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venerdì 20 maggio 2016

MIEI APPUNTI LEZIONE SU CINEMA E LETTERATURA - QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO

CINEMA E LETTERATURA NEL I NOVECENTO
Dal nome di un furgone della polizia a cavallo viene la denominazione del primo studio cinematografico americano: Black Maria (di solito pronunciato Black "Mària"),   un piccolo palcoscenico di posa dalle  pareti interne  dipinte di nero, per dare uno sfondo omogeneo ai filmati, e la parte superiore e frontale apribile per poter garantire la massima illuminazione con la luce solare, essendo la pellicola usata (la 35mm di Kodak) ancora poco sensibile. Poteva anche  essere ruotato alla ricerca della migliore esposizione solare. In questa  l'operatore William Kennedy Laurie Dickson girò i primi brevi film per Thomas Edison e il suo Kinetoscopio. Il kinetoscopio è dunque  di qualche anno anteriore alla prima proiezione del 28 dicembre 1895 dei fratelli Lumière al Cafè de Paris. Nel  gennaio 1894 venne ripreso Fred Ott's Sneeze, un breve filmato di un uomo che starnutisce in maniera teatrale. Il cinema come narrazione nasce dunque da uno starnuto: nella Black Maria in cui Laurie Dickson filma il suo assistente Fred Ott.  Primo film ad essere depositato per il copyright.
Il cinema compie il suo primo passo utile a definirsi appunto come forma di narrazione: descrive un atto nel suo compiersi, con la sua specifica durata. In questa sua prima espressione palesa tutta la sua specificità rispetto alle altri arti: nessun’arte, come il cinema in questa fase iniziale, lavora con un mezzo espressivo che registri passivamente la realtà (il sogno del naturalismo!) La parola, il suono, il colore, la forma plastica sono in sé una cosa diversa, eterogenea dalla realtà che ci danno l’illusione di trasfigurare o di riprodurre. Poi anche il cinema iniziò a raccontare, un dramma per iniziare, ma non un dramma “inventato” da lui, bensì un dramma preesistente: fu nel 1897, quando ai fratelli Lumière venne l’idea di riprendere la Passione di Oberammergau, peraltro non quella che si teneva nella città bavarese (celebre in tutto il mondo) ma una meno famosa che si svolgeva a Horitz. Il film che ne derivò si componeva di 13 scene della vita di Cristo della durata di 17 metri di pellicola per ogni scena, una superproduzione per l’epoca.  Sia i fratelli Lumière sia  Th.A. Edison, si limitano comunque a un cinema-verità, che offre al pubblico esclusivamente documentari.
È  G. Méliès a cambiare prospettiva, realizzando, a  partire dal 1902 film come Voyage dans la lune, ispirato ai romanzi fantascientifici di J. Verne e Herbert George Wells, e Les voyages de Gulliver, tratto da Jonathan  Swift. Il cinema diventa una macchina atta a raccontare storie:  Ch. Metz. E.S. Porter,  nel 1903 realizza negli Stati Uniti The great train robbery (L'assalto al treno), film passato alla storia come il primo western, e  lo stesso anno avvia l'ambizioso progetto di ridurre per lo schermo, in quattordici quadri e un prologo, il popolare romanzo di H. Beecher Stowe, Uncle Tom's cabin. Da allora i classici della letteratura sono arrivati quasi tutti sugli schermi, da Dante a Shakespeare, da Flaubert a Tolstoj, da Brecht ad Andersen.
La gamma di scelte e approcci è diversissima. Nel periodo del muto F.W. Murnau attinge sia alla letteratura popolare, come in Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (1922) (sinfonia del terrore) - per il quale il regista fu accusato di aver plagiato il romanzo Dracula di B. Stoker, così che i negativi del film vennero distrutti -, sia alla letteratura alta, come in  Tartüff (1925), dall'opera di Molière, o nel Faust (1926), in cui si sovrappongono richiami a Goethe, Marlowe e alle leggende medievali germaniche. È da notare che anche il primo film sonoro della storia, The jazz singer (1927,  Il cantante di jazz), per la regia di A. Crosland, è tratto dall'omonima commedia di S. Raphaelson. Mentre per il primo kolossal in technicolor il produttore D.O. Selznick e il regista V. Fleming si rivolsero al best seller di quegli anni, Gone with the wind di Margareth Mitchell, realizzando l'omonimo film (1939, Via col vento, giunto in Italia nel 1949), che ha avuto il maggior numero di spettatori della storia del cinema. In Italia, fin dal secondo decennio del 20° secolo, a un pubblico assetato di storie si proposero, seppure in filmati di poche decine di minuti, le opere di Omero, Dante, Shakespeare e D'Annunzio, portate per lo più sullo schermo in pochi rulli e senza l'indicazione degli autori. È significativo, infatti, che mentre spesso i letterati scagliavano invettive contro la nuova arte popolare, rea di non essere abbastanza 'colta', alcuni di loro, a partire da  Papini,  Verga,  Gozzano, collaboravano con il cinema in veste semi-clandestina. Nel 1914 G. D'Annunzio, dietro lauto compenso, scrive le didascalie per Cabiria di G. Pastrone, e a sua volta diventerà nel corso del tempo l'ispiratore di una ricca filmografia che va da La figlia di Iorio di E. Bencivenga (1916), a Il delitto di Giovanni Episcopo di A. Lattuada (1947), a L'innocente (1976) di L. Visconti.
 L. Pirandello, oltre a essersi ispirato al cinema per scrivere i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nel 1925 a sua volta ha ispirato numerosi film: da Le feu [la buonanima, il fu]Mathias Pascal di M. L'Herbier [ [L'Herbier l erbi̯é›, Marcel. - Regista cinematografico francese (Parigi 1890 - ivi 1979), una delle personalità più rilevanti del cinema europeo. La sua fama di realizzatore è legata soprattutto ai film muti. Esordì con Rose France (1918), cui seguirono:Carnaval des vérités (1920); Villa Destin (1921); El Dorado (1921); L'inhumaine (1923); Feu Mathias Pascal (1925); La vertige(1926); Le diable au coeur (1927); L'argent (1928); Le mystère de la chambre jaune (1930); Le parfum de la dame en noir(1931). Dopo l'invenzione del cinema sonoro, realizzò numerosi film; tra i più noti: Veillée d'armes (1936); La brigade sauvage(1939); Histoire de rire (1941); La nuit fantastique (1942), il migliore dei suoi film parlati; La révoltée (1947); Les derniers jours de Pompéi (1949); Hommage à Debussy (1964); Le cinéma du diable (1966); La féerie des fantasmes (1977). Fondatore (1941) e presidente (1941-69) dell'Institut des hautes études cinématographiques, presidente (1937-45) dell'Association des auteurs de films; autore di Intelligence du cinématographe (1946).] (1925), a Il fu Mattia Pascal (1937) di P. Chenal, realizzato contemporaneamente in versione francese (L'homme de nulle part), a Le due vite di Mattia Pascal di M. Monicelli (1985); da Die lebende Maske - Heinrich der Vierte (1926) di A. Palermi, tratto da Enrico IV, ed Enrico IV di M. Bellocchio (1984), a Kaos dei fratelli Taviani (1984), ispirato a quattro racconti delle Novelle per un anno; da La canzone dell'amore (1930) di G. Righelli, basato sulla novella In silenzio, a As you desire me (1932); Come tu mi vuoi) di G. Fitzmaurice, tratto dall'omonima commedia pirandelliana e interpretato da G. Garbo e E. von Stroheim.

Dunque Pirandello è stato il primo scrittore a ispirarsi per un romanzo al mondo della cinematografia con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pubblicato in volume  prima nel 1916 col titolo Si gira…, poi nel 1925 con il titolo definitivo. SI tratta di un vero e proprio ricettacolo  di tematiche basilari per lo scrittore:  dal rapporto fra realtà e finzione, alla contrapposizione fra vita e non vita, al tema del progresso e dei congegni meccanici divoratori dell’uomo, alla reificazione degli individui intrappolati nella forma, al relativismo radicale che permea qualsiasi percezione e interpretazione.

PREMESSA SUI QUADERNI
I quaderni, per loro natura, hanno una struttura composita, per definire la quale può valere una similitudine attinta dalle arti visive: essi compongono un quadro alla maniera di Escher, come Scale a volta, per esempio, in cui le scale sembrano da una prospettiva salire, da un’altra scendere, da una paiono allineate e un piano, da un’altra sovrastarlo di gran lunga. Scale che fanno parte di un edificio eretto a sfida delle norme architettoniche e al contempo solido e reale, possibile perché rappresentabile; scale che tuttavia sembrano destinate a non portare da nessuna parte. Per le scale, poi, c’è sempre qualcuno che passa e, altrove, qualcuno che guarda.
Nei Quaderni le scale sono le vite dei personaggi. Talvolta paiono svolgersi in parallelo e implicare un incontro, addirittura una possibilità di procedere insieme e portare a uno stesso piano; ma poi svelano la loro vocazione più genuina: quella di essere percorsi destinati a ognuno, anche allorché non si sappia (sempre non si sa) dove conducano. Quanto al “qualcuno che guarda” della similitudine, questo spettatore è protagonista, nel testo, di un gioco di specchi moltiplicatori: è Serafino Gubbio, ma anche la macchina da presa, e poi la tigre, e noi lettori forse guidati, forse no, dallo spettatore più attento e meno sprovveduto che va compreso in questo elenco, cioè l’Autore.
