CINEMA
E LETTERATURA NEL I NOVECENTO
Dal nome di un furgone della
polizia a cavallo viene la denominazione del primo studio cinematografico
americano: Black Maria (di solito
pronunciato Black "Mària"), un piccolo palcoscenico di posa dalle pareti interne dipinte di nero, per dare uno sfondo omogeneo
ai filmati, e la parte superiore e frontale apribile per poter garantire la
massima illuminazione con la luce solare, essendo la pellicola usata (la 35mm di Kodak) ancora poco sensibile. Poteva anche essere ruotato alla ricerca della migliore
esposizione solare. In questa l'operatore William Kennedy Laurie Dickson girò i primi brevi film per Thomas Edison e il suo Kinetoscopio. Il kinetoscopio è dunque di qualche anno anteriore alla prima
proiezione del 28 dicembre 1895 dei fratelli Lumière al Cafè de Paris. Nel gennaio 1894 venne ripreso Fred Ott's Sneeze, un breve filmato di un uomo che starnutisce in maniera teatrale. Il
cinema come narrazione nasce dunque da uno starnuto: nella Black Maria in cui
Laurie Dickson filma il suo assistente Fred Ott. Primo film ad essere depositato per il copyright.
Il cinema compie il suo primo passo
utile a definirsi appunto come forma di narrazione: descrive un atto nel suo
compiersi, con la sua specifica durata. In questa sua prima espressione palesa
tutta la sua specificità rispetto alle altri arti: nessun’arte, come il cinema
in questa fase iniziale, lavora con un mezzo espressivo che registri
passivamente la realtà (il sogno del naturalismo!) La parola, il suono, il
colore, la forma plastica sono in sé una cosa diversa, eterogenea dalla realtà
che ci danno l’illusione di trasfigurare o di riprodurre. Poi anche il cinema iniziò a raccontare, un dramma per iniziare, ma non
un dramma “inventato” da lui, bensì un dramma preesistente: fu nel 1897, quando ai fratelli Lumière
venne l’idea di riprendere la Passione
di Oberammergau, peraltro non quella che si teneva nella città bavarese
(celebre in tutto il mondo) ma una meno famosa che si svolgeva a Horitz. Il
film che ne derivò si componeva di 13 scene della vita di Cristo della durata
di 17 metri di pellicola per ogni scena, una superproduzione per l’epoca. Sia i fratelli Lumière sia Th.A. Edison, si limitano
comunque a un cinema-verità, che offre al pubblico esclusivamente documentari.
È G. Méliès a cambiare prospettiva,
realizzando, a partire dal 1902 film come Voyage dans la lune, ispirato ai romanzi
fantascientifici di J. Verne e Herbert George Wells, e Les voyages de Gulliver,
tratto da Jonathan Swift. Il cinema diventa
una macchina atta a raccontare storie:
Ch. Metz. E.S. Porter, nel 1903 realizza
negli Stati Uniti The great train robbery (L'assalto al treno),
film passato alla storia come il primo western, e lo stesso anno avvia l'ambizioso progetto di
ridurre per lo schermo, in quattordici quadri e un prologo, il popolare romanzo
di H. Beecher Stowe, Uncle Tom's cabin. Da allora i classici della letteratura
sono arrivati quasi tutti sugli schermi, da Dante a Shakespeare, da Flaubert a
Tolstoj, da Brecht ad Andersen.
La gamma di scelte e approcci è diversissima. Nel
periodo del muto F.W. Murnau attinge sia alla letteratura popolare, come in Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (1922) (sinfonia del terrore) - per il quale il
regista fu accusato di aver plagiato il romanzo Dracula di B. Stoker, così che i negativi del
film vennero distrutti -, sia alla letteratura alta, come in Tartüff (1925), dall'opera di Molière, o nel Faust (1926), in cui si sovrappongono richiami a Goethe,
Marlowe e alle leggende medievali germaniche. È da notare che anche il primo
film sonoro della storia, The jazz singer (1927, Il cantante di jazz), per la regia di A. Crosland, è
tratto dall'omonima commedia di S. Raphaelson. Mentre per il primo kolossal in
technicolor il produttore D.O. Selznick e il regista V. Fleming si rivolsero al
best seller di quegli anni, Gone with the wind di
Margareth Mitchell, realizzando l'omonimo film (1939, Via col vento,
giunto in Italia nel 1949), che ha avuto il maggior numero di spettatori
della storia del cinema. In Italia, fin dal secondo decennio del 20°
secolo, a un pubblico assetato di storie si proposero, seppure in filmati di
poche decine di minuti, le opere di Omero, Dante, Shakespeare e D'Annunzio,
portate per lo più sullo schermo in pochi rulli e senza l'indicazione degli
autori. È significativo, infatti, che mentre spesso i letterati scagliavano
invettive contro la nuova arte popolare, rea di non essere abbastanza 'colta',
alcuni di loro, a partire da
Papini, Verga, Gozzano, collaboravano con il cinema in veste
semi-clandestina. Nel 1914 G.
D'Annunzio, dietro lauto compenso, scrive le didascalie per Cabiria di G. Pastrone, e a sua volta
diventerà nel corso del tempo l'ispiratore di una ricca filmografia che va da La figlia di Iorio di E. Bencivenga (1916), a Il delitto di Giovanni Episcopo di A. Lattuada (1947), a L'innocente (1976) di L. Visconti.
L. Pirandello,
oltre a essersi ispirato al cinema per scrivere i Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, nel 1925 a sua volta ha ispirato numerosi film: da Le feu [la buonanima, il fu]Mathias Pascal di
M. L'Herbier [ [L'Herbier ‹l erbi̯é›, Marcel.
- Regista cinematografico
francese (Parigi 1890 - ivi 1979),
una delle personalità più rilevanti del cinema europeo. La sua fama di
realizzatore è legata soprattutto ai film muti. Esordì
con Rose France (1918), cui seguirono:Carnaval des vérités (1920); Villa Destin (1921); El Dorado (1921); L'inhumaine (1923); Feu Mathias Pascal (1925); La vertige(1926); Le diable au coeur (1927); L'argent (1928); Le mystère de la chambre jaune (1930); Le parfum de la dame en noir(1931). Dopo l'invenzione del cinema sonoro, realizzò
numerosi film; tra i più noti: Veillée d'armes (1936); La brigade sauvage(1939); Histoire de rire (1941); La nuit fantastique (1942), il migliore dei suoi film parlati; La révoltée (1947); Les derniers jours de Pompéi (1949); Hommage à Debussy (1964); Le cinéma du diable (1966); La féerie des fantasmes (1977). Fondatore (1941) e presidente (1941-69) dell'Institut
des hautes études cinématographiques, presidente (1937-45)
dell'Association des auteurs de films; autore di Intelligence du cinématographe (1946).] (1925), a Il fu Mattia Pascal (1937) di P. Chenal, realizzato contemporaneamente in
versione francese (L'homme de nulle part), a Le due vite di Mattia Pascal di M. Monicelli (1985); da Die lebende Maske - Heinrich der Vierte (1926) di A. Palermi, tratto da Enrico IV, ed Enrico IV di M. Bellocchio (1984), a Kaos dei
fratelli Taviani (1984), ispirato a
quattro racconti delle Novelle per un anno; da La canzone dell'amore (1930) di G. Righelli, basato sulla novella In silenzio, a As you desire me (1932); Come tu mi vuoi) di
G. Fitzmaurice, tratto dall'omonima commedia pirandelliana e interpretato da G.
Garbo e E. von Stroheim.
Dunque Pirandello è stato il primo scrittore a
ispirarsi per un romanzo al mondo della cinematografia con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore,
pubblicato in volume prima nel 1916 col
titolo Si gira…, poi nel 1925 con il
titolo definitivo. SI tratta di un vero e proprio ricettacolo di tematiche basilari per lo scrittore: dal rapporto fra realtà e finzione, alla
contrapposizione fra vita e non vita, al tema del progresso e dei congegni
meccanici divoratori dell’uomo, alla reificazione degli individui intrappolati
nella forma, al relativismo radicale che permea qualsiasi percezione e
interpretazione.
PREMESSA
SUI QUADERNI
I quaderni, per loro
natura, hanno una struttura composita, per definire la quale può valere una
similitudine attinta dalle arti visive: essi compongono un quadro alla maniera
di Escher, come Scale a volta, per
esempio, in cui le scale sembrano da una prospettiva salire, da un’altra
scendere, da una paiono allineate e un piano, da un’altra sovrastarlo di gran
lunga. Scale che fanno parte di un edificio eretto a sfida delle norme
architettoniche e al contempo solido e reale, possibile perché rappresentabile;
scale che tuttavia sembrano destinate a non portare da nessuna parte. Per le
scale, poi, c’è sempre qualcuno che passa e, altrove, qualcuno che guarda.
