È nota con il nome di Harakiri o Seppuku una forma di suicidio rituale sviluppatasi e praticata in
Giappone fin dall’epoca medievale.
Il termine Harakiri è la forma di lettura più colloquiale di due kanji che
significano rispettivamente addome e taglio. Gli stessi simboli in ordine
inverso si leggono Seppuku,
utilizzando la così detta pronuncia on,
ovvero il modo giapponese di rendere i caratteri cinesi, usata nei termini
ufficiali.
La parola descrive dunque il metodo con
cui veniva attuato tale suicidio: chi lo compiva si squarciava l’addome,
l’Hara, da sinistra a destra e poi verso l’alto usando la tipica spada corta
giapponese, il wakizashi.
Ci sono documenti recanti testimonianze
di suicidio effettuato con una tipologia che poi è stata ufficializzata nel
Seppuku già a partire dal XII sec d.C.
Il primo caso noto è registrato nell’
“Hogen Monogatari” (Storia sulla Guerra Civile di Hogen), cronaca di una guerra
avvenuta nel 1156, scritta tra il 1185 e il 1190. In essa si narra di come il
guerriero Minamoto no Tamemoto si uccise dopo la sconfitta pur di non cadere in
mani nemiche, sebbene non utilizzando la ‘forma corretta’ che ancora non era
stata istituzionalizzata.
Il Seppuku è forse noto, soprattutto in
occidente, nella forma usata dai Samurai, la classe di nobili guerrieri del
Giappone medievale: addestrati fin dall’infanzia alle arti della guerra e alla
massima disciplina, davano enorme importanza al loro senso dell’onore, e il
Seppuku era utilizzato spesso in situazioni in cui il samurai veniva sconfitto
in battaglia [soprattutto nelle epoche
di continue guerre civili precedenti l’era Tokugawa], come forma di morte
onorevole, sempre preferibile alla cattura da parte del nemico. Era un atto
specificatamente previsto dal codice di comportamento del samurai, il Bushido
(Via del guerriero, 武士道).
Era anche l’atto di espiazione con cui si
pagava l’infrazione dei principi di questo stesso codice.
Esistono diverse classificazioni del
seppuku basate sul motivo dell’atto o sul metodo di esecuzione.
Il primo viene chiamato Chugi bara (Chugi
= lealtà; bara = contrazione di Harakiri), ed è l’atto di seppuku compiuto per
fedeltà al proprio daimyo. Si divide a propria volta in due categorie: il
Junshi rappresenta l’autoimmolazione alla morte del proprio signore per
seguirlo nella tomba come atto estremo di fedeltà; il Kanshi è invece il
suicidio compiuto con un proposito di rimostranza e protesta.
Soprattutto il Junshi è una prova della
forza dei legami feudali dell’epoca: non sempre risultava spontaneo in realtà,
ma era un gesto molto praticato. Solo al sopravvento dell’epoca Tokugawa e in
particolare durante il governo del primo Shogun Tokugawa Jeyasu, che fu in
grado di stabilire e mantenere la pace, questa pratica fu legalmente e
severamente proibita perché considerata uno spreco inutile di vita umana.
C’è poi il Sokotsu-shi, ovvero il seppuku
di espiazione. Era una forma onorevole, e come tale riservata prevalentemente
ai Samurai, di condanna a morte in caso di crimini o contravvenzioni alle
regole e leggi. Sostituiva le forme più comuni e umilianti dell’impiccagione e
della decapitazione.
Questa forma di Harakiri iniziò ad essere
praticata nell’era Yoshino (1336-1392), la così detta ‘era dei due imperatori’,
caratterizzata da violente guerre civili. Si trovano in alcuni documenti
giuridici di quest’epoca, in particolare del periodo Ashikaga, prove del fatto
che il seppuku, ormai stigmatizzato in una serie di regole e gesti cerimoniali
estremamente precisi e complessi, fosse stato preso come forma di punizione
onorevole riservata ai Samurai.
In particolare fu però dopo la
proibizione del Junshi nel 1663 da parte dello Shogunato di Jeyasu che il
seppuku perse il sui significato di sacrificio per una causa d’onore, assumendo
quello di onorevole punizione.