Di là da questa immagine, un principio ispiratore della narrazione, un suo asse portante, è certo la contrapposizione VITA – NON VITA, alla quale si collega l’idea che vi siano dei responsabili dell’inaridimento della prima e della sua metamorfosi in seconda. Uno di questi è il progresso, la cui espressione concreta sono i CONGEGNI MECCANICI, DIVORATORI dell’uomo (la macchina da presa, la monotype, il pianoforte automatico).

Un focus sulla storia
Serafino Gubbio registra quotidianamente su pellicola storie artificiali che simulano quelle vere. Un giorno, credendo di riprendere l’azione di un film, finisce per registrare sequenze di vita vera (la scena della tigre che sbrana l’attore), scoprendo così che anche la realtà può apparire finzione. La vicenda, problematica e aperta a varie interpretazioni, pone numerosi interrogativi: la relazione tra Aldo Nuti e l’attrice Varia Nestoroff c’era stata davvero? La sequenza ripresa da Serafino in cui Aldo spara per gelosia alla Nestoroff è illusione o realtà? Al conflitto relativistico non c’è risposta. Alienazione e mercificazione.  Il romanzo è anche una denuncia degli effetti disumanizzanti prodotti dalle macchine e della riduzione di ogni ambito dell’esperienza e della comunicazione a merce: ­ Serafino, traumatizzato dalla scena della tigre, diventa muto, identificandosi così ancora più sensibilmente con la macchina da presa, che non richiede la parola, ma una mano che giri la manovella; ­ il protagonista traduce l’alienazione dell’uomo moderno, «reificato» ossia «fatto cosa» (dal latino: res, “cosa”; facere, “fare”), ridotto a oggetto; ­ i luoghi narrativi della letteratura di consumo, che offriva all’intreccio dei film dell’epoca i suoi soggetti, sono utilizzati da Pirandello in chiave tragico-umoristica; ­ la tempestosa storia d’amore, i cuori infranti, la donna fatale impersonata dalla Nestoroff, simbolicamente accostata alla tigre che divora il presunto amante, lo stesso mito di massa del cinematografo rinviano agli aspetti negativi della società industriale, che mercifica tutto e nega la spontaneità dei sentimenti.
Qualche focus sui personaggi
Serafino è l’autore dei quaderni. La definizione della sua psicologia, la sua caratterizzazione come personaggio dura per l’intera opera. Sono però isolabili alcuni momenti specifici di auto rappresentazione: l’incipit, per esempio:
“Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno […] C’è un oltre in tutto. Voi non volete o sapete vederlo. […] Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dire meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. […] Nessuno ha tempo o modo di arrestarsi un momento a considerare se quel che vede fare agli altri, quel lui stesso fa sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera nella quale solamente potrebbe trovare riposo.”
Serafino è “un occhio che guarda”, prima ancora di presentarsi come “mano che fa girare la macchina da presa”, è lo spettatore della vita, che è quindi subito metaforicamente introdotta come sorta di ARCHETIPO DEL CINEMATOGRAFO, così da suggerire l’idea che il cinematografo sia qualcosa di superfluo. Dice poi di sé Serafino: “ Servo la mia macchinetta in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi, signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Quanto al tema del superfluo, esso è espressamente introdotto quando Serafino presenta il suo amico, SIMONE PAU, detto “il filosofo”.  “Le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni a cui furono, ciascuna secondo la propria natura, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino.”
Nella storia c’è un personaggio che è un alter ego di Serafino. SI tratta di un violinista, la cui vita è raccontata da Simone Pau, il filosofo, che la ritiene esemplare di ciò a cui il progresso condanna l’umanità.  Egli è “un grande artista”, dice Pau, che si porta Dio sotto il braccio. Rimasto erede del violino e di una tipografia, trascura la seconda per dedicarsi al primo, fino a ridursi sul lastrico. La sua vita, vita vera, è fatta di concerti in osterie, al termine dei quali beve troppo; ogni tanto cerca lavoro in tipografie, finché si imbatte in una mostruosa monotype, nuovo modello: “bestiaccia mostruosa” al servizio della quale l’uomo diventa “peggio d’un mozzo di stalla”; cerca allora un lavoro degno del suo violino, una vita vera d’artista, e crede d’averla trovata: suonare in un cinematografo. Si presenta, ma lì lo attende la svolta finale e tragica: dovrebbe suonare per accompagnare uno strumento automatico, un pianoforte, e questo lo fa impazzire o, per meglio dire, gli fa perdere l’anima, non suona più il suo violino. Così come accadrà alla fine a Serafino (che perde la voce e si riduce a essere “mano che gira”, dopo aver filmato una “morte vera” con la sua macchina da presa) tutte le volte che l’uomo combatte con un congegno meccanico si riduce al silenzio. Al violinista è dedicato un ulteriore spazio importante nel Quaderno IV, allorché Simone Pau lo porta alla Kosmograph, la casa cinematografica, perché suoni alla tigre (che è stata portata lì per girare un film) e recuperi la voce dell’anima. Egli arriva col suo grosso naso poroso da beone (“Vedete come la vita può ridurre il naso di un uomo”) e suona “quel bislacco straccione meraviglioso” sul suo violino una musica mai udita, “limpida, dolcissima, intensa, vibrante d’infinito spasimo”: musica dell’anima e per l’anima che commuove tutti. Una serenata alla TIGRE, grazie alla quale scioglie momentaneamente un incantesimo, quello che tiene prigioniero l’uomo del violino e il violino, impedendo loro di esprimersi.
Così la narrazione fa emergere quei motivi di fondo che ho elencato prima: LA CONTRAPPOSIZIONE FRA VITA E NON VITA, LA FUNZIONE DIVORATRICE DELLE MACCHINE RISPETTO ALL’UOMO.  La contrapposizione vita /non vita è poi addirittura rintracciabile in luoghi specifici della narrazione. Ad esempio ci sono due sorta di luoghi metafisici su cui  si sofferma l’attenzione di Serafino nel Quaderno III: due reparti della Kosmograph denominati rispettivamente “Reparto Artistico e del Negativo” e “Reparto Fotografico o del Positivo”. A connotarli  come “luoghi metafisici” è l’annotazione “qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine”. Quindi sviluppa una metafora meccanico-naturalistica molto ricercata, il cui centro propulsore è appunto la VITA-NON VITA. “Quanto di vita le macchine hanno mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingoiata dalle macchine è lì, in quei vermi soltarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telai: Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.”
In perfetta antitesi a tale regno della meccanica finzione, spaventoso perfino nei suoi dettagli (quelle pellicole ossiuri…), vi è un unico luogo nel romanzo che sia vero, naturale, non superfluo: è la casa dei Nonni Carlo e Rosa, la “dolce casa di campagna” “piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose, ma quasi intime parti di coloro che vi abitavano”. Notevole la simmetrica opposizione: l’oggetto inanimato, MACCHINA, divora lo spirito dell’uomo, mentre nell’unico luogo vero del racconto le COSE diventano PARTI INTIME dell’uomo.
IL RAPPORTO DI PIRANDELLO CON IL CINEMA
Il rapporto di Pirandello con il cinema fu certo contrastato. Ad esempio in un’intervista del 1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto “l’illusione di realtà” propria del cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola. Ora,  dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: ­ la voce è di un corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; ­ le immagini non parlano, si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929).
Pirandello è stato a lungo combattuto fra un’attrazione verso il cinema e un rifiuto del medesimo come arte minore e sicuramente inferiore al teatro. Già nel 1911, quando la strada dove abita a Roma si trasforma nel set improvvisato de I promessi sposi  sceneggiato da Lucio D’Ambra, Pirandello si dice interessato a un’analoga trasposizione, quella delle Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo. Poi però Pirandello opta decisamente in questi anni per il teatro, con una profonda motivazione: ha bisogno della parola-azione, non gli basta più la pagina scritta, necessita dell’azione parlata, come scriverà anni dopo: “è esattamente durante la guerra che ho sperimentato l’impossibilità di applicarmi, con calma e serenità, non dico a lavori di ampio respiro, ma addirittura alla creazione di brevi novelle. Il gusto della forma narrativa era svanito. Non potevo più limitarmi a raccontare, mentre tutto intorno a me era azione. […] Altre cose si agitavano, ribollivano nel mio spirito, che esigevano di essere espresse in una maniera immediata. […] Le cedevo tutte tese verso l’azione e verso la battaglia. Le parole non potevano più restare scritte sulla carta, bisognava che scoppiassero nell’aria, dette o gridate”.
Questo spiega allora chiaramente il passaggio al teatro. Ma per quanto riguarda il confrotnnto con il cinema da cui pure, si è detto, è attratto?
Diamo di nuovo la parola ai Quaderni,  al passo in cui si tratta degli attori del cinematografo, passo che viene di solito sfruttato per dimostrare come Pirandello inequivocabilmente optasse per la superiorità del teatro:
“Qua si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela del cinematografo non c’è più: la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi, di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, gioco d’illusione su uno squallido pezzo di tela”.
