitalità di una persona, maggiore era in essa tale tensione. Inoltre il ventre rappresenta anche il centro fisico del corpo e ciò contribuiva alla credenza per cui l’addome era sede di volontà, pensiero, generosità, coraggio, spiritualità, paura, aggressività…
È per di più un concetto condiviso anche in altre culture, come si può notare osservando alcune parole di altre lingue straniere… (greco, francese, ebraico.)
L’Harakiri risulta dunque essere una forma di suicidio che colpisce direttamente l’anima, il centro delle emozioni: è un colpo fatale che toglie la vita e nel contempo purifica l’anima.
Inoltre, il dolore provocato dall’atto sottolineava il coraggio di chi lo attuava e nel contempo era una forma di espiazione dei peccati, ricollegabile ai principi di austerità, umiltà e mortificazione zen.
[necessaria anche molta umiltà da parte di un samurai per accettare una sentenza di morte e compiere il seppuku -> Pavese.]

Insomma, la concezione giapponese di suicidio è totalmente diversa da quella occidentale in ogni sua forma.
In Europa, il gesto di togliersi la vita è sempre stato interpretato come una prova estrema dell’incapacità di una persona di adattarsi alla propria vita, una via di fuga da un’esistenza che portava soltanto dolore.
Era anche severamente condannato dalla Chiesa cattolica e tradizionalmente punito con l’Inferno, come insegna Dante, pur facendo un’eccezione per il personaggio di Catone.
Gli esempi di suicidio che si trovano in letteratura hanno dunque valenza ben diversa da quella dell’Harakiri, che non era affatto una fuga dalla vita, ma più un modo di porvi fine volontariamente pur di non vivere nel disonore.
Anche l’idea alfieriana del suicidio, visto come un’affermazione suprema di libertà umana e dunque in qualche modo nobilitato rispetto alla concezione fortemente negativa che solitamente lo caratterizza, è fortemente distaccata dalla visione orientale. La profonda e immutabile incompatibilità tra le due interpretazioni del gesto deriva di fatto dal retroterra culturale totalmente diverso degli orientali.
Ancora, il tipo di suicidio che emerge con il Romanticismo e con alcuni suoi personaggi fondamentali, tra cui in particolare risaltano Werther e Jacopo Ortis, risulta ancor più evidente.
Queste differenze di fondo, di concezione e mentalità, sono reali e innegabili. Volendo tuttavia cercare una sorta di collegamento tra il suicidio orientale e quello occidentale, si può prendere in esame il caso particolare dello Shinju, il doppio suicidio d’amore.

Si tratta di una forma di seppuku molto particolare e piuttosto rara, in cui è forse possibile trovare una maggiore somiglianza con la concezione occidentale.
Letteralmente il termine significa ‘nel cuore’. Il significato più esteso implica che se il cuore è stato messo a nudo, esso non può che mostrare la propria estrema devozione all’amato o all’amata. Da questo la traduzione più ampia ‘rivelare la morte del cuore’.
È un tipo di suicidio che si può spiegare con il fatto che nell’epoca Edo, i rapporti tra uomini e donne erano ridotti al minimo, e nulli al di fuori del matrimonio. Anche all’interno di esso, la donna era spesso considerata un semplice mezzo di procreazione, nulla di più, dunque l’amore era bandito dalle relazioni.
Lo Shinju nacque proprio come affermazione di protesta a questo aspetto della società: le coppie di amanti venivano ostacolate in ogni modo possibile dalla collettività nelle loro relazioni, e talvolta potevano arrivare a scegliere il suicidio comune per ‘rivelare il cuore’.
Era praticato generalmente da membri della classe borghese, in quanto la disciplina Samurai avrebbe impedito a qualcuno di quella casta di abbassarsi ad un simile disonore, tuttavia lo Shinju non va per questo considerato una ‘brutta copia’ del seppuku riservata alla borghesia. Era una pratica a sé, sviluppatasi quando, nel clima di estremo formalismo feudale di quell’era, le classi più basse cominciarono a desiderare di essere considerate maggiormente. Nel gesto del doppio suicidio d’amore, essi trovavano quel senso di esaltazione suscitato dal morire per un ideale che i Samurai avevano trovato a loro volta nel seppuku.
Inoltre, la consapevolezza del fatto che nessun potere appartenente all’ordine costituito fosse in grado di opporsi alla morte, e dunque alla scelta di morire di chi decideva di compiere lo Shinju, dava alla gente comune un senso di esaltazione e chiarificazione, nonché una giustificazione dell’ineluttabilità della morte.
La differenza più estrema tra seppuku e Shinju è comunque legata al fatto che mentre il primo rappresentava il fiore all’occhiello della società feudale e del codice Samurai, il secondo era nato come una disperata forma di opposizione a quella stessa società, che negava di fatto l’umanità, tentando di minimizzare i sentimenti umani.