Questo tipo di punizione conobbe ampia
diffusione nell’era Tokugawa, caratterizzata da rigidissime regole sociali:
minime infrazioni di queste potevano portare alla condanna al Sokotsu-shi.
Infine c’è ancora il Munen-bara, il
seppuku di mortificazione, con cui si volevano esprimere sentimenti quali odio,
ira o risentimento nei confronti di una persona o un fatto ritenuto ingiusto.
Funshi, ovvero seppuku di indignazione, è un altro nome attribuito a questa
categoria.
Dunque, i casi di Harakiri sono davvero
molto numerosi, e le ragioni che li hanno provocati possono sembrare, a occhi
occidentali, non abbastanza importanti da valere la perdita della vita.
Nel caso del Chugi bara e di alcuni casi
di Sokotsu-shi la causa è spesso da ricercare nei rigidi vincoli feudali e
nelle altrettanto rigide e formali regole dei rapporti sociali.
Più in generale, è una questione
strettamente legata alla mentalità giapponese, in particolare al senso estremo
di onore della classe nobile.
A dimostrazione di ciò, la scelta di una
forma di suicidio oggettivamente molto dolorosa e connessa ad un preciso
cerimoniale.
Nell’epoca medievale, le condanne a morte
venivano generalmente eseguite tramite impiccagione o decapitazione, ma
entrambe le pratiche erano considerate estremamente umilianti dai guerrieri.
L’Harakiri era invece una dimostrazione
estrema di coraggio e autodisciplina, soprattutto quando ancora non era stata
inserita la figura del kaishaku, lo spadaccino incaricato di tagliare la testa
al condannato dopo che egli si era praticato il taglio all’addome, per
accelerarne la morte. Ma in particolare la scelta dell’Hara come punto da
colpire ha altre ragione, profondamente radicate nelle credenze giapponesi. Si
riteneva infatti che l’addome fosse sede dell’anima e di tutte le principali
emozioni.
Come già detto Harakiri significa
letteralmente ‘taglio dell’addome’. La parola hara presenta una radice comune
con hari, che significa ‘tensione’: la tensione dell’addome era associata con
l’idea di anima e vita. Maggiore era la vitalità di una persona, maggiore era
in essa tale tensione. Inoltre il ventre rappresenta anche il centro fisico del
corpo e ciò contribuiva alla credenza per cui l’addome era sede di volontà,
pensiero, generosità, coraggio, spiritualità, paura, aggressività…
È per di più un concetto condiviso anche
in altre culture, come si può notare osservando alcune parole di altre lingue
straniere… (greco, francese, ebraico.)
L’Harakiri risulta dunque essere una
forma di suicidio che colpisce direttamente l’anima, il centro delle emozioni:
è un colpo fatale che toglie la vita e nel contempo purifica l’anima.
Inoltre, il dolore provocato dall’atto
sottolineava il coraggio di chi lo attuava e nel contempo era una forma di
espiazione dei peccati, ricollegabile ai principi di austerità, umiltà e
mortificazione zen.
[necessaria anche molta umiltà da parte
di un samurai per accettare una sentenza di morte e compiere il seppuku ->
Pavese.]
Insomma, la concezione giapponese di
suicidio è totalmente diversa da quella occidentale in ogni sua forma.
In Europa, il gesto di togliersi la vita
è sempre stato interpretato come una prova estrema dell’incapacità di una
persona di adattarsi alla propria vita, una via di fuga da un’esistenza che
portava soltanto dolore.
Era anche severamente condannato dalla
Chiesa cattolica e tradizionalmente punito con l’Inferno, come insegna Dante,
pur facendo un’eccezione per il personaggio di Catone.
Gli esempi di suicidio che si trovano in
letteratura hanno dunque valenza ben diversa da quella dell’Harakiri, che non
era affatto una fuga dalla vita, ma più un modo di porvi fine volontariamente
pur di non vivere nel disonore.