Che cosa ci si potrebbe attendere di diverso  dall’autore che ha scritto la rivendicazione del personaggio di fronte agli interpreti umani? Noi siamo più veri di voi, rivendica il Padre nel dramma, perché “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo - non dico lei, adesso - un uomo così in genere, può non esser "nessuno".” E ancora, di fronte alle proteste del capocomico in merito alla realtà  che il personaggio ritiene essere superiore per loro rispetto agli attori: Ah, benissimo! E dica per giunta che lei, con codesta commedia che viene a rappresentarmi qua, è più vero e reale di me! Il padre (con la massima serietà) Ma questo senza dubbio, signore! Il capocomico Ah sì? Il padre Credevo che lei lo avesse già compreso fin da principio. Il capocomico Più reale di me? Il padre Se la sua realtà può cangiare dall'oggi al domani... Il capocomico Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente, come quella di tutti!  Ma la nostra no, signore! Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né esser altra, mai, perché già fissata - così - "questa" - per sempre - (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell'accostarsi a noi! Il capocomico (con uno scatto, parandoglisi davanti per un'idea che gli sorgerà all'improvviso). Io vorrei sapere però, quando mai s'è visto un personaggio che, uscendo dalla sua parte, si sia messo a perorarla così come fa lei, e a proporla, a spiegarla. Me lo sa dire? Io non l'ho mai visto! Il padre Non l'ha mai visto, signore, perché gli autori nascondono di solito il travaglio della loro creazione. Quando i personaggi son vivi, vivi veramente davanti al loro autore, questo non fa altro che seguirli nelle parole, nei gesti ch'essi appunto gli propongono, e bisogna ch'egli li voglia com'essi si vogliono; e guai se non fa così! Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò mai di dargli!”
L’attore cinematografico, dunque, non può che ingaggiare una lotta impari con quello teatrale, che già Pirandello ha messo sotto accusa, portando in scena la drammatizzazione del percorso creativo (questo è dare vita al personaggio).

IL FINALE
Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d'un uomo a una delle tante macchine dall'uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s'è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall'altro, per forza, e quella più e questa un po' meno bollate da un marchio di volgarità. Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m'ha reso così - come il tempo vuole - perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s'ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d'un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l'agiatezza con la retribuzione che la Casa m'ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch'io ne piangessi, ch'io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch'io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un'operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d'eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m'uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei. No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così - solo, muto e impassibile - a far l’operatore.
Da questo finale si può evincere questa provvisoria conclusione: Pirandello non condanna il nuovo strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma a suo modo », l’« aberrazione naturalistica » di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si allontana. È perciò rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel mondo cinematografico, e che l’operatore Serafino Gubbio, il quale aveva iniziato il diario affermando che c’è un “oltre” in ognuno di noi e nelle cose, un “di là da noi stessi”, finisca per essere « una mano che gira una manovella », pura presenza fisica, e come tale perda l’uso della parola, diventi muto come i personaggi sulla pellicola, ombre di persone vive.



                                                                                                                                  













Film muto e film sonoro
Pirandello offrì soggetti originali, tratti dalle sue opere, per l’adattamento cinematografico (tra l’altro, le finestre della casa romana dello scrittore, in via Bosio, affacciavano sui capannoni cinematografici della “Film d’Arte Italia”). Il film Il fu Mattia Pascal (dal romanzo omonimo), realizzato dal regista Marcel L’Herbier (1925) con l’interpretazione di Ivan Mosjoukine, è considerato una delle opere cinematografiche più significative degli anni Venti. Nel 1936 la commedia Ma non è una cosa seria venne trasposta in un film a opera del regista Mario Camerini, con la sceneggiatura degli scrittori Mario Soldati ed Ercole Patti e l’interpretazione di Vittorio De Sica. Non fu mai realizzata invece la riproduzione sul grande schermo del dramma Sei personaggi in cerca d’autore, cui lo scrittore aspirava.
Il rapporto di Pirandello con il cinema fu comunque problematico. In un’intervista del 1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto l’illusione di realtà propria del cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola. Ora dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: ­ la voce è di un corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; ­ le immagini non parlano, si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929). F






La modernità della concezione che Luigi Pirandello ha del linguaggio cinematografico si basa sul rapporto tra musica e immagini. È un’idea che anticipa alcuni aspetti della tipologia di linguaggio e di stile del regista tedesco Walter Ruttmann il quale si occupò della realizzazione del film Acciaio, tratto dall’unico soggetto originale per il cinema attribuito a Pirandello, ma scritto in realtà dal figlio Stefano. Alla sceneggiatura sarà chiamato anche Mario Soldati che, d’accordo col regista, attuerà sensibili modificazioni all’impianto originario: inciderà infatti sul ruolo dei personaggi e amplificherà il motivo del contrasto tra la Natura e la Macchina che nel soggetto originale era poco più che accennato e che nel film risulta invece essere prevalente.
Ho letto che il film si chiama ora Acciaieria e che lo dirigerà il Ruttmann. Che vogliamo fare una specie di documentario su quella misera baracca di ferri vecchi che è una fonderia italiana? Tutto il mio sforzo è stato di cavare dalla stupidità meccanica un po’ di dramma umano. Stantuffi in primo piano ne abbiamo visti fino alla sazietà.1
 Queste le parole di Luigi Pirandello ad Emilio Cecchi, allora capo della produzione della Cines di Lodovico Töeplitz, in una lettera dell’agosto 1932, poco prima che Walter Ruttmann montasse Acciaio. Tra questo avviso e il giudizio che il drammaturgo pronunciò dopo l’uscita del film, e che apparentemente ribaltava le legittime perplessità iniziali, si colloca un’opera che si rivela terreno di scontro tra due personalità ciascuna nel loro campo eccezionali. Su esplicita richiesta di Benito Mussolini e nell’ottica di una politica di cooperazione con la Germania, in cui le pellicole italiane trovavano serie difficoltà di penetrazione a causa del mercato fortemente protetto, era stata già offerta a Georg Wilhelm Pabst la direzione del film, ma dopo una prima non convinta adesione questi aveva comunicato il proprio rifiuto poiché impegnato nella preparazione del suo Don Quixote. A questo punto sarà Pirandello stesso, d’accordo con la dirigenza della Cines, a rivolgersi personalmente a Sergej M. Ejzenštejn chiedendogli la disponibilità a dirigere un film tratto dal proprio soggetto.2 Fallito anche questo tentativo, Cecchi ripiegherà su Ruttmann, all’epoca famoso in Europa per aver realizzato nel 1927 Berlin, Symphonie einer Groβstadt (Berlino, sinfonia di una grande città) e nel 1929 Melodie der Welt (La melodia del mondo), due film che avevano rivoluzionato il genere documentaristico per l’esemplare sperimentazione sul montaggio e sulla sincronizzazione sonora. Una scelta ottimale per molti versi dal momento che il film nasceva con intenti che escludevano a priori logiche commerciali, commissionato da una politica culturale svolta alla maniera dei tycoons delle grandi case americane per adempiere allo scopo d’impreziosire con una firma d’autore una produzione basata in larga parte su prodotti di serie e allo scopo di celebrare i risultati raggiunti dall’industria nazionale, e in particolare da quel polo di sviluppo industriale sbandierato dal modernismo fascista che era Terni con le sue acciaierie. Ruttmann proveniva dall’esperienza pittorica abbandonata in favore del cinema astratto e fortemente influenzato dalle avanguardie storiche; già il futurismo aveva rigettato la riproduzione realistica del mondo fenomenico, l’applicazioni dei codici convenzionali dalla letteratura e dal teatro (compresa ogni riflessione di carattere 1 L. Pirandello a E. Cecchi del 5 agosto 1932, in E. Lauretta e Agrigento (a cura di), Pirandello e il cinema, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani 1978, 26. 2