Da questo punto di vista si può riscontrare una forte affinità tra lo Shinju e il suicidio trattato dalla letteratura romantica.
Il Romanticismo è movimento culturale, artistico e letterario dai mille volti, non lo si può chiudere in una definizione univoca. Tra le altre cose, esso celebra la spontaneità dei sentimenti umani e un forte gusto introspettivo. Vi è l’idea della scoperta, nell’interiorità di ciascuno, di un’energia particolare, di uno slancio vitale soffocato da secoli di civiltà. Eppure in alcuni casi e in alcuni personaggi romantici, questa forza vivificante termina la sua parabola con il suicidio.
Infatti, il contrasto che può venirsi a creare tra l’interiorità di un singolo e il contesto storico e sociale in cui egli vive, come anche l’incapacità di adeguare i propri sentimenti e comportamenti alle regole convenzionali dell’epoca, portano in animi sensibili come quelli di Werther e Jacopo la netta sensazione di non essere adatti al proprio tempo.
La vicenda creata da Goethe rappresenta con grande chiarezza il contrasto interiore di Werther, la lotta tra l’amore insopprimibile che egli prova per Lotte e la consapevolezza razionale che, date le circostanze e le restrizioni sociali che li circondano, esso sia destinato a rimanere un amore impossibile. Lotte sposerà Albert, e l’estremo gesto di Werther è espressione del dolore intollerabile che serra il giovane e della sua volontà di liberarsene, rinunciando alla vita poiché non esiste altro modo.
Il tormento di Werther non è poi così incompatibile con il genere di vicende che, in Giappone, con pochi secoli di disparità temporale, portavano coppie di innamorati a compiere lo Shinju.
Analogamente la vicenda foscoliana di Jacopo Ortis ben si accorda a questa visione del suicidio. In aggiunta alla questione dell’amore impossibile, vi è però in Foscolo anche il tema della delusione storica e sociale delle vicende del suo tempo, la totale mancanza di volontà di vivere: non c’è nulla che spinga Jacopo a restare aggrappato alla vita. Così come anche Werther egli sceglie la morte, in un gesto che è grido di dolore e protesta contro la società che sbaglia nel voler definire troppo rigidamente i rapporti sociali e sentimentali.



Yukio Mishima (1925-1970)