Nei Quaderni le scale sono le vite dei
personaggi. Talvolta paiono svolgersi in parallelo e implicare un incontro,
addirittura una possibilità di procedere insieme e portare a uno stesso piano;
ma poi svelano la loro vocazione più genuina: quella di essere percorsi
destinati a ognuno, anche allorché non si sappia (sempre non si sa) dove
conducano. Quanto al “qualcuno che guarda” della similitudine, questo
spettatore è protagonista, nel testo, di un gioco di specchi moltiplicatori: è
Serafino Gubbio, ma anche la macchina da presa, e poi la tigre, e noi lettori
forse guidati, forse no, dallo spettatore più attento e meno sprovveduto che va
compreso in questo elenco, cioè l’Autore.
Di là da questa
immagine, un principio ispiratore della narrazione, un suo asse portante, è
certo la contrapposizione VITA – NON VITA, alla quale si collega l’idea che vi
siano dei responsabili dell’inaridimento della prima e della sua metamorfosi in
seconda. Uno di questi è il progresso, la cui espressione concreta sono i
CONGEGNI MECCANICI, DIVORATORI dell’uomo (la macchina da presa, la monotype, il
pianoforte automatico).
Un focus sulla storia
Serafino Gubbio
registra quotidianamente su pellicola storie artificiali che simulano quelle
vere. Un giorno, credendo di riprendere l’azione di un film, finisce per
registrare sequenze di vita vera (la scena della tigre che sbrana l’attore),
scoprendo così che anche la realtà può apparire finzione. La vicenda,
problematica e aperta a varie interpretazioni, pone numerosi interrogativi: la
relazione tra Aldo Nuti e l’attrice Varia Nestoroff c’era stata davvero? La
sequenza ripresa da Serafino in cui Aldo spara per gelosia alla Nestoroff è
illusione o realtà? Al conflitto relativistico non c’è risposta. Alienazione e
mercificazione. Il romanzo è anche una
denuncia degli effetti disumanizzanti prodotti dalle macchine e della riduzione
di ogni ambito dell’esperienza e della comunicazione a merce: Serafino,
traumatizzato dalla scena della tigre, diventa muto, identificandosi così
ancora più sensibilmente con la macchina da presa, che non richiede la parola,
ma una mano che giri la manovella; il protagonista traduce l’alienazione
dell’uomo moderno, «reificato» ossia «fatto cosa» (dal latino: res, “cosa”;
facere, “fare”), ridotto a oggetto; i luoghi narrativi della letteratura di
consumo, che offriva all’intreccio dei film dell’epoca i suoi soggetti, sono
utilizzati da Pirandello in chiave tragico-umoristica; la tempestosa storia
d’amore, i cuori infranti, la donna fatale impersonata dalla Nestoroff,
simbolicamente accostata alla tigre che divora il presunto amante, lo stesso
mito di massa del cinematografo rinviano agli aspetti negativi della società
industriale, che mercifica tutto e nega la spontaneità dei sentimenti.
Qualche focus sui
personaggi
Serafino è l’autore dei
quaderni. La definizione della sua psicologia, la sua caratterizzazione come
personaggio dura per l’intera opera. Sono però isolabili alcuni momenti
specifici di auto rappresentazione: l’incipit, per esempio:
“Studio la gente nelle
sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che
manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno
[…] C’è un oltre in tutto. Voi non volete o sapete vederlo. […] Conosco anch’io
il congegno esterno, vorrei dire meccanico della vita che fragorosamente e
vertiginosamente ci affaccenda senza requie. […] Nessuno ha tempo o modo di
arrestarsi un momento a considerare se quel che vede fare agli altri, quel lui
stesso fa sia veramente ciò che sopra
tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera nella quale
solamente potrebbe trovare riposo.”
Serafino è “un occhio
che guarda”, prima ancora di presentarsi come “mano che fa girare la macchina
da presa”, è lo spettatore della vita, che è quindi subito metaforicamente introdotta
come sorta di ARCHETIPO DEL CINEMATOGRAFO, così da suggerire l’idea che il
cinematografo sia qualcosa di superfluo. Dice poi di sé Serafino: “ Servo la
mia macchinetta in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non
mi serve. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi, signori,
alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto
che ne verrà fuori. Quanto al tema del superfluo, esso è espressamente
introdotto quando Serafino presenta il suo amico, SIMONE PAU, detto “il
filosofo”. “Le bestie hanno in sé da
natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle
condizioni a cui furono, ciascuna secondo la propria natura, ordinate; laddove gli
uomini hanno in sé un superfluo che di continuo inutilmente li tormenta, non
facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro
destino.”
Nella storia c’è un
personaggio che è un alter ego di Serafino. SI tratta di un violinista, la cui
vita è raccontata da Simone Pau, il filosofo, che la ritiene esemplare di ciò a
cui il progresso condanna l’umanità.
Egli è “un grande artista”, dice Pau, che si porta Dio sotto il braccio.
Rimasto erede del violino e di una tipografia, trascura la seconda per
dedicarsi al primo, fino a ridursi sul lastrico. La sua vita, vita vera, è
fatta di concerti in osterie, al termine dei quali beve troppo; ogni tanto cerca
lavoro in tipografie, finché si imbatte in una mostruosa monotype, nuovo
modello: “bestiaccia mostruosa” al servizio della quale l’uomo diventa “peggio
d’un mozzo di stalla”; cerca allora un lavoro degno del suo violino, una vita
vera d’artista, e crede d’averla trovata: suonare in un cinematografo. Si
presenta, ma lì lo attende la svolta finale e tragica: dovrebbe suonare per
accompagnare uno strumento automatico, un pianoforte, e questo lo fa impazzire
o, per meglio dire, gli fa perdere l’anima, non suona più il suo violino. Così
come accadrà alla fine a Serafino (che perde la voce e si riduce a essere “mano
che gira”, dopo aver filmato una “morte vera” con la sua macchina da presa)
tutte le volte che l’uomo combatte con un congegno meccanico si riduce al
silenzio. Al violinista è dedicato un ulteriore spazio importante nel Quaderno
IV, allorché Simone Pau lo porta alla Kosmograph, la casa cinematografica,
perché suoni alla tigre (che è stata portata lì per girare un film) e recuperi
la voce dell’anima. Egli arriva col suo grosso naso poroso da beone (“Vedete
come la vita può ridurre il naso di un uomo”) e suona “quel bislacco straccione
meraviglioso” sul suo violino una musica mai udita, “limpida, dolcissima,
intensa, vibrante d’infinito spasimo”: musica dell’anima e per l’anima che
commuove tutti. Una serenata alla TIGRE, grazie alla quale scioglie
momentaneamente un incantesimo, quello che tiene prigioniero l’uomo del violino
e il violino, impedendo loro di esprimersi.
Così la narrazione fa
emergere quei motivi di fondo che ho elencato prima: LA CONTRAPPOSIZIONE FRA
VITA E NON VITA, LA FUNZIONE DIVORATRICE DELLE MACCHINE RISPETTO ALL’UOMO. La contrapposizione vita /non vita è poi
addirittura rintracciabile in luoghi specifici della narrazione. Ad esempio ci
sono due sorta di luoghi metafisici su cui
si sofferma l’attenzione di Serafino nel Quaderno III: due reparti della
Kosmograph denominati rispettivamente “Reparto Artistico e del Negativo” e
“Reparto Fotografico o del Positivo”. A connotarli come “luoghi metafisici” è l’annotazione “qua
si compie misteriosamente l’opera delle macchine”. Quindi sviluppa una metafora
meccanico-naturalistica molto ricercata, il cui centro propulsore è appunto la
VITA-NON VITA. “Quanto di vita le macchine hanno mangiato con la voracità delle
bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze
sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano
sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il
bagno. La vita ingoiata dalle macchine è lì, in quei vermi soltarii, dico nelle
pellicole già avvolte nei telai: Bisogna fissare questa vita, che non è più
vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi
sospeso.”
In perfetta antitesi a
tale regno della meccanica finzione, spaventoso perfino nei suoi dettagli
(quelle pellicole ossiuri…), vi è un unico luogo nel romanzo che sia vero,
naturale, non superfluo: è la casa dei Nonni Carlo e Rosa, la “dolce casa di
campagna” “piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove
tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose,
ma quasi intime parti di coloro che vi abitavano”. Notevole la simmetrica
opposizione: l’oggetto inanimato, MACCHINA, divora lo spirito dell’uomo, mentre
nell’unico luogo vero del racconto le COSE diventano PARTI INTIME dell’uomo.
IL RAPPORTO DI
PIRANDELLO CON IL CINEMA
Il rapporto di
Pirandello con il cinema fu certo contrastato. Ad esempio in un’intervista del
1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo
all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto “l’illusione di
realtà” propria del cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa
strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità
e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di
farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare
una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un
danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo
elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti
tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno
bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto
la parola. Ora, dare meccanicamente la
parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché,
invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad
essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a
perfezione, per le seguenti ragioni: la voce è di un corpo vivo che la emette
e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini
fotografate in movimento; le immagini non parlano, si vedono soltanto: se
parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce
viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma
spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929).