Anche l’idea alfieriana del suicidio,
visto come un’affermazione suprema di libertà umana e dunque in qualche modo
nobilitato rispetto alla concezione fortemente negativa che solitamente lo
caratterizza, è fortemente distaccata dalla visione orientale. La profonda e immutabile incompatibilità
tra le due interpretazioni del gesto deriva di fatto dal retroterra culturale
totalmente diverso degli orientali.
Ancora, il tipo di suicidio che emerge
con il Romanticismo e con alcuni suoi personaggi fondamentali, tra cui in
particolare risaltano Werther e Jacopo Ortis, risulta ancor più evidente.
Queste differenze di fondo, di concezione
e mentalità, sono reali e innegabili. Volendo tuttavia cercare una sorta di
collegamento tra il suicidio orientale e quello occidentale, si può prendere in
esame il caso particolare dello Shinju, il doppio suicidio d’amore.
Si tratta di una forma di seppuku molto
particolare e piuttosto rara, in cui è forse possibile trovare una maggiore
somiglianza con la concezione occidentale.
Letteralmente il termine significa ‘nel
cuore’. Il significato più esteso implica che se il cuore è stato messo a nudo,
esso non può che mostrare la propria estrema devozione all’amato o all’amata. Da
questo la traduzione più ampia ‘rivelare la morte del cuore’.
È un tipo di suicidio che si può spiegare
con il fatto che nell’epoca Edo, i rapporti tra uomini e donne erano ridotti al
minimo, e nulli al di fuori del matrimonio. Anche all’interno di esso, la donna
era spesso considerata un semplice mezzo di procreazione, nulla di più, dunque
l’amore era bandito dalle relazioni.
Lo Shinju nacque proprio come
affermazione di protesta a questo aspetto della società: le coppie di amanti
venivano ostacolate in ogni modo possibile dalla collettività nelle loro
relazioni, e talvolta potevano arrivare a scegliere il suicidio comune per
‘rivelare il cuore’.
Era praticato generalmente da membri
della classe borghese, in quanto la disciplina Samurai avrebbe impedito a
qualcuno di quella casta di abbassarsi ad un simile disonore, tuttavia lo
Shinju non va per questo considerato una ‘brutta copia’ del seppuku riservata
alla borghesia. Era una pratica a sé, sviluppatasi quando, nel clima di estremo
formalismo feudale di quell’era, le classi più basse cominciarono a desiderare
di essere considerate maggiormente. Nel gesto del doppio suicidio d’amore, essi
trovavano quel senso di esaltazione suscitato dal morire per un ideale che i
Samurai avevano trovato a loro volta nel seppuku.
Inoltre, la consapevolezza del fatto che
nessun potere appartenente all’ordine costituito fosse in grado di opporsi alla
morte, e dunque alla scelta di morire di chi decideva di compiere lo Shinju,
dava alla gente comune un senso di esaltazione e chiarificazione, nonché una
giustificazione dell’ineluttabilità della morte.
La differenza più estrema tra seppuku e
Shinju è comunque legata al fatto che mentre il primo rappresentava il fiore
all’occhiello della società feudale e del codice Samurai, il secondo era nato
come una disperata forma di opposizione a quella stessa società, che negava di
fatto l’umanità, tentando di minimizzare i sentimenti umani.
Da questo punto di vista si può
riscontrare una forte affinità tra lo Shinju e il suicidio trattato dalla
letteratura romantica.
Il Romanticismo è movimento culturale,
artistico e letterario dai mille volti, non lo si può chiudere in una
definizione univoca. Tra le altre cose, esso celebra la spontaneità dei
sentimenti umani e un forte gusto introspettivo. Vi è l’idea della scoperta,
nell’interiorità di ciascuno, di un’energia particolare, di uno slancio vitale
soffocato da secoli di civiltà. Eppure in alcuni casi e in alcuni personaggi
romantici, questa forza vivificante termina la sua parabola con il suicidio.
Infatti, il contrasto che può venirsi a
creare tra l’interiorità di un singolo e il contesto storico e sociale in cui
egli vive, come anche l’incapacità di adeguare i propri sentimenti e
comportamenti alle regole convenzionali dell’epoca, portano in animi sensibili
come quelli di Werther e Jacopo la netta sensazione di non essere adatti al
proprio tempo.