Nato Hiraoka Kimitake, Mishima è stato uno scrittore e drammaturgo giapponese di fama internazionale, divenuto particolarmente famoso per via della sua eclatante morte, avvenuta il 25 novembre 1970 tramite seppuku, compiuto in diretta televisiva.
Suo padre era un ufficiale del governo giapponese che ostacolò a lungo la sua passione per la letteratura, spingendolo in direzione degli studi di giurisprudenza, ragione che lo indusse a pubblicare le sue opere con uno pseudonimo.
A circa un mese dalla nascita, la nonna paterna Naoko Hiroaka lo prese con sé per crescerlo, permettendo alla madre di vederlo solo per l’allattamento. Solo nel 1937 poté tornare alla famiglia, per via di una malattia che aveva colpito la nonna, che morì poi due anni dopo.
L’influenza di Naoko segnò profondamente la vita e la scrittura di Mishima. Derivano infatti fondamentalmente da lei il sentimento di nostalgia per l’epoca passata (Naoko proveniva da una famiglia discendente dai samurai), quello di forte patriottismo e l’intenso desiderio di bellezza e purezza che resero Mishima un importante esponente dell’estetismo e della scuola romantica giapponese (nihon romanha). A Naoko si deve anche la passione nata in Mishima per le due forme di teatro tradizionale giapponese, il Kabuki e il No,
Mishima cominciò a interessarsi di letteratura durante gli anni della scuola dell’obbligo, trascorsi nell’esclusivo istituto Gakushuin in cui la maggior parte degli studenti proveniva da famiglie aristocratiche o comunque agiate e dove veniva impartita un’educazione piuttosto spartana.
Successivamente, Mishima intraprese gli studi di giurisprudenza per volontà del padre, si laureò e vinse un concorso che gli assicurò un posto di funzionario statale al Ministero delle Finanze. Poco tempo dopo dette però le dimissioni perché, lavorando di giorni e scrivendo di notte come faceva per via della passione letteraria, non riusciva a sopportare quel ritmo di vita. Così, in accordo anche con il padre, scelse di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura (1948).
Risulta molto importante per Mishima il periodo della guerra mondiale, in particolare il fatto di essere stato esonerato dal servizio militare. Ciò, e in particolare la percezione di essere sopravvissuto in maniera disonorevole mentre suoi coetanei e amici erano morti in guerra secondo lo spirito degli antichi samurai, gli instillò un senso di vergogna che segnò tutta la sua vita.
Il suo profondo legame con i principi e le tradizioni giapponesi, tema ricorrente nelle sue opere, lo portò ad un contraddittorio anti occidentalismo. Mishima riteneva infatti che l’educazione dei giovani giapponesi, che nel dopoguerra stava diventando sempre più simile al modello occidentale, dovesse tornare radicalmente alle origini ed essere fondata sui principi del Bushido.
Nel contempo però, lo stile di vita dello stesso Mishima tendeva molto all’occidentale, nel modo di vestirsi e nello stile della sua casa e ammirava profondamente l’arte e la letteratura europee. [Allo stesso modo, alcune sue opere letterarie, praticò uno stile ispirato alla letteratura occidentale.]
Anche la sua natura di esteta, il culto di bellezza e perfezione e il desiderio di mantenere il proprio corpo giovane e bello in eterno (divenne un culturista e praticante di bodybuilding), derivano in parte dalla cultura occidentale, in particolare greca, e questo rappresenta un altro motivo di contrasto.
E in tale contrasto si trovano forse le principali ragioni della scelta estrema che lo portò a concludere la sua vita in modo tragico ed eclatante.
Mishima era combattuto tra l’attrazione verso l’occidente e l’innovazione, e il forte richiamo della tradizione del suo Paese al suo spirito fortemente patriottico.
Una prova di ciò fu la sua scelta di fondare il Tate no Kai (Associazione degli Scudi), un’associazione paramilitare da lui capeggiata e finanziata autonomamente, cui aderirono un centinaio di giovani di ideali nazionalisti. Essa rifiutava con decisione il Trattato di San Francisco del 1951, nel quale si sanciva la sottomissione del Giappone agli Stati Uniti con la fine ufficiale della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico.
Mishima stesso lo definì “il più piccolo esercito del mondo, fatto da persone rivolte verso i valori dello spirito, con muscoli ben temprati e senza armi.” Esso era sempre in attesa del momento di entrare in azione in favore della patria, momento che “Potrebbe anche darsi che non venga mai. Ma potrebbe venire anche domani.”
La scelta di suicidarsi con l’harakiri fu attentamente ponderata: l’atto fu pianificato a lungo e meticolosamente, ed esprime chiaramente i sentimenti di patriottismo e nazionalismo dello scrittore.
Mishima era un personaggio pubblico, non solo per via della sua fama di scrittore e drammaturgo (oltre ai romanzi scrisse alcuni drammi in stile No e Kabuki, ambientati in epoca moderna), ma anche per aver recitato in alcuni film ed essersi prestato come modello per numerose foto a tema sui samurai, sul seppuku e sul kendo, di cui era praticante.
Per queste ragioni il suo gesto provocò una forte scossa nella società contemporanea, e successivamente anche a livello internazionale.
Il 25 novembre 1970, Mishima si recò con quattro appartenenti al Tate no Kai alla caserma del Quartier Generale dell’Armata Jietai (l’armata di difesa del Giappone) a Ichigaya, nel centro di Tokio. Lì presero in ostaggio il generale dell’armata Mashita, e Mishima tenne un discorso ai soldati in cui li esortava a rimanere fedeli alla Tradizione, all’Imperatore e alla Patria e a dimostrarlo insorgendo contro il governo attuale e prendendo il potere per salvare il Giappone e ristabilire la forma di governo precedente la Costituzione del 1947.
Il tentativo fallì: a fermarlo giunsero le forze dell’ordine, ma prima che potessero intervenire, Mishima si uccise commettendo seppuku, insieme all’amico fidato Masakatsu Morita.
Il suo è l’ultimo caso di harakiri nella storia del Giappone e rappresenta un’estrema esaltazione degli ideali giapponesi e delle  contraddizioni che hanno segnato tutta la sua vita, ma anche l’intera vicenda della modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone stesso.
Tali contraddizioni, intensamente percepite e vissute da Mishima, sfociarono nell’estremismo che lo condusse a terminare la sua vita alla maniera degli antichi Samurai.


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