Pirandello è stato a
lungo combattuto fra un’attrazione verso il cinema e un rifiuto del medesimo
come arte minore e sicuramente inferiore al teatro. Già nel 1911, quando la
strada dove abita a Roma si trasforma nel set improvvisato de I promessi sposi sceneggiato da Lucio D’Ambra, Pirandello si
dice interessato a un’analoga trasposizione, quella delle Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo. Poi però
Pirandello opta decisamente in questi anni per il teatro, con una profonda
motivazione: ha bisogno della parola-azione, non gli basta più la pagina
scritta, necessita dell’azione parlata, come scriverà anni dopo: “è esattamente
durante la guerra che ho sperimentato l’impossibilità di applicarmi, con calma
e serenità, non dico a lavori di ampio respiro, ma addirittura alla creazione
di brevi novelle. Il gusto della forma narrativa era svanito. Non potevo più
limitarmi a raccontare, mentre tutto intorno a me era azione. […] Altre cose si
agitavano, ribollivano nel mio spirito, che esigevano di essere espresse in una
maniera immediata. […] Le cedevo tutte tese verso l’azione e verso la
battaglia. Le parole non potevano più restare scritte sulla carta, bisognava
che scoppiassero nell’aria, dette o gridate”.
Questo spiega allora
chiaramente il passaggio al teatro. Ma per quanto riguarda il confrotnnto con
il cinema da cui pure, si è detto, è attratto?
Diamo di nuovo la
parola ai Quaderni, al passo in cui si tratta degli attori del
cinematografo, passo che viene di solito sfruttato per dimostrare come
Pirandello inequivocabilmente optasse per la superiorità del teatro:
“Qua si sentono come in
esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi.
Perché la loro azione viva del loro
corpo vivo, là, sulla tela del cinematografo non c’è più: la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una
espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con senso smanioso,
indefinibile di vuoto, anzi, di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto,
soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del
rumore che esso produce muovendosi, per diventare soltanto un’immagine muta,
che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto,
come un’ombra inconsistente, gioco d’illusione su uno squallido pezzo di tela”.
Che cosa ci si potrebbe
attendere di diverso dall’autore che ha
scritto la rivendicazione del personaggio di fronte agli interpreti umani? Noi
siamo più veri di voi, rivendica il Padre
nel dramma, perché “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi
è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi,
per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo - non dico lei, adesso -
un uomo così in genere, può non esser "nessuno".” E ancora, di fronte
alle proteste del capocomico in merito alla realtà che il personaggio ritiene essere superiore
per loro rispetto agli attori: Ah, benissimo! E dica per giunta che lei, con
codesta commedia che viene a rappresentarmi qua, è più vero e reale di me! Il
padre (con la massima serietà) Ma questo senza dubbio, signore! Il capocomico
Ah sì? Il padre Credevo che lei lo avesse già compreso fin da principio. Il
capocomico Più reale di me? Il padre Se la sua realtà può cangiare dall'oggi al
domani... Il capocomico Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente,
come quella di tutti! Ma la nostra no,
signore! Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né esser
altra, mai, perché già fissata - così - "questa" - per sempre - (è
terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido
nell'accostarsi a noi! Il capocomico (con uno scatto, parandoglisi davanti per
un'idea che gli sorgerà all'improvviso). Io vorrei sapere però, quando mai s'è
visto un personaggio che, uscendo dalla sua parte, si sia messo a perorarla
così come fa lei, e a proporla, a spiegarla. Me lo sa dire? Io non l'ho mai
visto! Il padre Non l'ha mai visto, signore, perché gli autori nascondono di
solito il travaglio della loro creazione. Quando i personaggi son vivi, vivi
veramente davanti al loro autore, questo non fa altro che seguirli nelle
parole, nei gesti ch'essi appunto gli propongono, e bisogna ch'egli li voglia
com'essi si vogliono; e guai se non fa così! Quando un personaggio è nato,
acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può
esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di
metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò
mai di dargli!”
L’attore
cinematografico, dunque, non può che ingaggiare una lotta impari con quello
teatrale, che già Pirandello ha messo sotto accusa, portando in scena la
drammatizzazione del percorso creativo (questo è dare vita al personaggio).
IL FINALE
Ah, che dovesse toccarmi di dare
in pasto anche materialmente la vita d'un uomo a una delle tante macchine
dall'uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa
macchina s'è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come
questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall'altro,
per forza, e quella più e questa un po' meno bollate da un marchio di
volgarità. Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m'ha
reso così - come il tempo vuole - perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico
Simone Pau, che sempre più s'ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino
perpetuo d'un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l'agiatezza con la
retribuzione che la Casa m'ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco
domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film
mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a
vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a
scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai
assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch'io ne piangessi, ch'io almeno con
gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni
che sono con lui, che credo anch'io che la vita è là, in quel suo superfluo.
Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via
su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di
patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per
persuadermi a un'operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina
Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per
forza un sapor d'eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro
m'uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei. No, grazie.
Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è
questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così - solo,
muto e impassibile - a far l’operatore.
Da questo finale si
può evincere questa provvisoria conclusione: Pirandello non condanna il nuovo
strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma
a suo modo », l’« aberrazione naturalistica »
di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si
limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si
allontana. È perciò rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel
mondo cinematografico, e che l’operatore Serafino Gubbio, il quale aveva
iniziato il diario affermando che c’è un “oltre” in ognuno di noi e nelle cose,
un “di là da noi stessi”, finisca per essere « una mano che gira una
manovella », pura presenza fisica, e come tale perda l’uso della
parola, diventi muto come i personaggi sulla pellicola, ombre di persone vive.
Film muto e film sonoro
Pirandello offrì
soggetti originali, tratti dalle sue opere, per l’adattamento cinematografico
(tra l’altro, le finestre della casa romana dello scrittore, in via Bosio,
affacciavano sui capannoni cinematografici della “Film d’Arte Italia”). Il film
Il fu Mattia Pascal (dal romanzo omonimo), realizzato dal regista Marcel
L’Herbier (1925) con l’interpretazione di Ivan Mosjoukine, è considerato una
delle opere cinematografiche più significative degli anni Venti. Nel 1936 la
commedia Ma non è una cosa seria venne trasposta in un film a opera del regista
Mario Camerini, con la sceneggiatura degli scrittori Mario Soldati ed Ercole
Patti e l’interpretazione di Vittorio De Sica. Non fu mai realizzata invece la
riproduzione sul grande schermo del dramma Sei personaggi in cerca d’autore,
cui lo scrittore aspirava.
Il rapporto di
Pirandello con il cinema fu comunque problematico. In un’intervista del 1929 al
«Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del
sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto l’illusione di realtà propria del
cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a
fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1.
nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a
meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua
propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per
la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più
caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi
valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di
quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola.
Ora dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più
brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà,
ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa
nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: la voce è di un
corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a
teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; le immagini non parlano,
si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni
in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo
innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929). F
La
modernità della concezione che Luigi Pirandello ha del linguaggio
cinematografico si basa sul rapporto tra musica e immagini. È un’idea che
anticipa alcuni aspetti della tipologia di linguaggio e di stile del regista
tedesco Walter Ruttmann il quale si occupò della realizzazione del film Acciaio, tratto dall’unico soggetto
originale per il cinema attribuito a Pirandello, ma scritto in realtà dal
figlio Stefano. Alla sceneggiatura sarà chiamato anche Mario Soldati che,
d’accordo col regista, attuerà sensibili modificazioni all’impianto originario:
inciderà infatti sul ruolo dei personaggi e amplificherà il motivo del
contrasto tra la Natura e la Macchina che nel soggetto originale era poco più
che accennato e che nel film risulta invece essere prevalente.
