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venerdì 22 aprile 2016

NESSUNO ACCENDEVA LE LAMPADE - FELISBERTO HERNANDEZ

FELISBERTO HERNANDEZ, NESSUNO ACCENDEVA LE LAMPADE, EINAUDI
NOTA INTRODUTTIVA DE ITALO CALVINO
Torino, Enaudi, 1974
   Le avventure d’un pianista squattrinato, in cui il senso del comico trasfigura l’amarezza d’una vita impastata di sconfitte, sono il primo spunto da cui prendono le mosse i racconti dell’uruguaiano Felisberto Hernández (1902-1964). Basta che egli si metta a narrare le piccole miserie d’un’esistenza trascorsa tra la orchestrine dei café di Montevideo e le tournées di concerti in cittadine di provincia del Rio de la Plata, perché sulla sua pagina s’affollino gagas allucinazioni metafore, in cui gli oggetti prendono vita come persone. Ma questo è solo il suo punto di partenza. Ciò che scatena la fantasia di Felisberto Hernández sono gli inviti inaspettati che aprono al timido pianista le porte di case misteriose, di quintas solitarie dove albergano personaggi ricchi ed eccentrici, donne piene di segreti e di nevrosi.
Una villa appartata, l’immancabile pianoforte, un signore dolcemente maniaco e perverso, una fanciulla visionaria o sonnambula, una matrona che celebra ossessivamente le sue sfortune amorose: si direbbe che gli ingredienti del racconto romantico alla Hoffmann siano qui riuniti. E non manca nemmeno la bambola che sembra in tutto e per tutto una giovinetta: anzi, nel racconto Las Hortensias è una intera produzione di bambole rivali delle donne vere (parenti della “moglie di Gogol” secondo Landolfi) che un fabbricante tentatore costruisce per alimentare la fantasie d’uno strambo collezionista, e che scatenano gelosie coniugali e torbidi drammi. Ma ogni possibile richiamo a un’immaginazione nordica viene subito dissolto dall’atmosfera di questi pomeriggi in cui si sorbisce lentamente il mate seduti in un patio o si sta al café guardando uno struzzo ñandú passare trai i tavoli. Felisberto Hernández è uno scrittore che non somiglia a nessuno: a nessuno degli europei e a nessuno dei latino-americani, è un “irregolare” che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile.
I suoi racconti piú tipici sono quelli che gravitano su una messa in scena complicata, un rituale spettacolare che si svolge nel segreto d’una dimora signorile: un patio allagato sul quale galleggiano candele accese; un teatrino di bambole grandi come donne atteggiate in pose enigmatiche; una galleria buia in cui si devono riconoscere al tatto oggetti che provocano associazioni d’immagini e di pensieri. Se il gioco consiste nell’indovinare la storia rappresentata dalla scena delle bambole, o nel riconoscere cosa è posato sul tavolo della galleria buia, ciò che conta per l’emozione dei partecipanti non sono tanto questi quiz innocenti quanto gli incidenti casuali, i rumori che si sovrappongono, le premonizioni che s’affacciano alla coscienza.
L’associazione d’idee non è solo il gioco prediletto dei personaggi di Felisberto, è la passione dominante e dichiarata dell’autore, ed è pure il procedimento con cui questi racconti si vanno costruendo, allacciando un motivo all’altro come in una composizione musicale. E si direbbe che le esperienze piú usuali della vita quotidiana mettano in moto le piú imprevedibili sarabande mentali, mentre capricci e manie che esigono una complicata premeditazione e un’elaborata coreografia non mirino ad altro che a evocare sensazioni elementari dimenticate. Felisberto sta sempre inseguendo un’analogia che ha fatto capolino per un attimo nell’angolo piú fuori mano dei suoi circuiti cerebrali, una immagine che preannuncia la corrispondenza d’un’altra immagine poche pagine piú avanti, un accostamento incongruo che gli serve a cogliere una sensazione molto precisa; e per raggiungerli deve avventurarsi su passerelle gettate nel vuoto. Dalla tensione tra un’immaginazione molto concreta, che sa sempre quello che vuole e la parola che le tiene dietro a tentoni, nasce una suggestione paragonabile a quella dei quadri d’un pittore naïf.
Con questo, non vogliamo prendere senz’altro per buona una classificazione di Felisberto come “scrittore della domenica”, autodidatta e “fuori dal giro”, che probabilmente non è vera. Un suo surrealismo, un suo proustismo, una sua psicoanalisi dovevano pur essere stati i punti di riferimento della sua lunga ricerca di messi espressivi. (E aveva fatto anche lui, come ogni letterato del Rio de la Plata che si rispetti, il suo bravo soggiorno a Parigi). Questo suo modo di dare spazio a una rappresentazione all’interno della rappresentazione, di allestire all’interno del racconto strani giochi di cui egli stabilisce ogni volta le regole, è la soluzione che egli trova per dare una struttura narrativa classica all’automatismo quasi onirico della sua immaginazione.
La resa della fisicità degli oggetti e delle persone è ciò che piú sorprende nella sua scrittura. Un letto disfatto, per esempio: “le sue sbarre nichelate mi facevano pensare a una giovane pazza che si concedesse a chiunque”. O la capigliatura d’una ragazza: “Adesso metteva in mostra tutta la massa dei capelli; in un vortice delle onde si vedeva un po’di pelle, e mi venne in mente una gallina a cui il vento avesse messo sottosopra le piume lasciando vedere la pelle”. O un’altra ragazza che sta per mettersi a recitare una poesia: “Il suo atteggiamento mi faceva pensare a qualcosa tra l’infinito e lo starnuto”.
Le sensazioni provocano echi visuali che continuano a ripercuotersi nella mente. “Anche nel teatro dove davo i concerti c’era poca gente e l’aveva invaso il silenzio: io lo vedevo ingrandirsi nel gran coperchio nero del piano. Al silenzio piaceva sentire la musica; ascoltava fino all’ultima risonanza e poi si soffermava a pensare a quello che aveva sentito. I suoi giudizi erano lenti. Ma una volta che il silenzio era entrato in confidenza, interveniva nella musica: passava tra i suoni come un gatto con la sua gran coda nera e li lasciava pieni d’intenzioni”. Una misteriosa correlazione si stabilisce tra l’immagine d’un pianoforte e quella d’un gatto nero; qui è solo metaforica, mentre in un altro racconto si materializza in una gag quasi chapliniana d’un gatto che attraversa il palcoscenico.
Questo volume (la sua prima –credo- traduzione in altra lingua) presenta la quasi totalità dei racconti della maturità di Felisberto (pubblicati tra il 1947 e il 1960) con cui l’autore arrivò a conquistatarsi un posto a sé tra i cultori del “racconto fantastico” ispano-americano. Completa il volume un testo rimasto incompiuto alla morte dell’autore, Tierras de la memoria, che appartiene a un altro versante della sua opera: la “letteratura della memoria”, la rievocazione della Montevideo d’una volta, i ricordi delle sue prime lezione di piano. Nella stesura in cui si è giunto, forse ancora d’abbozzo, questo testo ci dà bene il senso del lavoro di Felisberto teso a rendere i minimi movimenti psicologici attraverso sdoppiamenti dell’io: come nelle pagine sulle prime emozioni sensuali, sull’apprendistato musicale, o su di una seduta dal dentista.
Italo Calvino


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