La nascita di Acciaio è ampiamente documentata in C. CAMERINI, Acciaio, un film degli anni Trenta, In uno scritto teorico intitolato Kunst und Kin il cineasta tedesco aveva scritto: La letteratura non ha nulla a che vedere con il cinema! Il contenuto di ogni spettacolo cinematografico ci viene trasmesso attraverso l’occhio ed è per questo che esso può trasformarsi in un esperienza artistica solo se concepito a un livello ottico. […] La cinematografia fa parte delle arti figurative, e i suoi principi sono più affini a quelli della pittura e della danza. I suoi mezzi d’espressione sono: forme, superfici, tonalità chiare e scure comprendenti tutte le sensazioni che in esse si celano, e soprattutto il movimento di questi fenomeni ottici, l’evoluzione temporale di una forma all’altra3. Erano noti i suoi studi sui contrasti ritmici e sul montaggio interno delle inquadrature e le sue teorie troveranno applicazione in opere come Lichtspiel Opus 1, Lichtspiel Opus 2, Ruttmann Opus 3, e Ruttmann Opus 4 (1921-1925) prima di culminare nel suo capolavoro, Berlin, Die Sinfonie der Groβstadt, con cui Ruttmann si avvicina al movimento della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività), importante fenomeno culturale che interessa le arti figurative nel biennio 1928-29 e che lascia tracce profonde anche in campo cinematografico. Variamente considerato come un recupero di modelli realistici, di una narrazione più controllata, distaccata e oggettiva, di uno stile impersonale molto simile a quello di una trattazione scientifica in reazione alla visionarietà fantastica dell’Espressionismo storico, o giudicato come una manifestazione dei processi di razionalizzazione legati alle trasformazioni economiche della seconda metà degli anni Venti, la Neue Sachlichkeit rappresentò una delle principali esperienze nel rivoluzionario cinema tedesco dell’epoca. Agli stessi anni risale il progetto mussoliniano di un film che esaltasse il lavoro nell’Italia fascista e l’indicazione di Pirandello come autore di un soggetto originale scritto appositamente per il cinema. È Torelli dell’Istituto Nazionale LUCE ad esporre l’idea al drammaturgo il quale si mostra subito entusiasta. In una lettera da Milano al figlio Stefano, scrive: «Torelli della “Luce” mi ha parlato d’un soggetto da proporre per un film in glorificazione del lavoro. Credo che sia da fare».4 Il progetto, temporaneamente accantonato a causa della partenza di Pirandello per la Germania, sarà ripreso solo nel 1932, in una fase di profonda crisi dell’industria siderurgica che forniva la materia prima a quella bellica, e quindi in un’ottica di rilancio propagandistico della sua immagine complessiva. Il duce fa richiamare Pirandello in Italia dal presidente dell’Istituto Luce, marchese Giacomo Paolucci di Calboli Barone, e si vede quasi costretto ad accettare l’incarico di scrivere quello che, da originario documentario, è nel frattempo diventato un lungometraggio a soggetto. Da quell’incontro avvenuto a metà febbraio del 1932, lo scrittore torna infuriato; un suo diniego non era immaginabile vuoi per la riconoscenza nei confronti del duce e di chi, tra i collaboratori di questi, nel 1925 si era mosso per risanare il bilancio in rosso del Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello vuoi per l’assicurazione di avere larghe responsabilità artistiche nel film: oltre al soggetto, sarebbero state sue prerogative anche 3 Riportato in L. Quaresima (a cura di) Walter Ruttmann, cinema, pittura, ars acustica, Trento, Manfrini 1994, 56. 4 L. Pirandello a Stefano, del 16 aprile 1928, in L. E S. PIRANDELLO, Nel tempo della lontananza (1919-1936), la scelta degli attori protagonisti, il controllo della sceneggiatura e la possibilità di dettare indicazioni di regia. Nel contratto definitivo sottoscritto il 3 giugno 1932 si legge che il compenso sarà di 71.000 lire «per la riduzione cinematografica muta o sonora, cantata o parlata della trama dal titolo provvisorio Le acciaierie di Terni, redatta sotto forma di soggetto col titolo Giuoca Pietro!» mentre il 30 agosto 1932, Pirandello consente che «la libera riduzione» possa essere presentata «sotto qualsiasi titolo e in qualsiasi forma», ma con l’indicazione «libera riduzione da…» e con diritto di pubblicare la trama Giuoca, Pietro!». 5 Molto occupato tuttavia dalla supervisione di una versione Favola del figlio cambiato musicata da Gian Francesco Malipiero, delega la stesura del soggetto al figlio riservandosi solo la firma e promettendogli tutto il compenso.6 La paternità effettiva è da attribuire perciò interamente a Stefano Pirandello alias Landi, come si evince da una lettera dell’ottobre 1932 in cui Luigi gli scrive «vorrei che prima della tua venuta sistemassi lo scenario di Giuoca, Pietro! per lo “Scenario” di d’Amico»7 e confermato dal Memoriale redatto nel 1937 in occasione della vertenza giudiziaria col produttore Giulio Manenti a proposito dell’autenticità di un altro soggetto pirandelliano per il cinema, e in cui negando qualsiasi apporto paterno attribuisce a sé stesso la completa responsabilità della scrittura: Le trame dei soggetti originali di Luigi Pirandello sono tutte di Pirandello, ma […] tutte stese dai “negri” di Pirandello: quasi tutte da me […]. Legittimamente Pirandello s’avvaleva di noi per la stesura di queste trame che, ripeto, non dovendo essere un lavoro di stile, sulla pagina , ma semplicemente la esposizione chiara e fedele di materiale della sua fantasia, non occorreva fossero materialmente formulate da lui […]. C’è in prova, per esempio, il soggetto da cui fu tratto il film Acciaio, uno dei vanti della cinematografia italiana. Questo soggetto è pubblicato (sulla rivista «Scenario») e ognuno può leggerlo. E chiunque abbia una pur superficiale conoscenza dello stile di Pirandello può agevolmente accorgersi che la stesura di Giuoca, Pietro!, com’era intitolato quel soggetto, non è di man di Pirandello […] sbalordirò forse il mondo svelando che la stesura della trama era formulata da me, Stefano Pirandello?.8 Fino a quel momento il rapporto fra Pirandello e l’industria cinematografica era stato favorito e nutrito unicamente da allettanti proposte economiche e da un ambiguo adeguamento della sua attività a quelle che erano le richieste del mercato. Ne è prova il fatto che, con l’eccezione del Fu Mattia Pascal di Marcel l’Herbier (1925), tutti i film tratti fino allora dalle opere pirandelliane erano serviti esclusivamente ad accrescere la fama di attori già noti e che il ruolo e il mestiere dei registi che si cimentavano con Pirandello assolveva a quest’unico intento.9 Nonostante le questioni relative alla paternità del soggetto di Acciaio realizzato in collaborazione con il figlio è innegabile la riproposizione di una serie di tematichericonducibili all’universo pirandelliano e che è possibile individuare nelle varie sequenze in cui articola la narrazione. Quel che però balza immediatamente all’occhio, già dalla lettura delle prime pagine, è che la sfiducia di Pirandello nei confronti dei mezzi espressivi del cinema, da lui considerato nettamente inferiore al teatro, non sembrerebbe tradursi in mancata competenza nell’ambito delle tecniche del linguaggio cinematografico, e nelle more di una totale simbiosi tra padre e figlio, attestata dal carteggio integrale edito a cura di Sarah Zappulla Muscarà, è attribuibile ad entrambi la precisione con cui sono consegnate a Giuoca, Pietro! minuziose ed estese indicazioni di montaggio, poste all’inizio dello scenario, dopo le note sui personaggi principali: Un tonfo cupo - Squilli - Un tonfo cupo - apre un ritmo di macchine (sonorità): appaiono tutte le diciture preliminari: quindi lo schermo diventa tenebroso (ma non buio): un canto sorge sul ritmo, e lo schermo si riempie di fiamme, pur restando tenebroso […] Le battute del ritmo di macchine saranno in quattro quarti: il tonfo tornerà ogni undici quarti - perciò, la seconda volta sul 12° quarto, la terza sul 23° ecc. Oppure riferendosi all’estroso e solare Giovanni Genuardi nello spogliatoio dell’acciaieria: Tarantella, galop. Giovanni nello spogliatoio. La macchina da presa, avendo da fare con un tipo come lui, s’è messa in allegria. Mentre egli si sciacqua fra i compagni, tutti a torso nudo, le sue mosse precipitano a un tratto, per un attimo solo celerissime, e quelle degli altri, sempre per un attimo solo, rallentano oltremisura. ‘Su con la vita, belli!’ Egli si lava addirittura, per un attimo, con la cascate delle Marmore, e, per un attimo, è colorato: colorato egli solo: fra gli altri che sono rimasti come prima in chiaroscuro. E ancora il ricorrente, alternato e metaforico: La luna e il fumo dei camini. Il ritmo delle macchine e il tonfo cupo del maglio. Oppure, a proposito della corsa di Chiara verso la fonderia, presaga di un incidente: La sua corsa nel buio è come incitata dal tonfo del maglio lontano, che si fa sempre più forte e frequente: finché non diventa quello del suo cuore angosciato e affannato dalla corsa. I quadri di questa fuga nella notte saranno intramezzati con quelli al Martin 3, che seguono. E infine la funzione del commento sonoro, «l’espressione d’intenso movimento del quadro, in cui nulla si muove», o la «musica larga, tenera e stanca, lontana, come in un sogno, priva di dissonanze» e la «musichetta liquida, scivoli, trilli, come in un chiacchierio». È presumibile quindi che Pirandello riponesse in Giuoca, Pietro! - e nel film che ne sarebbe stato tratto - aspettative che avrebbero dovuto smentire la sua diffidenza, anche perché il cinema gli offriva l’opportunità di utilizzare un linguaggio non adoperabile in teatro e da cui egli sembra molto attratto: la possibilità, cioè, del repentino cambiamento di scena. Ennesima riprova della serietà con cui il drammaturgo affrontava quest’impegno potrebbe essere l’indicazione - ma sarebbe meglio dire l’ingiunzione - ad affidare a Marta Abba il ruolo di Chiara che, nel film, è invece interpretato da Isa Pola. In apertura di scenario troviamo la caratterizzazione dei personaggi principali: Giovanni Genuardi è un brillante e affabile ventiduenne, con «il volto di una bellezza estrosa, ridente: il corpo