Ho
letto che il film si chiama ora Acciaieria e che lo dirigerà il Ruttmann. Che
vogliamo fare una specie di documentario su quella misera baracca di ferri
vecchi che è una fonderia italiana? Tutto il mio sforzo è stato di cavare dalla
stupidità meccanica un po’ di dramma umano. Stantuffi in primo piano ne abbiamo
visti fino alla sazietà.1
Queste le parole di Luigi Pirandello ad Emilio
Cecchi, allora capo della produzione della Cines di Lodovico Töeplitz, in una
lettera dell’agosto 1932, poco prima che Walter Ruttmann montasse Acciaio. Tra
questo avviso e il giudizio che il drammaturgo pronunciò dopo l’uscita del
film, e che apparentemente ribaltava le legittime perplessità iniziali, si
colloca un’opera che si rivela terreno di scontro tra due personalità ciascuna
nel loro campo eccezionali. Su esplicita richiesta di Benito Mussolini e
nell’ottica di una politica di cooperazione con la Germania, in cui le
pellicole italiane trovavano serie difficoltà di penetrazione a causa del
mercato fortemente protetto, era stata già offerta a Georg Wilhelm Pabst la
direzione del film, ma dopo una prima non convinta adesione questi aveva
comunicato il proprio rifiuto poiché impegnato nella preparazione del suo Don
Quixote. A questo punto sarà Pirandello stesso, d’accordo con la dirigenza
della Cines, a rivolgersi personalmente a Sergej M. Ejzenštejn chiedendogli la
disponibilità a dirigere un film tratto dal proprio soggetto.2 Fallito anche
questo tentativo, Cecchi ripiegherà su Ruttmann, all’epoca famoso in Europa per
aver realizzato nel 1927 Berlin, Symphonie einer Groβstadt (Berlino, sinfonia
di una grande città) e nel 1929 Melodie der Welt (La melodia del mondo), due
film che avevano rivoluzionato il genere documentaristico per l’esemplare
sperimentazione sul montaggio e sulla sincronizzazione sonora. Una scelta
ottimale per molti versi dal momento che il film nasceva con intenti che
escludevano a priori logiche commerciali, commissionato da una politica
culturale svolta alla maniera dei tycoons delle grandi case americane per
adempiere allo scopo d’impreziosire con una firma d’autore una produzione
basata in larga parte su prodotti di serie e allo scopo di celebrare i
risultati raggiunti dall’industria nazionale, e in particolare da quel polo di
sviluppo industriale sbandierato dal modernismo fascista che era Terni con le
sue acciaierie. Ruttmann proveniva dall’esperienza pittorica abbandonata in
favore del cinema astratto e fortemente influenzato dalle avanguardie storiche;
già il futurismo aveva rigettato la riproduzione realistica del mondo
fenomenico, l’applicazioni dei codici convenzionali dalla letteratura e dal
teatro (compresa ogni riflessione di carattere 1 L. Pirandello a E. Cecchi del
5 agosto 1932, in E. Lauretta e Agrigento (a cura di), Pirandello e il cinema,
Centro Nazionale di Studi Pirandelliani 1978, 26. 2
La
nascita di Acciaio è ampiamente documentata in C. CAMERINI, Acciaio, un film
degli anni Trenta, In uno scritto teorico intitolato Kunst und Kin il cineasta
tedesco aveva scritto: La letteratura non ha nulla a che vedere con il cinema!
Il contenuto di ogni spettacolo cinematografico ci viene trasmesso attraverso
l’occhio ed è per questo che esso può trasformarsi in un esperienza artistica
solo se concepito a un livello ottico. […] La cinematografia fa parte delle
arti figurative, e i suoi principi sono più affini a quelli della pittura e della
danza. I suoi mezzi d’espressione sono: forme, superfici, tonalità chiare e
scure comprendenti tutte le sensazioni che in esse si celano, e soprattutto il
movimento di questi fenomeni ottici, l’evoluzione temporale di una forma
all’altra3. Erano noti i suoi studi sui contrasti ritmici e sul montaggio
interno delle inquadrature e le sue teorie troveranno applicazione in opere
come Lichtspiel Opus 1, Lichtspiel Opus 2, Ruttmann Opus 3, e Ruttmann Opus 4
(1921-1925) prima di culminare nel suo capolavoro, Berlin, Die Sinfonie der
Groβstadt, con cui Ruttmann si avvicina al movimento della Neue Sachlichkeit
(Nuova Oggettività), importante fenomeno culturale che interessa le arti
figurative nel biennio 1928-29 e che lascia tracce profonde anche in campo
cinematografico. Variamente considerato come un recupero di modelli realistici,
di una narrazione più controllata, distaccata e oggettiva, di uno stile
impersonale molto simile a quello di una trattazione scientifica in reazione
alla visionarietà fantastica dell’Espressionismo storico, o giudicato come una
manifestazione dei processi di razionalizzazione legati alle trasformazioni
economiche della seconda metà degli anni Venti, la Neue Sachlichkeit
rappresentò una delle principali esperienze nel rivoluzionario cinema tedesco
dell’epoca. Agli stessi anni risale il progetto mussoliniano di un film che
esaltasse il lavoro nell’Italia fascista e l’indicazione di Pirandello come
autore di un soggetto originale scritto appositamente per il cinema. È Torelli
dell’Istituto Nazionale LUCE ad esporre l’idea al drammaturgo il quale si
mostra subito entusiasta. In una lettera da Milano al figlio Stefano, scrive:
«Torelli della “Luce” mi ha parlato d’un soggetto da proporre per un film in
glorificazione del lavoro. Credo che sia da fare».4 Il progetto,
temporaneamente accantonato a causa della partenza di Pirandello per la
Germania, sarà ripreso solo nel 1932, in una fase di profonda crisi
dell’industria siderurgica che forniva la materia prima a quella bellica, e
quindi in un’ottica di rilancio propagandistico della sua immagine complessiva.
Il duce fa richiamare Pirandello in Italia dal presidente dell’Istituto Luce,
marchese Giacomo Paolucci di Calboli Barone, e si vede quasi costretto ad
accettare l’incarico di scrivere quello che, da originario documentario, è nel
frattempo diventato un lungometraggio a soggetto. Da quell’incontro avvenuto a
metà febbraio del 1932, lo scrittore torna infuriato; un suo diniego non era
immaginabile vuoi per la riconoscenza nei confronti del duce e di chi, tra i
collaboratori di questi, nel 1925 si era mosso per risanare il bilancio in
rosso del Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello vuoi per l’assicurazione
di avere larghe responsabilità artistiche nel film: oltre al soggetto,
sarebbero state sue prerogative anche 3 Riportato in L. Quaresima (a cura di)
Walter Ruttmann, cinema, pittura, ars acustica, Trento, Manfrini 1994, 56. 4 L.
Pirandello a Stefano, del 16 aprile 1928, in L. E S. PIRANDELLO, Nel tempo
della lontananza (1919-1936), la scelta degli attori protagonisti, il controllo
della sceneggiatura e la possibilità di dettare indicazioni di regia. Nel
contratto definitivo sottoscritto il 3 giugno 1932 si legge che il compenso
sarà di 71.000 lire «per la riduzione cinematografica muta o sonora, cantata o
parlata della trama dal titolo provvisorio Le acciaierie di Terni, redatta
sotto forma di soggetto col titolo Giuoca Pietro!» mentre il 30 agosto 1932,
Pirandello consente che «la libera riduzione» possa essere presentata «sotto
qualsiasi titolo e in qualsiasi forma», ma con l’indicazione «libera riduzione
da…» e con diritto di pubblicare la trama Giuoca, Pietro!». 5 Molto occupato
tuttavia dalla supervisione di una versione Favola del figlio cambiato musicata
da Gian Francesco Malipiero, delega la stesura del soggetto al figlio
riservandosi solo la firma e promettendogli tutto il compenso.6 La paternità
effettiva è da attribuire perciò interamente a Stefano Pirandello alias Landi,
come si evince da una lettera dell’ottobre 1932 in cui Luigi gli scrive «vorrei
che prima della tua venuta sistemassi lo scenario di Giuoca, Pietro! per lo
“Scenario” di d’Amico»7 e confermato dal Memoriale redatto nel 1937 in
occasione della vertenza giudiziaria col produttore Giulio Manenti a proposito
dell’autenticità di un altro soggetto pirandelliano per il cinema, e in cui
negando qualsiasi apporto paterno attribuisce a sé stesso la completa
responsabilità della scrittura: Le trame dei soggetti originali di Luigi
Pirandello sono tutte di Pirandello, ma […] tutte stese dai “negri” di
Pirandello: quasi tutte da me […]. Legittimamente Pirandello s’avvaleva di noi
per la stesura di queste trame che, ripeto, non dovendo essere un lavoro di
stile, sulla pagina , ma semplicemente la esposizione chiara e fedele di materiale
della sua fantasia, non occorreva fossero materialmente formulate da lui […].