La vicenda creata da Goethe rappresenta
con grande chiarezza il contrasto interiore di Werther, la lotta tra l’amore
insopprimibile che egli prova per Lotte e la consapevolezza razionale che, date
le circostanze e le restrizioni sociali che li circondano, esso sia destinato a
rimanere un amore impossibile. Lotte sposerà Albert, e l’estremo gesto di
Werther è espressione del dolore intollerabile che serra il giovane e della sua
volontà di liberarsene, rinunciando alla vita poiché non esiste altro modo.
Il tormento di Werther non è poi così
incompatibile con il genere di vicende che, in Giappone, con pochi secoli di
disparità temporale, portavano coppie di innamorati a compiere lo Shinju.
Analogamente la vicenda foscoliana di
Jacopo Ortis ben si accorda a questa visione del suicidio. In aggiunta alla
questione dell’amore impossibile, vi è però in Foscolo anche il tema della
delusione storica e sociale delle vicende del suo tempo, la totale mancanza di
volontà di vivere: non c’è nulla che spinga Jacopo a restare aggrappato alla
vita. Così come anche Werther egli sceglie la morte, in un gesto che è grido di
dolore e protesta contro la società che sbaglia nel voler definire troppo
rigidamente i rapporti sociali e sentimentali.
Yukio Mishima (1925-1970)
Nato Hiraoka Kimitake, Mishima è stato
uno scrittore e drammaturgo giapponese di fama internazionale, divenuto
particolarmente famoso per via della sua eclatante morte, avvenuta il 25
novembre 1970 tramite seppuku, compiuto in diretta televisiva.
Suo padre era un ufficiale del governo
giapponese che ostacolò a lungo la sua passione per la letteratura, spingendolo
in direzione degli studi di giurisprudenza, ragione che lo indusse a pubblicare
le sue opere con uno pseudonimo.
A circa un mese dalla nascita, la nonna
paterna Naoko Hiroaka lo prese con sé per crescerlo, permettendo alla madre di
vederlo solo per l’allattamento. Solo nel 1937 poté tornare alla famiglia, per
via di una malattia che aveva colpito la nonna, che morì poi due anni dopo.
L’influenza di Naoko segnò profondamente
la vita e la scrittura di Mishima. Derivano infatti fondamentalmente da lei il
sentimento di nostalgia per l’epoca passata (Naoko proveniva da una famiglia
discendente dai samurai), quello di forte patriottismo e l’intenso desiderio di
bellezza e purezza che resero Mishima un importante esponente dell’estetismo e della scuola romantica giapponese
(nihon romanha). A Naoko si deve anche la passione nata in Mishima per le due
forme di teatro tradizionale giapponese, il Kabuki e il No,
Mishima cominciò a interessarsi di
letteratura durante gli anni della scuola dell’obbligo, trascorsi
nell’esclusivo istituto Gakushuin in cui la maggior parte degli studenti
proveniva da famiglie aristocratiche o comunque agiate e dove veniva impartita
un’educazione piuttosto spartana.
Successivamente, Mishima intraprese gli
studi di giurisprudenza per volontà del padre, si laureò e vinse un concorso
che gli assicurò un posto di funzionario statale al Ministero delle Finanze.
Poco tempo dopo dette però le dimissioni perché, lavorando di giorni e
scrivendo di notte come faceva per via della passione letteraria, non riusciva
a sopportare quel ritmo di vita. Così, in accordo anche con il padre, scelse di
dedicarsi a tempo pieno alla letteratura (1948).
Risulta molto importante per Mishima il
periodo della guerra mondiale, in particolare il fatto di essere stato
esonerato dal servizio militare. Ciò, e in particolare la percezione di essere
sopravvissuto in maniera disonorevole mentre suoi coetanei e amici erano morti
in guerra secondo lo spirito degli antichi samurai, gli instillò un senso di
vergogna che segnò tutta la sua vita.