non soltanto forte ma destro in ogni suo atto, agilissimo». Pieno di idee, non riesce a «tenere ferma la testa», vorrebbe perfezionare la macchina a cui lavora da anni nella sua piccola officina dietro casa; gli piacerebbe diventare un ciclista professionista, ma ciò che ama di più è la musica. Spirito libero e appena congedato dal servizio militare, non è riuscito ancora ad accettare «la costrizione cui è stato assoggettato e che gli dà ancora l’incubo nei sogni». Giovanni incarna il tipico personaggio pirandelliano in lotta contro le convenzioni e i vincoli che la società impone, e che sembra realizzarsi solo attraverso una serie di fughe. Anzitutto, la fuga dal lavoro; pur non essendo uno «scioperato», non riesce a provare ambizioni all’interno della fabbrica, magari per quel posto di caporeparto al Martin 3 «che è il massimo di nobiltà a cui possa aspirare un operajo» e che per tradizione è sempre stato assegnato a un membro della sua famiglia. Allo stesso modo, Giovanni avrebbe ottime opportunità nel ciclismo professionistico, ma non si decide a tentarlo per paura delle costrizioni che la disciplina impone. Resta l’amore soffocato per la coetanea Chiara, d’umili origini e d’una bellezza quasi irreale; rimasta orfana di entrambi i genitori, si occupa con grande dedizione della casa e dei suoi quattro fratelli: Cristoforo e Paolo, più grandi di lei, e i gemelli Nino e Pino di diciotto anni, tutti e quattro operai. Chiara non fa altro che pensare a Giovanni, ma anche in questo caso lui si ritrae spaventato dai vincoli di quest’amore, dalle «trappole che illudono per tradire» e per assecondare il quale dovrebbe rinunciare alla «vita di lavoro, sì, ma anche di spassi burle e canti e balli e allegre imprese». Per ironia del destino, nel momento in cui Giovanni rinuncerà alle sue ambizioni e si rassegnerà al lavoro d’operaio, resterà vittima di un incidente sul lavoro che lo renderà paraplegico costringendolo a rinunciare per sempre alle cose da cui era sempre fuggito. A causare involontariamente l’incidente di Giovanni è Pietro Bottù, un giovane non propriamente bello, ma con «una bella espressione di onestà e seriosa animosità: il corpo poderoso, un po’ impacciato, quasi della sua stessa forza». È un bravo ragazzo, ma in continua competizione con l’amico a causa del comune amore per Chiara; tuttavia è legato a Giovanni da sentimenti profondi, e fra tanti compagni e conoscenti è l’unico che stima. Il desiderio che Pietro ha di sposare Chiara si realizza proprio grazie all’aiuto di Giovanni che prima si fa da parte, rinunciando ai suoi sentimenti e svelando alla ragazza quelli dell’amico («io chiedo la tua mano…per lui, per lui che ti merita, per il mio amico Pietro che è uno al quale ti puoi affidare sicura, perché è un bravo ragazzo, serio di cuore davvero»), poi con la definitiva rinuncia a causa della paralisi, sarà sempre lui a spingere Pietro a correrle dietro («ora corri a raggiungerla: sei una bestia: ti ama. Và: corri!...giuoca, Pietro, giuoca! Tu che puoi…»). Pietro è un ‘doppio’ di Giovanni: a differenza dell’amico è perfettamente inserito nella società in cui vive e accetta la condizione d’operaio. Però anch’egli è condannato all’infelicità e al rimorso di essere stato responsabile dell’infermità fisica di Giovanni. La complementarietà caratterizza anche gli altri personaggi: Filippo Genuardi, padre di Pietro, uomo sulla cinquantina, nobilmente fiero e dal corpo poderoso ma sfibrato dal lavoro in fabbrica, può essere considerato il doppio del vecchio e disilluso Lassafà, «operaio dall’età ormai indefinibile, sbrendolato, sempre affumicato», non fa più caso a nulla e «pare uno che vada avanti per forza d’inerzia», la sua più che bontà e saggezza è «sfiducia nel bene». I due si troveranno a lavorare insieme dopo che Filippo, a causa dell’incidente occorso al figlio, è costretto a ritornare in fabbrica accettando unaqualifica minore. La quarantacinquenne Maria, madre di Giovanni sembra essere il doppio di Chiara. Entrambe tentano di riportare Giovanni alla realtà allontanandolo dalle sue fantasticherie e parimenti recano un dolore profondo: la prima a causa della perdita di due figli in tenera età; Chiara invece perché testimone di tre tragedie in fabbrica: un incidente mortale, uno che procura una mutilazione al fratello Cristoforo e la terza a Giovanni a cui involontariamente Pietro lascia cadere un lingotto d’acciaio rovente sulle gambe condannandolo all’immobilità. Questo soggetto sarebbe stato utilizzato da Ruttmann come semplice pre-testo, con varianti e modifiche non sempre giustificate, ma non per questo banali. Di ciò doveva essere in qualche modo presago lo stesso Pirandello che avrebbe voluto escludere proprio il regista tedesco dalla rosa dei registi che avrebbero potuto trasporre il suo unico soggetto scritto appositamente per il cinema. Come si compie il tradimento di Ruttmann? Rispetto allo scenario descritto da Pirandello si notano sensibili variazioni che hanno come riflesso immediato l’impoverimento della vicenda e il tratteggio meno accurato dei caratteri, Innanzitutto il film trascura e in qualche caso esclude dalla propria trama alcuni personaggi che in Giuoca, Pietro! hanno uno sviluppo non secondario, e precisamente: i quattro fratelli di Chiara, tutti operai; il vecchio Lassafà; Iginio Quaglia, «operaio sui trent’anni, magro, tutto nervi, faccia di furetto dallo sguardo intelligente e maligno»; l’ingegnere Michele Ruvo «d’una pulizia quasi schifiltosa» e il suo «spregiudicato ed esuberante» collega Ennio Salviati che nel soggetto pirandelliano insidia Chiara. Si tratta di un gruppo non indifferente di caratteri che nel soggetto di Pirandello contribuisce in molti luoghi ad alleggerire e sfumare la vicenda attraverso una ben congegnata ironia. In secondo luogo i tre personaggi principali cambiano nomi e caratteristiche: Giovanni Genuardi e Pietro Bottù, «i due emuli», come li definisce Pirandello, sono nel film rispettivamente Mario e Pietro, mentre Chiara diventa Gina. Infine alcuni personaggi subiscono uno slittamento di ruoli, come nel caso di Filippo Genuardi e di sua moglie Maria che diventano i genitori di Pietro e che avranno - specie il padre, il vecchio operaio Giuseppe - la funzione di liberare Mario dal rimorso per avere involontariamente causato la morte dell’amico e il compito di redimerlo agli occhi del paese. Gli interpreti furono scelti da Ruttmann prevalentemente tra gente comune e anche quelli che avevano trascorsi cinematografici serbavano movenze e tratti popolari, erano «tipi» capaci di integrarsi figurativamente col paesaggio e con l’ambiente più che rispondenti alla fisionomia interiore assegnata loro da Pirandello. Al protagonista Piero Pastore, cimentatosi sino ad allora solo in commedie senza pretese (Ragazze, non scherzate; Il monello della strada), venne affidato il ruolo di GiovanniMario, «il volto d’una bellezza estrosa, ridente: il corpo non soltanto forte, ma anche destro in ogni atto, agilissimo», che era poi quello di uno sportivo rubato effettivamente al calcio professionistico. Pietro è incarnato nella maschera di Vittorio Bellaccini e Isa Pola è Gina «una giovinetta sui vent’anni che da un po’ di tempo non sa spiegarsi come mai, seria, terribilmente seria qual è le frullino in testa tanti..., tante idee curiose, ecco: per non dire capricci». L’impoverimento dei caratteri ha però il merito di conferire proprio all’ambiente dell’acciaieria lo status di personaggio. Ruttmann riesce infatti ad illuminare il nucleo sotterraneo del soggetto pirandelliano: la macchina arbitra tra le volontà degli uomini. Scrive Pirandello: La macchina è la schiava dell’uomo, guai a metterla in confidenza: uccide subito. Quando i due operai dimentichi che la macchina è strumento di lavoro, se ne servono per gioco, per minacciarsi reciprocamente, per deridersi, la tragedia è inevitabile.10 Già nell’incipit di Giuoca, Pietro! la minuziosa descrizione d’ambiente fa risaltare le fiamme, le scintille, il rumore assordante, la potenza delle macchine. In un’intervista rilasciata ad Enrico Roma, Pirandello aveva dichiarato che quest’ultime non avrebbero avuto un ruolo marginale nel film o una mera funzione di cornice, bensì un ruolo fondamentale «né più né meno che come personaggi di primo piano»11. Infatti, Pirandello descrive la fabbrica e il lavoro con accuratezza arrivando al punto di definire la macchina un «arto umano dalla potenza moltiplicata», affermazione molto importante in quanto sembra sottolineare un cambiamento di atteggiamento rispetto a quanto espresso nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: non più una sorta di divinità malefica che tenta di asservire gli individui e divorarne le anime bensì un mezzo al servizio degli uomini in grado di facilitarne il loro lavoro. Il film si apre con una lunga e accurata sequenza di corsa in bicicletta, ed è citazione quantomeno scontata quella del cavallo d’acciaio in un film sull’acciaio. Mario, col cappello da bersagliere, finito il servizio ritorna al proprio paese: il primo impatto è quello grandioso, potente, con la natura che lo investe come un destino, con le immagini della cascata delle Marmore, vivificata dal potente lirismo pittorico di Ruttmann, alternate con le file degli operai che si recano all’acciaieria. Viene suggerita subito un’analogia puntuale tra l’immane laboriosità umana e quella della Natura che prelude al significato che gli elementi naturali e meccanici assumeranno nel corso del film, e di fronte a cui coerentemente anche le sublimi passioni degli individui diventano misera