C’è in prova, per esempio, il soggetto da cui fu tratto il film Acciaio, uno
dei vanti della cinematografia italiana. Questo soggetto è pubblicato (sulla
rivista «Scenario») e ognuno può leggerlo. E chiunque abbia una pur
superficiale conoscenza dello stile di Pirandello può agevolmente accorgersi
che la stesura di Giuoca, Pietro!, com’era intitolato quel soggetto, non è di
man di Pirandello […] sbalordirò forse il mondo svelando che la stesura della
trama era formulata da me, Stefano Pirandello?.8 Fino a quel momento il
rapporto fra Pirandello e l’industria cinematografica era stato favorito e
nutrito unicamente da allettanti proposte economiche e da un ambiguo
adeguamento della sua attività a quelle che erano le richieste del mercato. Ne
è prova il fatto che, con l’eccezione del Fu Mattia Pascal di Marcel l’Herbier
(1925), tutti i film tratti fino allora dalle opere pirandelliane erano serviti
esclusivamente ad accrescere la fama di attori già noti e che il ruolo e il
mestiere dei registi che si cimentavano con Pirandello assolveva a quest’unico
intento.9 Nonostante le questioni relative alla paternità del soggetto di
Acciaio realizzato in collaborazione con il figlio è innegabile la
riproposizione di una serie di tematichericonducibili all’universo
pirandelliano e che è possibile individuare nelle varie sequenze in cui
articola la narrazione. Quel che però balza immediatamente all’occhio, già
dalla lettura delle prime pagine, è che la sfiducia di Pirandello nei confronti
dei mezzi espressivi del cinema, da lui considerato nettamente inferiore al
teatro, non sembrerebbe tradursi in mancata competenza nell’ambito delle
tecniche del linguaggio cinematografico, e nelle more di una totale simbiosi
tra padre e figlio, attestata dal carteggio integrale edito a cura di Sarah
Zappulla Muscarà, è attribuibile ad entrambi la precisione con cui sono
consegnate a Giuoca, Pietro! minuziose ed estese indicazioni di montaggio,
poste all’inizio dello scenario, dopo le note sui personaggi principali: Un
tonfo cupo - Squilli - Un tonfo cupo - apre un ritmo di macchine (sonorità):
appaiono tutte le diciture preliminari: quindi lo schermo diventa tenebroso (ma
non buio): un canto sorge sul ritmo, e lo schermo si riempie di fiamme, pur
restando tenebroso […] Le battute del ritmo di macchine saranno in quattro
quarti: il tonfo tornerà ogni undici quarti - perciò, la seconda volta sul 12°
quarto, la terza sul 23° ecc. Oppure riferendosi all’estroso e solare Giovanni
Genuardi nello spogliatoio dell’acciaieria: Tarantella, galop. Giovanni nello
spogliatoio. La macchina da presa, avendo da fare con un tipo come lui, s’è
messa in allegria. Mentre egli si sciacqua fra i compagni, tutti a torso nudo,
le sue mosse precipitano a un tratto, per un attimo solo celerissime, e quelle
degli altri, sempre per un attimo solo, rallentano oltremisura. ‘Su con la
vita, belli!’ Egli si lava addirittura, per un attimo, con la cascate delle
Marmore, e, per un attimo, è colorato: colorato egli solo: fra gli altri che
sono rimasti come prima in chiaroscuro. E ancora il ricorrente, alternato e
metaforico: La luna e il fumo dei camini. Il ritmo delle macchine e il tonfo
cupo del maglio. Oppure, a proposito della corsa di Chiara verso la fonderia,
presaga di un incidente: La sua corsa nel buio è come incitata dal tonfo del
maglio lontano, che si fa sempre più forte e frequente: finché non diventa
quello del suo cuore angosciato e affannato dalla corsa. I quadri di questa
fuga nella notte saranno intramezzati con quelli al Martin 3, che seguono. E
infine la funzione del commento sonoro, «l’espressione d’intenso movimento del
quadro, in cui nulla si muove», o la «musica larga, tenera e stanca, lontana,
come in un sogno, priva di dissonanze» e la «musichetta liquida, scivoli,
trilli, come in un chiacchierio». È presumibile quindi che Pirandello riponesse
in Giuoca, Pietro! - e nel film che ne sarebbe stato tratto - aspettative che
avrebbero dovuto smentire la sua diffidenza, anche perché il cinema gli offriva
l’opportunità di utilizzare un linguaggio non adoperabile in teatro e da cui
egli sembra molto attratto: la possibilità, cioè, del repentino cambiamento di
scena. Ennesima riprova della serietà con cui il drammaturgo affrontava quest’impegno
potrebbe essere l’indicazione - ma sarebbe meglio dire l’ingiunzione - ad
affidare a Marta Abba il ruolo di Chiara che, nel film, è invece interpretato
da Isa Pola. In apertura di scenario troviamo la caratterizzazione dei
personaggi principali: Giovanni Genuardi è un brillante e affabile ventiduenne,
con «il volto di una bellezza estrosa, ridente: il corpo non soltanto forte ma
destro in ogni suo atto, agilissimo». Pieno di idee, non riesce a «tenere ferma
la testa», vorrebbe perfezionare la macchina a cui lavora da anni nella sua
piccola officina dietro casa; gli piacerebbe diventare un ciclista
professionista, ma ciò che ama di più è la musica. Spirito libero e appena
congedato dal servizio militare, non è riuscito ancora ad accettare «la costrizione
cui è stato assoggettato e che gli dà ancora l’incubo nei sogni». Giovanni
incarna il tipico personaggio pirandelliano in lotta contro le convenzioni e i
vincoli che la società impone, e che sembra realizzarsi solo attraverso una
serie di fughe. Anzitutto, la fuga dal lavoro; pur non essendo uno
«scioperato», non riesce a provare ambizioni all’interno della fabbrica, magari
per quel posto di caporeparto al Martin 3 «che è il massimo di nobiltà a cui
possa aspirare un operajo» e che per tradizione è sempre stato assegnato a un
membro della sua famiglia. Allo stesso modo, Giovanni avrebbe ottime
opportunità nel ciclismo professionistico, ma non si decide a tentarlo per
paura delle costrizioni che la disciplina impone. Resta l’amore soffocato per
la coetanea Chiara, d’umili origini e d’una bellezza quasi irreale; rimasta
orfana di entrambi i genitori, si occupa con grande dedizione della casa e dei
suoi quattro fratelli: Cristoforo e Paolo, più grandi di lei, e i gemelli Nino
e Pino di diciotto anni, tutti e quattro operai. Chiara non fa altro che
pensare a Giovanni, ma anche in questo caso lui si ritrae spaventato dai
vincoli di quest’amore, dalle «trappole che illudono per tradire» e per
assecondare il quale dovrebbe rinunciare alla «vita di lavoro, sì, ma anche di
spassi burle e canti e balli e allegre imprese». Per ironia del destino, nel
momento in cui Giovanni rinuncerà alle sue ambizioni e si rassegnerà al lavoro
d’operaio, resterà vittima di un incidente sul lavoro che lo renderà
paraplegico costringendolo a rinunciare per sempre alle cose da cui era sempre
fuggito. A causare involontariamente l’incidente di Giovanni è Pietro Bottù, un
giovane non propriamente bello, ma con «una bella espressione di onestà e
seriosa animosità: il corpo poderoso, un po’ impacciato, quasi della sua stessa
forza». È un bravo ragazzo, ma in continua competizione con l’amico a causa del
comune amore per Chiara; tuttavia è legato a Giovanni da sentimenti profondi, e
fra tanti compagni e conoscenti è l’unico che stima. Il desiderio che Pietro ha
di sposare Chiara si realizza proprio grazie all’aiuto di Giovanni che prima si
fa da parte, rinunciando ai suoi sentimenti e svelando alla ragazza quelli
dell’amico («io chiedo la tua mano…per lui, per lui che ti merita, per il mio
amico Pietro che è uno al quale ti puoi affidare sicura, perché è un bravo
ragazzo, serio di cuore davvero»), poi con la definitiva rinuncia a causa della
paralisi, sarà sempre lui a spingere Pietro a correrle dietro («ora corri a
raggiungerla: sei una bestia: ti ama. Và: corri!...giuoca, Pietro, giuoca! Tu
che puoi…»). Pietro è un ‘doppio’ di Giovanni: a differenza dell’amico è
perfettamente inserito nella società in cui vive e accetta la condizione
d’operaio. Però anch’egli è condannato all’infelicità e al rimorso di essere
stato responsabile dell’infermità fisica di Giovanni. La complementarietà
caratterizza anche gli altri personaggi: Filippo Genuardi, padre di Pietro,
uomo sulla cinquantina, nobilmente fiero e dal corpo poderoso ma sfibrato dal
lavoro in fabbrica, può essere considerato il doppio del vecchio e disilluso
Lassafà, «operaio dall’età ormai indefinibile, sbrendolato, sempre affumicato»,
non fa più caso a nulla e «pare uno che vada avanti per forza d’inerzia», la
sua più che bontà e saggezza è «sfiducia nel bene». I due si troveranno a
lavorare insieme dopo che Filippo, a causa dell’incidente occorso al figlio, è
costretto a ritornare in fabbrica accettando unaqualifica minore. La
quarantacinquenne Maria, madre di Giovanni sembra essere il doppio di Chiara.
Entrambe tentano di riportare Giovanni alla realtà allontanandolo dalle sue
fantasticherie e parimenti recano un dolore profondo: la prima a causa della
perdita di due figli in tenera età; Chiara invece perché testimone di tre
tragedie in fabbrica: un incidente mortale, uno che procura una mutilazione al
fratello Cristoforo e la terza a Giovanni a cui involontariamente Pietro lascia
cadere un lingotto d’acciaio rovente sulle gambe condannandolo all’immobilità.