Il suo profondo legame con i principi e
le tradizioni giapponesi, tema ricorrente nelle sue opere, lo portò ad un
contraddittorio anti occidentalismo. Mishima riteneva infatti che l’educazione
dei giovani giapponesi, che nel dopoguerra stava diventando sempre più simile
al modello occidentale, dovesse tornare radicalmente alle origini ed essere
fondata sui principi del Bushido.
Nel contempo però, lo stile di vita dello
stesso Mishima tendeva molto all’occidentale, nel modo di vestirsi e nello
stile della sua casa e ammirava profondamente l’arte e la letteratura europee.
[Allo stesso modo, alcune sue opere letterarie, praticò uno stile ispirato alla
letteratura occidentale.]
Anche la sua natura di esteta, il culto
di bellezza e perfezione e il desiderio di mantenere il proprio corpo giovane e
bello in eterno (divenne un culturista e praticante di bodybuilding), derivano
in parte dalla cultura occidentale, in particolare greca, e questo rappresenta
un altro motivo di contrasto.
E in tale contrasto si trovano forse le
principali ragioni della scelta estrema che lo portò a concludere la sua vita
in modo tragico ed eclatante.
Mishima era combattuto tra l’attrazione
verso l’occidente e l’innovazione, e il forte richiamo della tradizione del suo
Paese al suo spirito fortemente patriottico.
Una prova di ciò fu la sua scelta di
fondare il Tate no Kai (Associazione degli Scudi), un’associazione paramilitare
da lui capeggiata e finanziata autonomamente, cui aderirono un centinaio di
giovani di ideali nazionalisti. Essa rifiutava con decisione il Trattato di San
Francisco del 1951, nel quale si sanciva la sottomissione del Giappone agli
Stati Uniti con la fine ufficiale della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico.
Mishima stesso lo definì “il più piccolo
esercito del mondo, fatto da persone rivolte verso i valori dello spirito, con
muscoli ben temprati e senza armi.” Esso era sempre in attesa del momento di
entrare in azione in favore della patria, momento che “Potrebbe anche darsi che
non venga mai. Ma potrebbe venire anche domani.”
La scelta di suicidarsi con l’harakiri fu
attentamente ponderata: l’atto fu pianificato a lungo e meticolosamente, ed
esprime chiaramente i sentimenti di patriottismo e nazionalismo dello
scrittore.
Mishima era un personaggio pubblico, non
solo per via della sua fama di scrittore e drammaturgo (oltre ai romanzi
scrisse alcuni drammi in stile No e Kabuki, ambientati in epoca moderna), ma
anche per aver recitato in alcuni film ed essersi prestato come modello per
numerose foto a tema sui samurai, sul seppuku e sul kendo, di cui era praticante.
Per queste ragioni il suo gesto provocò
una forte scossa nella società contemporanea, e successivamente anche a livello
internazionale.
Il 25 novembre 1970, Mishima si recò con
quattro appartenenti al Tate no Kai alla caserma
del Quartier Generale dell’Armata Jietai (l’armata di difesa del Giappone) a
Ichigaya, nel centro di Tokio. Lì presero in ostaggio il generale dell’armata
Mashita, e Mishima tenne un discorso ai soldati in cui li esortava a rimanere
fedeli alla Tradizione, all’Imperatore e alla Patria e a dimostrarlo insorgendo
contro il governo attuale e prendendo il potere per salvare il Giappone e
ristabilire la forma di governo precedente la Costituzione del 1947.
Il tentativo fallì:
a fermarlo giunsero le forze dell’ordine, ma prima che potessero intervenire,
Mishima si uccise commettendo seppuku, insieme all’amico fidato Masakatsu Morita.
Il suo è l’ultimo
caso di harakiri nella storia del Giappone e rappresenta un’estrema esaltazione
degli ideali giapponesi e delle contraddizioni che hanno segnato tutta
la sua vita, ma anche l’intera vicenda della modernizzazione e
occidentalizzazione del Giappone stesso.
Tali
contraddizioni, intensamente percepite e vissute da Mishima, sfociarono
nell’estremismo che lo condusse a terminare la sua vita alla maniera degli
antichi Samurai.
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