cosa. Quest’alternanza di montaggio che crea l’analogia conferisce al film il suo tono metaforico ed è sostenuta anche da un efficace contrappunto sonoro che mescola i suoni reali delle fonderie e dei magli d’acciaio con la musica creata appositamente da Gian Francesco Malipiero, costituendo un elemento connettivo importantissimo, originale per ispirazione e funzionalità. Lo stesso Pirandello assegnava alla musica, in Acciaio, un ruolo primario: Le macchine, le maestranze, il clima di quella industria non entreranno nel mio film come motivi decorativi [ma] giocheranno nella rappresentazione né più né meno che come personaggi di primo piano [...] Ho composto uno scenario che è un vero e proprio spartito. In molte scene ho tenuto conto degli effetti da ottenersi coi suoni, proprio come un musicista nello strumentale d’un opera lirica.12 Ruttmann non ha bisogno di discostarsi dal proprio stile per obbedire all’intento, dal momento che tutto il suo cinema optava per un uso sinfonico delle riprese ‘dal vero’, in cui l’uso diretto o indiretto della musica, nel caso di film muti, era inteso come supporto estetico per ottenere sensazioni epidermiche più o meno suggestive. Nel caso di Acciaio, l’uso di una ‘musica visiva’, congiunto con il sapiente e spesso geniale montaggio delle immagini ritmate, conferisce alla fotografia statica, al corpo umano, al paesaggio, allemacchine, una sorta di vita interna, d’individualità estetica che mobilità le potenzialità dinamiche del mezzo cinematografico. Con Acciaio, il regista tedesco arriva alla conclusione che la parola è l’eccezione di un film e non la sua regola. Da qui il primato accordato alle sonorità: il rumore vasto e grave dei pistoni nella fabbrica; quello dei lingotti che escono sibilando dai forni, raccordati con le musichette di una giostra di piazza; i violenti passaggi dal sonoro al muto, come quando Pietro è trattenuto dalla folla, nella zuffa con Mario, e la sirena della fabbrica interviene attraversando la scena muta, chiamando gli operai al lavoro. Ancora l’uso delle scene mute, talora più ‘sonore’ della musica nel creare un clima drammatico, inframmezzato da brandelli di frasi lapidarie, come quando, dopo la lunga scena delle sfide davanti al forno delle acciaierie, Pietro pronuncia lentamente: «Mario, lo so... Non hai colpa». Sbaglierebbe, perciò, chi valutasse come un limite il presunto documentarismo di Ruttmann perché Acciaio è un ‘racconto’ costruito con elementi ‘statici’: la forza fredda e impassibile dei metalli che sembrerebbero negarsi per loro stessa natura ad un uso cinetico e cinematografico, ma che sotto le forbici del regista diventano cinema, azione, movimento. È evidente l’influenza del cinema astratto come della «Nuova Oggettività»; motivi tipici del primo sono presenti già nella prima sequenza del film in cui sono inquadrate le piume dei cappelli dei bersaglieri mosse dal vento, che sottolineano le caratteristiche autonome, formali, dell’immagine, e soprattutto all’interno della fabbrica dove l’acciaio incandescente sembra avere una vita propria e si articola in varie forme geometriche dinamiche che si muovono seguendo il ritmo della musica. Per quanto riguarda i motivi tipici della «Nuova Oggettività», basti citare sempre all’inizio la sequenza in cui è ripresa con precisione quasi documentaristica una corsa di biciclette. Più che concentrarsi sui personaggi, la rappresentazione verte sul movimento delle ruote e delle gambe dei ciclisti, procedimento che insieme all’inquadratura di spalle dei bersagliere che assistono alla gara mira ad attuare i processi di desoggettivizzazione tipici di quell’estetica cui Ruttmann si richiamava programmaticamente. Il procedimento è reso poi ancora più evidente nella parte del film che si svolge dentro la fabbrica, in cui l’attenzione è concentrata sulle macchine, sulle loro forme, sugli ingranaggi e il loro ritmo di funzionamento. La rappresentazione che né viene fuori è di una precisione estrema e assolutamente oggettiva, non c’è alcuna traccia dell’uomo e la macchina appare come un organismo autonomo svincolato completamente dall’individuo. Ruttmann tenta, proprio come in Berlin, di fondere organico e inorganico: la fabbrica e l’ambiente circostante, la potenza delle macchine e quella della natura (rappresentata dalla cascata delle Marmore). A onor del vero bisogna riconoscere che, se il montaggio analogico assiste in maniera estremamente plastica la ‘sinfonia delle macchine’ nell’acciaieria, abbagliante per i contrasti luminosi con cui la fotografia di Massimo Terzano riesce a suggerire un clima irreale e soprannaturale, lo stesso incanto non si realizza allontanandosi dai lingotti incandescenti, dalle colate, dalle scintille che sprizzano dai magli, dalle macchine che sembrano prolungare mostruosamente le braccia nude degli uomini. L’unità d’ispirazione subisce una rottura quando nel film ci si imbatte nelle pulsioni e passioni dei protagonisti, suggerite da analogie di palese ed immediata sovrapposizione e che rasentano, per evidenza, la banalità, facendo rimpiangere l’acuta e delicata definizione dei caratteri auspicata da Pirandello, come nella sequenza in cui Mario, dopo aver saputo che la sua ex-fidanzata Gina sposerà l’amico Pietro, entra in un barper bere e il grammofono diffonde la melodia di Parlami d’amore Mariù. Subito dopo, la macchina da presa stacca su un tavolo a cui sono seduti alcuni avventori e tre carte da giuoco sono visibili in primo piano: un fante di cuori, una donna di cuori e un re di picche. Si potrebbe perciò rimproverare a Ruttmann l’aver privilegiato quasi esclusivamente alcuni aspetti che il soggetto originario certamente prevedeva, ma non nel senso di un’elegia della Macchina quanto di un dualismo fra natura e industria. Scrive Pirandello: Andai a Terni, visitai le acciaierie, assistei ai turni. Il contrasto tra quella pena ciclopica e la campagna umbra tutt’intorno, così ricca di acque e lieta di piante, fu la prima sensazione, il nucleo lirico da cui uscì il contrasto tra i due operai, uno più tenace, più attaccato alla macchina, l’altro più libero, più vicino alla natura. Il sostrato ideologico del discorso sull’industria, in Giuoca, Pietro!, è perciò lo stesso polemico j’accuse! dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui la macchina-cinema era elevata ad «emblema metaforico della complessiva realtà industriale»;13 una visione sicuramente non agiografica, quella di Pirandello, che infatti descrive più incidenti e a proposito del reparto delle sfogliatrici dice: È il reparto più triste dell’acciaieria. Vasta, squallida camerata: da una parte i banchi delle sfogliatrici; dirimpetto le macchine e i forni della laminatura, a cui attendono giovani un tempo possenti e vigorosi e che in pochi anni si sono ridotti magri scavati, minacciati quasi tutti dalla tisi: ma ciò nonostante vi persistono, perché il lavoro, dato a cottimo, è il più redditizio. La negatività nei confronti della macchina e nei confronti dell’industria non scompare perciò affatto in Giuoca, Pietro!, anzi emerge molto chiaramente sia nelle sequenze che descrivono gli effetti che il lavoro in fabbrica ha sugli operai, sia in quelle che denunciano i numerosi incidenti sul lavoro, di cui sono vittima gli operai a causa della stanchezza e degli orari massacranti. Inoltre è lo stesso Pirandello a dire che la macchina «è la schiava dell’uomo, guai a metterla in confidenza. uccide subito. Quando i due operai dimentichi che la macchina è strumento di lavoro, se ne servono per gioco, per minacciarsi reciprocamente, per deridersi la tragedia è inevitabile».14 Roberto Tessari ha visto nei Quaderni, soprattutto il senso di un rovesciamento della mitologia futurista, «un’accorata contestazione delle fiammeggianti religioni tecnologiche di D’Annunzio e Marinetti».15 La macchina è una divinità malefica e per Pirandello non può che configurarsi come un accrescimento della pena di vivere dell’uomo e della conseguente pietà.16 È da ritenersi che il rapporto tra Rutmann e Pirandello si riveli dialettico nel film nel senso che, se da un lato Acciaio scarnifica la complessità dei motivi del soggetto, dall’altro però ne emenda un umanitarismo a tratti generico. (Rosario Castelli, Stantuffi in primo piano, Pirandello e Ruttmann)
Debenedetti e il cinema
di Guido Aristarco
Tra il 1925 e il 1960, Proust appare ripetutamente negli scritti di Giacomo Debenedetti, e vi appare in modo tale da poter esser definito, rispetto all’insieme di questa sua opera critica, ad un tempo come oggetto privilegiato e come modello interiore. Al pari di tanti altri intellettuali, da Lukács ad Argan,  anche Giacomo Debenedetti denuncia – siamo nel lontano 1927 – « una assai parca esperienza di frequentatore del cinematografo ». Si trovava proprio in quell’anno, scrive su “Solaria”, nel momento « delicato in cui le impressioni cominciano ad uscire dal limbo dell’inarticolato, cominciano a cristallizzare, ma non sono ancora divenute materia così limpida da potere criticare e ragionarci su » . Il cinema tuttavia non gli era del tutto estraneo, faceva in qualche modo parte delle sue “abitudini”. « Ieri, a volerne discutere, mi sarei ridotto a dover giustificare un disinteresse quasi aprioristico » confessa in quell’occasione: « Con tutta probabilità, sarei andato ad annegarmi nei luoghi comuni della diffidenza. Domani forse cadrei in quelli dell’entusiasmo. E, per di più, mi troverei aver già lette troppe polemiche, discussioni, inchieste e teorie sul cinematografo: dovrei misurare la validità delle eventuali mie opinioni su quella delle altrui ».