Questo soggetto sarebbe stato utilizzato da Ruttmann come semplice pre-testo,
con varianti e modifiche non sempre giustificate, ma non per questo banali. Di
ciò doveva essere in qualche modo presago lo stesso Pirandello che avrebbe
voluto escludere proprio il regista tedesco dalla rosa dei registi che
avrebbero potuto trasporre il suo unico soggetto scritto appositamente per il
cinema. Come si compie il tradimento di Ruttmann? Rispetto allo scenario
descritto da Pirandello si notano sensibili variazioni che hanno come riflesso
immediato l’impoverimento della vicenda e il tratteggio meno accurato dei
caratteri, Innanzitutto il film trascura e in qualche caso esclude dalla
propria trama alcuni personaggi che in Giuoca, Pietro! hanno uno sviluppo non
secondario, e precisamente: i quattro fratelli di Chiara, tutti operai; il
vecchio Lassafà; Iginio Quaglia, «operaio sui trent’anni, magro, tutto nervi,
faccia di furetto dallo sguardo intelligente e maligno»; l’ingegnere Michele
Ruvo «d’una pulizia quasi schifiltosa» e il suo «spregiudicato ed esuberante»
collega Ennio Salviati che nel soggetto pirandelliano insidia Chiara. Si tratta
di un gruppo non indifferente di caratteri che nel soggetto di Pirandello
contribuisce in molti luoghi ad alleggerire e sfumare la vicenda attraverso una
ben congegnata ironia. In secondo luogo i tre personaggi principali cambiano
nomi e caratteristiche: Giovanni Genuardi e Pietro Bottù, «i due emuli», come
li definisce Pirandello, sono nel film rispettivamente Mario e Pietro, mentre
Chiara diventa Gina. Infine alcuni personaggi subiscono uno slittamento di
ruoli, come nel caso di Filippo Genuardi e di sua moglie Maria che diventano i
genitori di Pietro e che avranno - specie il padre, il vecchio operaio Giuseppe
- la funzione di liberare Mario dal rimorso per avere involontariamente causato
la morte dell’amico e il compito di redimerlo agli occhi del paese. Gli
interpreti furono scelti da Ruttmann prevalentemente tra gente comune e anche
quelli che avevano trascorsi cinematografici serbavano movenze e tratti
popolari, erano «tipi» capaci di integrarsi figurativamente col paesaggio e con
l’ambiente più che rispondenti alla fisionomia interiore assegnata loro da
Pirandello. Al protagonista Piero Pastore, cimentatosi sino ad allora solo in
commedie senza pretese (Ragazze, non scherzate; Il monello della strada), venne
affidato il ruolo di GiovanniMario, «il volto d’una bellezza estrosa, ridente:
il corpo non soltanto forte, ma anche destro in ogni atto, agilissimo», che era
poi quello di uno sportivo rubato effettivamente al calcio professionistico.
Pietro è incarnato nella maschera di Vittorio Bellaccini e Isa Pola è Gina «una
giovinetta sui vent’anni che da un po’ di tempo non sa spiegarsi come mai,
seria, terribilmente seria qual è le frullino in testa tanti..., tante idee curiose,
ecco: per non dire capricci». L’impoverimento dei caratteri ha però il merito
di conferire proprio all’ambiente dell’acciaieria lo status di personaggio.
Ruttmann riesce infatti ad illuminare il nucleo sotterraneo del soggetto
pirandelliano: la macchina arbitra tra le volontà degli uomini. Scrive
Pirandello: La macchina è la schiava dell’uomo, guai a metterla in confidenza:
uccide subito. Quando i due operai dimentichi che la macchina è strumento di
lavoro, se ne servono per gioco, per minacciarsi reciprocamente, per deridersi,
la tragedia è inevitabile.10 Già nell’incipit di Giuoca, Pietro! la minuziosa
descrizione d’ambiente fa risaltare le fiamme, le scintille, il rumore
assordante, la potenza delle macchine. In un’intervista rilasciata ad Enrico Roma,
Pirandello aveva dichiarato che quest’ultime non avrebbero avuto un ruolo
marginale nel film o una mera funzione di cornice, bensì un ruolo fondamentale
«né più né meno che come personaggi di primo piano»11. Infatti, Pirandello
descrive la fabbrica e il lavoro con accuratezza arrivando al punto di definire
la macchina un «arto umano dalla potenza moltiplicata», affermazione molto
importante in quanto sembra sottolineare un cambiamento di atteggiamento
rispetto a quanto espresso nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: non più
una sorta di divinità malefica che tenta di asservire gli individui e divorarne
le anime bensì un mezzo al servizio degli uomini in grado di facilitarne il
loro lavoro. Il film si apre con una lunga e accurata sequenza di corsa in bicicletta,
ed è citazione quantomeno scontata quella del cavallo d’acciaio in un film
sull’acciaio. Mario, col cappello da bersagliere, finito il servizio ritorna al
proprio paese: il primo impatto è quello grandioso, potente, con la natura che
lo investe come un destino, con le immagini della cascata delle Marmore,
vivificata dal potente lirismo pittorico di Ruttmann, alternate con le file
degli operai che si recano all’acciaieria. Viene suggerita subito un’analogia
puntuale tra l’immane laboriosità umana e quella della Natura che prelude al
significato che gli elementi naturali e meccanici assumeranno nel corso del
film, e di fronte a cui coerentemente anche le sublimi passioni degli individui
diventano misera cosa. Quest’alternanza di montaggio che crea l’analogia
conferisce al film il suo tono metaforico ed è sostenuta anche da un efficace
contrappunto sonoro che mescola i suoni reali delle fonderie e dei magli
d’acciaio con la musica creata appositamente da Gian Francesco Malipiero,
costituendo un elemento connettivo importantissimo, originale per ispirazione e
funzionalità. Lo stesso Pirandello assegnava alla musica, in Acciaio, un ruolo
primario: Le macchine, le maestranze, il clima di quella industria non
entreranno nel mio film come motivi decorativi [ma] giocheranno nella
rappresentazione né più né meno che come personaggi di primo piano [...] Ho
composto uno scenario che è un vero e proprio spartito. In molte scene ho
tenuto conto degli effetti da ottenersi coi suoni, proprio come un musicista
nello strumentale d’un opera lirica.12 Ruttmann non ha bisogno di discostarsi
dal proprio stile per obbedire all’intento, dal momento che tutto il suo cinema
optava per un uso sinfonico delle riprese ‘dal vero’, in cui l’uso diretto o
indiretto della musica, nel caso di film muti, era inteso come supporto
estetico per ottenere sensazioni epidermiche più o meno suggestive. Nel caso di
Acciaio, l’uso di una ‘musica visiva’, congiunto con il sapiente e spesso
geniale montaggio delle immagini ritmate, conferisce alla fotografia statica,
al corpo umano, al paesaggio, allemacchine, una sorta di vita interna,
d’individualità estetica che mobilità le potenzialità dinamiche del mezzo
cinematografico. Con Acciaio, il regista tedesco arriva alla conclusione che la
parola è l’eccezione di un film e non la sua regola. Da qui il primato
accordato alle sonorità: il rumore vasto e grave dei pistoni nella fabbrica;
quello dei lingotti che escono sibilando dai forni, raccordati con le
musichette di una giostra di piazza; i violenti passaggi dal sonoro al muto,
come quando Pietro è trattenuto dalla folla, nella zuffa con Mario, e la sirena
della fabbrica interviene attraversando la scena muta, chiamando gli operai al
lavoro. Ancora l’uso delle scene mute, talora più ‘sonore’ della musica nel
creare un clima drammatico, inframmezzato da brandelli di frasi lapidarie, come
quando, dopo la lunga scena delle sfide davanti al forno delle acciaierie,
Pietro pronuncia lentamente: «Mario, lo so... Non hai colpa». Sbaglierebbe,
perciò, chi valutasse come un limite il presunto documentarismo di Ruttmann
perché Acciaio è un ‘racconto’ costruito con elementi ‘statici’: la forza
fredda e impassibile dei metalli che sembrerebbero negarsi per loro stessa
natura ad un uso cinetico e cinematografico, ma che sotto le forbici del
regista diventano cinema, azione, movimento. È evidente l’influenza del cinema
astratto come della «Nuova Oggettività»; motivi tipici del primo sono presenti
già nella prima sequenza del film in cui sono inquadrate le piume dei cappelli
dei bersaglieri mosse dal vento, che sottolineano le caratteristiche autonome,
formali, dell’immagine, e soprattutto all’interno della fabbrica dove l’acciaio
incandescente sembra avere una vita propria e si articola in varie forme
geometriche dinamiche che si muovono seguendo il ritmo della musica. Per quanto
riguarda i motivi tipici della «Nuova Oggettività», basti citare sempre
all’inizio la sequenza in cui è ripresa con precisione quasi documentaristica
una corsa di biciclette. Più che concentrarsi sui personaggi, la
rappresentazione verte sul movimento delle ruote e delle gambe dei ciclisti,
procedimento che insieme all’inquadratura di spalle dei bersagliere che
assistono alla gara mira ad attuare i processi di desoggettivizzazione tipici
di quell’estetica cui Ruttmann si richiamava programmaticamente. Il
procedimento è reso poi ancora più evidente nella parte del film che si svolge
dentro la fabbrica, in cui l’attenzione è concentrata sulle macchine, sulle
loro forme, sugli ingranaggi e il loro ritmo di funzionamento. La
rappresentazione che né viene fuori è di una precisione estrema e assolutamente
oggettiva, non c’è alcuna traccia dell’uomo e la macchina appare come un
organismo autonomo svincolato completamente dall’individuo. Ruttmann tenta, proprio
come in Berlin, di fondere organico e inorganico: la fabbrica e l’ambiente
circostante, la potenza delle macchine e quella della natura (rappresentata
dalla cascata delle Marmore). A onor del vero bisogna riconoscere che, se il
montaggio analogico assiste in maniera estremamente plastica la ‘sinfonia delle
macchine’ nell’acciaieria, abbagliante per i contrasti luminosi con cui la
fotografia di Massimo Terzano riesce a suggerire un clima irreale e
soprannaturale, lo stesso incanto non si realizza allontanandosi dai lingotti
incandescenti, dalle colate, dalle scintille che sprizzano dai magli, dalle
macchine che sembrano prolungare mostruosamente le braccia nude degli uomini.
L’unità d’ispirazione subisce una rottura quando nel film ci si imbatte nelle pulsioni
e passioni dei protagonisti, suggerite da analogie di palese ed immediata
sovrapposizione e che rasentano, per evidenza, la banalità, facendo rimpiangere
l’acuta e delicata definizione dei caratteri auspicata da Pirandello, come
nella sequenza in cui Mario, dopo aver saputo che la sua ex-fidanzata Gina
sposerà l’amico Pietro, entra in un barper bere e il grammofono diffonde la
melodia di Parlami d’amore Mariù. Subito dopo, la macchina da presa stacca su
un tavolo a cui sono seduti alcuni avventori e tre carte da giuoco sono
visibili in primo piano: un fante di cuori, una donna di cuori e un re di
picche. Si potrebbe perciò rimproverare a Ruttmann l’aver privilegiato quasi
esclusivamente alcuni aspetti che il soggetto originario certamente prevedeva, ma
non nel senso di un’elegia della Macchina quanto di un dualismo fra natura e
industria. Scrive Pirandello: Andai a Terni, visitai le acciaierie, assistei ai
turni. Il contrasto tra quella pena ciclopica e la campagna umbra tutt’intorno,
così ricca di acque e lieta di piante, fu la prima sensazione, il nucleo lirico
da cui uscì il contrasto tra i due operai, uno più tenace, più attaccato alla
macchina, l’altro più libero, più vicino alla natura. Il sostrato ideologico
del discorso sull’industria, in Giuoca, Pietro!, è perciò lo stesso polemico
j’accuse! dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui la macchina-cinema
era elevata ad «emblema metaforico della complessiva realtà industriale»;13 una
visione sicuramente non agiografica, quella di Pirandello, che infatti descrive
più incidenti e a proposito del reparto delle sfogliatrici dice: È il reparto
più triste dell’acciaieria. Vasta, squallida camerata: da una parte i banchi
delle sfogliatrici; dirimpetto le macchine e i forni della laminatura, a cui attendono
giovani un tempo possenti e vigorosi e che in pochi anni si sono ridotti magri
scavati, minacciati quasi tutti dalla tisi: ma ciò nonostante vi persistono,
perché il lavoro, dato a cottimo, è il più redditizio. La negatività nei
confronti della macchina e nei confronti dell’industria non scompare perciò
affatto in Giuoca, Pietro!, anzi emerge molto chiaramente sia nelle sequenze
che descrivono gli effetti che il lavoro in fabbrica ha sugli operai, sia in
quelle che denunciano i numerosi incidenti sul lavoro, di cui sono vittima gli
operai a causa della stanchezza e degli orari massacranti. Inoltre è lo stesso
Pirandello a dire che la macchina «è la schiava dell’uomo, guai a metterla in
confidenza. uccide subito. Quando i due operai dimentichi che la macchina è
strumento di lavoro, se ne servono per gioco, per minacciarsi reciprocamente,
per deridersi la tragedia è inevitabile».14 Roberto Tessari ha visto nei
Quaderni, soprattutto il senso di un rovesciamento della mitologia futurista,
«un’accorata contestazione delle fiammeggianti religioni tecnologiche di
D’Annunzio e Marinetti».15 La macchina è una divinità malefica e per Pirandello
non può che configurarsi come un accrescimento della pena di vivere dell’uomo e
della conseguente pietà.16 È da ritenersi che il rapporto tra Rutmann e
Pirandello si riveli dialettico nel film nel senso che, se da un lato Acciaio
scarnifica la complessità dei motivi del soggetto, dall’altro però ne emenda un
umanitarismo a tratti generico. (Rosario Castelli, Stantuffi in primo piano,
Pirandello e Ruttmann)
https://www.youtube.com/watch?v=2wnOpDWSbyw
(starnuto)
Debenedetti e il cinema
di Guido Aristarco
Tra il 1925 e il 1960,
Proust appare ripetutamente negli scritti di Giacomo Debenedetti, e vi appare
in modo tale da poter esser definito, rispetto all’insieme di questa sua opera
critica, ad un tempo come oggetto privilegiato e come modello interiore. Al pari
di tanti altri intellettuali, da Lukács ad Argan, anche Giacomo
Debenedetti denuncia – siamo nel lontano 1927 – « una assai parca
esperienza di frequentatore del cinematografo ». Si trovava
proprio in quell’anno, scrive su “Solaria”, nel momento « delicato
in cui le impressioni cominciano ad uscire dal limbo dell’inarticolato,
cominciano a cristallizzare, ma non sono ancora divenute materia così limpida
da potere criticare e ragionarci su » . Il cinema tuttavia non gli
era del tutto estraneo, faceva in qualche modo parte delle sue “abitudini”.
« Ieri, a volerne discutere, mi sarei ridotto a dover giustificare
un disinteresse quasi aprioristico » confessa in quell’occasione:
« Con tutta probabilità, sarei andato ad annegarmi nei luoghi comuni
della diffidenza. Domani forse cadrei in quelli dell’entusiasmo. E, per di più,
mi troverei aver già lette troppe polemiche, discussioni, inchieste e teorie
sul cinematografo: dovrei misurare la validità delle eventuali mie opinioni su
quella delle altrui ».
Teorie sul cinema si
intitola l’ “estetica in nuce” pubblicata un anno prima da Antonello Gerbi sul
“Convegno”; e al 1916 risalgono l’Estetica del cinematografo apparsa a firma di
Bellonci in “Apollon” e il Manifesto dei futuristi; L’antiteatro di Luciani
esce nel ’28; e, per rimanere in Italia, al “Convegno” di Enzo Ferrieri
venivano proiettati, a cominciare dal ’26, film d’avanguardia come Entr’acte e
altri che poi sarebbero diventati dei classici: da Luna di miele di Stroheim a
La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, da Variété di Dupont a La febbre
dell’oro di Chaplin, non escluso Il viaggio al Congo di André Gide. In attesa
di misurare la validità delle sue opinioni su quella di altri, Debenedetti
riconosce intanto che « una tradizione critica e intelligente
intorno al cinematografo, un gusto vero e proprio sull’arte cinematografica si
vengono costituendo ». Continuano le grandi conversioni di
intellettuali; ecco, altro esempio, quella del proustiano Guglielmo Alberti.
« Ogniqualvolta nell’opera di Proust (ed è un’opera di ieri) si
tocca il cinematografo è sempre in tono spregiativo » premette.
Nel secondo volume del Temps retrouvé l’obiezione, ricorda, è così formulata:
La letteratura che
s’accontenta di “descrivere le cose”, di rilevarne miseramente linee e superfici,
malgrado la sua pretesa di realismo, è la più lontana dalla realtà, e
quand’anche tratti di glorie e di grandezze è quella che ci impoverisce e ci
attrista maggiormente, poiché interrompe bruscamente ogni comunicazione tra il
nostro “io” presente e il passato di cui le cose serbano l’essenza, e
l’avvenire in cui ci sollecitano a gustarle.
Se la « realtà
si riducesse a questa specie di storie » continua Proust,
di rifiuto dell’esperienza press’a poco
identico per ognuno, perché, quando diciamo: una brutta giornata, una guerra,
un ristorante illuminato, un giardino fiorito, tutti sanno quel che vogliamo
dire; se la realtà si riducesse a ciò soltanto, certo basterebbe un film
cinematografico di queste cose, e lo “stile” e la “letteratura” che si scostassero
dai loro semplici dati, non sembrerebbero che un’esercitazione esteriore e
artificiale.