Teorie sul cinema si intitola l’ “estetica in nuce” pubblicata un anno prima da Antonello Gerbi sul “Convegno”; e al 1916 risalgono l’Estetica del cinematografo apparsa a firma di Bellonci in “Apollon” e il Manifesto dei futuristi; L’antiteatro di Luciani esce nel ’28; e, per rimanere in Italia, al “Convegno” di Enzo Ferrieri venivano proiettati, a cominciare dal ’26, film d’avanguardia come Entr’acte e altri che poi sarebbero diventati dei classici: da Luna di miele di Stroheim a La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, da Variété di Dupont a La febbre dell’oro di Chaplin, non escluso Il viaggio al Congo di André Gide. In attesa di misurare la validità delle sue opinioni su quella di altri, Debenedetti riconosce intanto che « una tradizione critica e intelligente intorno al cinematografo, un gusto vero e proprio sull’arte cinematografica si vengono costituendo ». Continuano le grandi conversioni di intellettuali; ecco, altro esempio, quella del proustiano Guglielmo Alberti. « Ogniqualvolta nell’opera di Proust (ed è un’opera di ieri) si tocca il cinematografo è sempre in tono spregiativo » premette. Nel secondo volume del Temps retrouvé l’obiezione, ricorda, è così formulata:
La letteratura che s’accontenta di “descrivere le cose”, di rilevarne miseramente linee e superfici, malgrado la sua pretesa di realismo, è la più lontana dalla realtà, e quand’anche tratti di glorie e di grandezze è quella che ci impoverisce e ci attrista maggiormente, poiché interrompe bruscamente ogni comunicazione tra il nostro “io” presente e il passato di cui le cose serbano l’essenza, e l’avvenire in cui ci sollecitano a gustarle.
Se la « realtà si riducesse a questa specie di storie » continua Proust,
di rifiuto dell’esperienza press’a poco identico per ognuno, perché, quando diciamo: una brutta giornata, una guerra, un ristorante illuminato, un giardino fiorito, tutti sanno quel che vogliamo dire; se la realtà si riducesse a ciò soltanto, certo basterebbe un film cinematografico di queste cose, e lo “stile” e la “letteratura” che si scostassero dai loro semplici dati, non sembrerebbero che un’esercitazione esteriore e artificiale.
E domanda: « Ma è poi proprio questa la realtà? ». No di certo, risponde Alberti; ma neppure quello il cinematografo. L’autore della Recherche commenta – deve esser rimasto all’ “arrivo del treno” e all’ “annaffiatone inaffiato” o a poco più, anche se nel ’20 è già uscito a esempio Il monello di Chaplin. Nonostante la confusione ancora grande, vari “stili” si sono già delineati nel ’29, l’anno in cui Alberti redige queste sue “cronache” cinematografiche; e, tra gli stili, sottolinea quello “cosiddetto tedesco” (di un Murnau, o di un Dreyer) « che avrebbe più meravigliato » Proust: « mi fa ogni volta pensare ai lenti voli di quel suo mirabile telescopio col quale c’introduce ai misteri di una bellezza plastica insospettata ».
Il film esprime con i suoi « mezzi e con la sua “tecnica”, dei sentimenti e degli affetti » riconosce già nel ’27 il proustiano di ben altro livello e spessore Giacomo Debenedetti; e « non sarà lecito », sottolinea con forza, «parlare di “verismo” o di “illusione del vero” ». Risultante sui generis di un’invenzione poetica e attiva e di una testimonianza documentaria, il cinema trova la sua più grande “risorsa” nello scaturire dall’occhio visionario e creativo di un poeta combinato con l’occhio, che può sembrare meccanico e senza anima, della macchina da presa – sostiene al “Convegno” nel ’31, riprendendo e sviluppando il discorso gerbiano del ’26 sulle “teorie sul cinema”. II regista autentico trova nell’obiettivo un nuovo occhio, il suo – continua -, ne fa uno strumento esplorativo, che segue i desideri di osservazione e di scoperta, percorre le strade dell’inquietudine umana per riportarne tali documenti che forse il palpito dei nostri stessi desideri, i soprassalti della nostra stessa inquietudine ci avrebbero impedito di fissare. Debenedetti opera dunque una fondamentale distinzione per il chiarimento di un equivoco dal quale sono derivate, e talvolta ancora oggi derivano, tante incomprensioni e sospetti dinanzi al nuovo mezzo espressivo, a cominciare dall’obiezione proustiana.
Estendendo al cinema le proprietà dell’ “occhio strabico” – che guarda il mondo esterno e l’occhio che fissa il mndo interiore – Debenedetti riconosce all’obiettivo la facoltà di scegliere il materiale: quei “segni” che, in quanto tali, dipendono dalle angolazioni e stanno al posto della realtà, le inquadrature, a loro volta selezionate ed elaborate in sede di montaggio. Nel respingere in questo particolare caso il suo amato Proust, egli si immerge nel non meno amato Pirandello di Si gira… che – e siamo nel ’16 – non condanna affatto il nuovo strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma a suo modo », l’« aberrazione naturalistica » di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si allontana. È rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel mondo cinematografico, osserverà molti anni dopo Debenedetti, e che l’operatore Serafino Gubbio, il quale aveva iniziato il diario affermando che c’è un “oltre” in ognuno di noi e nelle cose, un “di là da noi stessi”, finisca per essere « una mano che gira una manovella », pura presenza fisica, e come tale perda l’uso della parola, diventi metaforicamente muto.
Nell’ambito di quella « divorante curiosità intellettuale » (la Pampaloni sottolineata in Debenedetti, questa conversione al cinema, tra le più dialettiche e di largo respiro, trova adeguata e oserei dire regolare collocazione nel critico del naturalismo, si lega con il discorso sul romanzo del Novecento e i reciproci influssi dei linguaggi artistici. Essa fa parte di una personale autobiografia nella biografia di una generazione. Non Murnau e Dreyer, Dupont, Pabst e Vidor – i registi fatti conoscere dal “Convegno”, creatori dei primi stili nella moderna tecnica di ripresa -, non la Garbo o Chaplin sono e possono essere definiti con la parola coniata da Delluc, “cineasti”. Cineasta per Debenedetti «è, è stato e rimane l’intellettuale convertito al cinematografo », un André Gide « quando con la superiore eleganza del grande artista letterario » compone « un reportage cinematografico del suo Voyage au Congo, oppure quando commenta nella sua critica lucida, spaziosa e intelligentissima gli effetti sonori di Alleluja! ». (È appena il caso ricordare che anche Debenedetti ha praticato la più moderna delle tecniche espressive: ha partecipato a sceneggiature, tradotto dialoghi di film stranieri, redatto commenti parlati per cinegiornali.)
Non è accidentale che le principali conversioni portino date « molto chiare e risalgano ad opere eminenti » quali Intolerance di Griffith o La corazzata Potémkin di Ejzenstejn, osserva Debenedetti, e che l’intellettuale, il cineasta si sia per esempio domandato « che cosa poté significare » il Chaplin delle “comiche” e dei medio e lungometraggi come La febbre dell’oro. Fu proprio questo film « a scoprire la linea profonda e interiore di tutti quegli sparsi accenni di comicità, a spiegare che le trovate chapliniane erano altrettante apparizioni di uno stile » . Cineasta nell’accezione riferita è dunque anche Rudolf Arnheim, con il quale Debenedetti possiede analogie di fondo e lavora, tra l’altro, per una importante enciclopedia del cinema rimasta incompiuta (le leggi razziali sono ormai operanti). Quando, alla fine degli anni Venti, in opposizione al luogo comune secondo
il quale il cinema sarebbe una macchina per stampare la vita, Debenedetti insiste sull’apparente tara realistica del nuovo mezzo e che è proprio questa pseudo tara a conferirgli forza e ad innestarlo « nelle più vive vicende del gusto contemporaneo » , l’accordo con il giovane studioso della Gestalt appare evidente. La sfida da cui parte Films als Kunst è appunto di dimostrare l’antinaturalismo del cinema, il divario che esiste tra le immagini della natura e le immagini del film; in questi fattori differenzianti le possibilità espressive, creative delle inquadrature.
Allora e in molti casi anche dopo, al ricorrente accendersi di polemiche e sospetti sul cinema come arte, potremmo dire che Debenedetti abbia opposto la stessa linea critica adottata per il romanzo del Novecento, e che non soltanto per il romanzo abbia avuto ragione con il tempo, individuando nel continuo confronto con le altre, le opere che hanno finito per contare: le opere anzitutto di Proust, Jovce, Kafka, Pirandello da una parte e, dall’altra, quelle di Chaplin, Murnau, Dreyer, Ejzenstejn sino all’Eclisse e Deserto rosso di Antonioni. Anche per il film – certi film – il problema base rimane lo stesso: vedere quale essenza si nasconda dietro le cose (le inquadrature), individuare quella “realtà seconda” più profonda e stabile e vera rispetto all’esteriorità vistosamente e sensibilmente apparente. Anche in un Bergman, in Bresson e Bunuel, nel Welles di Citizen Kane o nella von Trotta di Anni di piombo o nel Godard de La cinese – così ricchi di intermittenze del cuore, epifanie, rimandi all’ “oltre” – la « cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere qualcosa d’altro »; anche la loro narrativa, respinta la “necessità”, riposa sull’onda di probabilità. Primi, primissimi piani, e particolari apparentemente
insignificanti, indagano e mostrano, sotto la scorza di volti spesso terremotati, lineamenti che squilibrano le facce – la “maschera” – i dissidi sommersi e nascosti nella “bussola della psiche”, lo stato di emergenza, pericolo e insicurezza nell’orizzonte degli eventi.
È dunque possibile, legittimo allargare la nota tesi debenedettiana al cinema: oggi narrativa e scienza « sembrano trasmettere, con codici diversi, lo stesso tipo di informazione su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo » . I prestiti richiesti alla fisica moderna riguardano anche una particolare narrativa filmica. Del resto credo abbia ragione Giansiro Ferrata quando, nel 1967 afferma che, sul “Convegno” e in altre riviste, i saggi teorici sul cinema di Debenedetti « aprirono una prospettiva nuova, in sostanza, per criteri d’estetica non soltanto relativi a quest’arte ». È anche da rilevare che, contrariamente a quanto si crede ed afferma, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo non « è solo in parte sul cinema ». Intanto invito a ricordare che quel memorabile saggio – che conclude stupendamente l’avventura del lavoro intellettuale di Debenedetti, la sua autobiografia critica – è la relazione base ad un convegno su Forme della comunicazione cinematografica anche in rapporto alla narrativa e alle esperienze televisive: relazione affidata al grande critico su mia proposta dall’allora direttore della Mostra di Venezia, Luigi Chiarini, e per la prima volta pubblicata, sia pure non integralmente, sulla rivista “Cinema Nuovo” (e anche su questo, assoluto silenzio nelle bibliografie).
Riluttanza, residui di sospetto da parte di letterati nei confronti del cinema? « C’è una tale specie di sospetto che sembra insuperabile o destinata a noti risolversi mai più in benevolenza » annotava Debenedetti agli inizi degli anni Trenta.
II cinematografo visitato di rado e con irregolarità per colmare le ore più pigre, quelle in cui il pensiero o la fantasia caparbiamente disertano il cervello lasciandolo tristo; frequentato insomma da un animo prevenuto e decadente come i teatrini di varietà della barriera dove si esibiscono le vecchie stelle nel loro abito rosa stinto – il cinematografo rappresenta il quarto d’ora inconfessabile, o confessabile soltanto fra le riserve e i distacchi di un ironico pudore.
Sospetto e dispetto, « è cosa di cui conosciamo fin troppi esempi » . In uno dei suoi “incontri” con Ottavio Cecchi, Debenedetti aveva riferito:
II critico, a costo di sembrare inattuale, deve [...] tenere in salvo per l’indomani i valori transitoriamente sconfessati, se crede davvero che siano valori. Posto che egli non si sia sbagliato (ma allora lo si vede subito dai difetti della sua dimostrazione critica), verrà il giorno in cui ciascuno di quei valori apparirà come una tappa che è stato necessario attraversare per giungere a nuove e più profonde forme di espressione e quindi a un progresso di tutta la creazione artistica.
Riandando all’affermazione di Ferrata, il cinema ha rappresentato appunto per Debenedetti una tappa necessaria del suo percorso intellettuale e del progresso della creazione artistica nel suo insieme. Tenuti in salvo per l’indomani i valori insiti nel nuovo mezzo espressivo e transitoriamente sconfessati, ritenendo davvero che quelli fossero valori, vinta la “scommessa”, nel suo ultimo saggio ecco intanto riprendere e ribadire l’ipotesi di partenza per la scommessa stessa. In garbata polemica con Jean Bloch-Michel e l’ “école du regard” in generale, domanda:
E proprio sicuro, per esempio, che l’obiettivo sia un occhio indifferente? O non è piuttosto un occhio disponibile a captare tutte le immagini che gli vengono proposte, ma quelle soltanto? Indifferente sarebbe se guardasse tutto, di continuo, senza discriminazioni; invece si apre solo se noi vogliamo, e quando vogliamo; si adatta alle miopie, presbiopie, allargamenti e restringimenti di campo da noi decisi coi cambiamenti di fuoco e di lente; considera le cose sotto l’angolo che noi abbiamo scelto, accetta il nostro anodo di presentargli e illuminare gli oggetti. Di quanti aggettivi, e tutt’altro che ottici, tutt’altro che innocenti, si fa conduttore con queste connivenze. Di quante figure retoriche, metafore, sineddochi, traslati diventa complice [...] Si dirà che stiamo cadendo in un superstizioso animismo. Ma chiunque abbia adoperato la cinepresa, fa su di lei un transfert che ne abolisce l’indifferenza.
Notissima la chiusa della Commemorazione provvisoria:
Mettendo da parte le teorie, la pratica ci lascia intravedere il pericolo che stia nascendo o sia già nata un’arcadia dell’antipersonaggio. E allora, a chi votarsi se non al vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo?
Poco prima, nello stesso saggio, si legge:
Il cinema favorisce le resistenze del personaggio-uomo, che mettono quasi sempre in scacco l’antipersonaggio.
È un modo particolare per respingere la resa senza condizioni alla “crisi”, all’uomo-particella? Nel confutare un Antonioni “maestro dell’antipersonaggio”, Debenedetti sostiene che il regista dell’Eclisse (civetteria da fine letterato, scrive Eclissi) e del Deserto rosso, nell’« accettare le leggi di probabilità » si « rivela un narratore moderno » : narratore moderno, come si è visto, nell’accezione debenedettiana; trasponendo il linguaggio della fisica non soltanto alla letteratura tua anche al cinema. « Quando un romanziere si sente ancora in debito verso una poetica precedente (mettiamo, appunto, il naturalismo) » – scrive Debenedetti nel 1963 -
e nello stesso tempo è già attratto dal “nuovo dover essere” della narrativa (lo avverte anzi come qualcosa di inevitabile), finisce cori lo scrivere il romanzo di se stesso di fronte alla materia del suo possibile o impossibile romanzo.
È che cosa accade infatti all’ultimo Antonioni in ispecie, da Blow up in avanti, se non proprio questo e, nel caso specifico, Identificazione di una donna non offre all’autore la probabilità di identificare se stesso, di scrivere il proprio romanzo?
Appena quattro anni prima della Commemorazione provvisoria era apparso sugli schermi L’anno scorso a Marienbad; per l’ “école du regard” anche il cinema è minacciato, il “sospetto” di cui soffre il romanzo sembra coinvolgerlo e contagiarlo. « Come spiegare altrimenti infatti l’inquietudine che sull’esempio dei romanzi provano certi registi, e che li spinge a fare film in prima persona inserendovi l’occhio di un testimone o la voce di un narratore? » si interrogava e interrogava Nathalie Sarraute, convinta che il cinema, “arte ricca di promesse”, fosse sul punto di « far profittare delle sue tecniche nuovissime la nuova narrativa ». Marienbad è uno, ed il più esemplare di quei film; Robbe-Grillet ne è il coautore, anche lui sicuro che il cinema sia un mezzo di espressione predestinato al nuovo genere di racconto, che sostituisca il monologo interiore con il monologo esteriore e coniughi soltanto il presente. « E il cinema? Quale accoglienza ha fatto all’antipersonaggio? » domanda Debenedetti. « Ottima, sarebbe da supporre » risponde, « se è vero che ne è stato lui il principale responsabile, come Jean Bloch-Michel ha ripetutamente spiegato ». Ma si è vista l’obiezione che Debenedetti rivolge al critico francese, che egli contesta anche a proposito dell’indicativo presente cui sarebbe condannato il cinema.
Principale responsabile o no del l’antipersonaggio – Debenedetti lo esclude il cinema è uno dei protagonisti della Commemorazione provvisoria: riguarda criteri di estetica non soltanto relativi alla narrativa letteraria, « lo scritto maggiore e di più ricca apertura sul nostro tempo » di Debenedetti, l’ultima sua pagina critica, giustamente definita da Pampaloni “famosa” e “affascinante” e nella quale « egli rifiutava, pur dopo il trionfo, in decenni e decenni di narrativa, del personaggio-particella, di dire addio al personaggio-uomo » (quali e quante assonanze con il Calvino del “mare dell’oggettività” e la “sfida al labirinto”!). Partito da « una assai parca esperienza di frequentatore cinematografico » confessata in “Solaria” nel 1927, ormai egli è diventato un “frequentatore del cinema”, anche se, come sottolinea, “purtroppo intermittente”. Una testimonianza, e non ultima, ci viene dai libri che escono presso Il Saggiatore di Alberto Mondadori, nelle collane “I Gabbiani”, le “Silerchie”, “Specchio del mondo” e in particolare nella “Cultura”: il catalogo di quella grande e anticipatrice esperienza editoriale – carne e sangue di Alberto e Giacomino allinea titoli di Arnheim e Kracauer, Leyda e Jacobs e Manvell. Una tradizione critica e intelligente, un gusto vero e proprio intorno al cinema, si sono ormai costituiti, e fanno parte degli abiti culturali di Debenedetti; le impressioni a riguardo divenute in lui materia talmente limpida da poter egli ragionarci su e misurare la validità delle sue opinioni su quella degli altri.
Se il giudizio sul cinema è cambiato, « anzi se oggi esiste un giudizio sul cinema, al di fuori dei corti apprezzamenti pratici e sentimentali », è anche merito del cineasta Debenedetti. Convinto che l’intellettuale « è per diritto il primo commentatore di un’arte nuova », ha lottato « con la tenacia e l’ardimento dei pionieri ». Pochi come lui hanno impiegato il mirabile telescopio proustiano per introdurre i renitenti e i refrattari ai misteri dell’arte nuova, esteso il campo di osservazione per illuminare – scommessa non ultima e ancora una volta vincente nel suo romanzo – l’iscrizione del film all’anagrafe del Parnaso.



  Scale a volta, Escher, 1931 (olandese, morto nel 1972) 

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