E domanda: « Ma
è poi proprio questa la realtà? ». No di certo, risponde Alberti;
ma neppure quello il cinematografo. L’autore della Recherche commenta – deve esser
rimasto all’ “arrivo del treno” e all’ “annaffiatone inaffiato” o a poco più,
anche se nel ’20 è già uscito a esempio Il monello di Chaplin. Nonostante la
confusione ancora grande, vari “stili” si sono già delineati nel ’29, l’anno in
cui Alberti redige queste sue “cronache” cinematografiche; e, tra gli stili,
sottolinea quello “cosiddetto tedesco” (di un Murnau, o di un Dreyer) « che
avrebbe più meravigliato » Proust: « mi fa ogni volta
pensare ai lenti voli di quel suo mirabile telescopio col quale c’introduce ai
misteri di una bellezza plastica insospettata ».
Il film esprime con i
suoi « mezzi e con la sua “tecnica”, dei sentimenti e degli affetti »
riconosce già nel ’27 il proustiano di ben altro livello e spessore Giacomo
Debenedetti; e « non sarà lecito », sottolinea con
forza, «parlare di “verismo” o di “illusione del vero” ».
Risultante sui generis di un’invenzione poetica e attiva e di una testimonianza
documentaria, il cinema trova la sua più grande “risorsa” nello scaturire
dall’occhio visionario e creativo di un poeta combinato con l’occhio, che può
sembrare meccanico e senza anima, della macchina da presa – sostiene al
“Convegno” nel ’31, riprendendo e sviluppando il discorso gerbiano del ’26
sulle “teorie sul cinema”. II regista autentico trova nell’obiettivo un nuovo
occhio, il suo – continua -, ne fa uno strumento esplorativo, che segue i
desideri di osservazione e di scoperta, percorre le strade dell’inquietudine
umana per riportarne tali documenti che forse il palpito dei nostri stessi desideri,
i soprassalti della nostra stessa inquietudine ci avrebbero impedito di
fissare. Debenedetti opera dunque una fondamentale distinzione per il
chiarimento di un equivoco dal quale sono derivate, e talvolta ancora oggi
derivano, tante incomprensioni e sospetti dinanzi al nuovo mezzo espressivo, a
cominciare dall’obiezione proustiana.
Estendendo al cinema
le proprietà dell’ “occhio strabico” – che guarda il mondo esterno e l’occhio
che fissa il mndo interiore – Debenedetti riconosce all’obiettivo la facoltà di
scegliere il materiale: quei “segni” che, in quanto tali, dipendono dalle
angolazioni e stanno al posto della realtà, le inquadrature, a loro volta
selezionate ed elaborate in sede di montaggio. Nel respingere in questo
particolare caso il suo amato Proust, egli si immerge nel non meno amato
Pirandello di Si gira… che – e siamo nel ’16 – non condanna affatto il nuovo
strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma
a suo modo », l’« aberrazione naturalistica »
di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si
limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si
allontana. È rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel mondo
cinematografico, osserverà molti anni dopo Debenedetti, e che l’operatore
Serafino Gubbio, il quale aveva iniziato il diario affermando che c’è un
“oltre” in ognuno di noi e nelle cose, un “di là da noi stessi”, finisca per
essere « una mano che gira una manovella », pura
presenza fisica, e come tale perda l’uso della parola, diventi metaforicamente
muto.
Nell’ambito di quella
« divorante curiosità intellettuale » (la Pampaloni
sottolineata in Debenedetti, questa conversione al cinema, tra le più
dialettiche e di largo respiro, trova adeguata e oserei dire regolare
collocazione nel critico del naturalismo, si lega con il discorso sul romanzo
del Novecento e i reciproci influssi dei linguaggi artistici. Essa fa parte di
una personale autobiografia nella biografia di una generazione. Non Murnau e
Dreyer, Dupont, Pabst e Vidor – i registi fatti conoscere dal “Convegno”,
creatori dei primi stili nella moderna tecnica di ripresa -, non la Garbo o
Chaplin sono e possono essere definiti con la parola coniata da Delluc,
“cineasti”. Cineasta per Debenedetti «è, è stato e rimane l’intellettuale
convertito al cinematografo », un André Gide « quando
con la superiore eleganza del grande artista letterario » compone
« un reportage cinematografico del suo Voyage au Congo, oppure
quando commenta nella sua critica lucida, spaziosa e intelligentissima gli
effetti sonori di Alleluja! ». (È appena il caso ricordare che
anche Debenedetti ha praticato la più moderna delle tecniche espressive: ha
partecipato a sceneggiature, tradotto dialoghi di film stranieri, redatto
commenti parlati per cinegiornali.)
Non è accidentale che
le principali conversioni portino date « molto chiare e risalgano ad opere
eminenti » quali Intolerance di Griffith o La corazzata Potémkin di Ejzenstejn,
osserva Debenedetti, e che l’intellettuale, il cineasta si sia per esempio
domandato « che cosa poté significare » il Chaplin delle “comiche” e
dei medio e lungometraggi come La febbre dell’oro. Fu proprio questo film « a
scoprire la linea profonda e interiore di tutti quegli sparsi accenni di
comicità, a spiegare che le trovate chapliniane erano altrettante apparizioni
di uno stile » . Cineasta nell’accezione riferita è dunque anche
Rudolf Arnheim, con il quale Debenedetti possiede analogie di fondo e lavora,
tra l’altro, per una importante enciclopedia del cinema rimasta incompiuta (le
leggi razziali sono ormai operanti). Quando, alla fine degli anni Venti, in
opposizione al luogo comune secondo
il quale il cinema sarebbe una macchina per stampare la vita, Debenedetti insiste sull’apparente tara realistica del nuovo mezzo e che è proprio questa pseudo tara a conferirgli forza e ad innestarlo « nelle più vive vicende del gusto contemporaneo » , l’accordo con il giovane studioso della Gestalt appare evidente. La sfida da cui parte Films als Kunst è appunto di dimostrare l’antinaturalismo del cinema, il divario che esiste tra le immagini della natura e le immagini del film; in questi fattori differenzianti le possibilità espressive, creative delle inquadrature.
il quale il cinema sarebbe una macchina per stampare la vita, Debenedetti insiste sull’apparente tara realistica del nuovo mezzo e che è proprio questa pseudo tara a conferirgli forza e ad innestarlo « nelle più vive vicende del gusto contemporaneo » , l’accordo con il giovane studioso della Gestalt appare evidente. La sfida da cui parte Films als Kunst è appunto di dimostrare l’antinaturalismo del cinema, il divario che esiste tra le immagini della natura e le immagini del film; in questi fattori differenzianti le possibilità espressive, creative delle inquadrature.
Allora e in molti casi
anche dopo, al ricorrente accendersi di polemiche e sospetti sul cinema come
arte, potremmo dire che Debenedetti abbia opposto la stessa linea critica
adottata per il romanzo del Novecento, e che non soltanto per il romanzo abbia
avuto ragione con il tempo, individuando nel continuo confronto con le altre,
le opere che hanno finito per contare: le opere anzitutto di Proust, Jovce,
Kafka, Pirandello da una parte e, dall’altra, quelle di Chaplin, Murnau,
Dreyer, Ejzenstejn sino all’Eclisse e Deserto rosso di Antonioni. Anche per il
film – certi film – il problema base rimane lo stesso: vedere quale essenza si
nasconda dietro le cose (le inquadrature), individuare quella “realtà seconda”
più profonda e stabile e vera rispetto all’esteriorità vistosamente e
sensibilmente apparente. Anche in un Bergman, in Bresson e Bunuel, nel Welles
di Citizen Kane o nella von Trotta di Anni di piombo o nel Godard de La cinese
– così ricchi di intermittenze del cuore, epifanie, rimandi all’ “oltre” – la
« cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo
apparire, invita a scorgere qualcosa d’altro »; anche la loro
narrativa, respinta la “necessità”, riposa sull’onda di probabilità. Primi,
primissimi piani, e particolari apparentemente
insignificanti, indagano e mostrano, sotto la scorza di volti spesso terremotati, lineamenti che squilibrano le facce – la “maschera” – i dissidi sommersi e nascosti nella “bussola della psiche”, lo stato di emergenza, pericolo e insicurezza nell’orizzonte degli eventi.
insignificanti, indagano e mostrano, sotto la scorza di volti spesso terremotati, lineamenti che squilibrano le facce – la “maschera” – i dissidi sommersi e nascosti nella “bussola della psiche”, lo stato di emergenza, pericolo e insicurezza nell’orizzonte degli eventi.
È dunque possibile,
legittimo allargare la nota tesi debenedettiana al cinema: oggi narrativa e
scienza « sembrano trasmettere, con codici diversi, lo stesso tipo
di informazione su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del
mondo » . I prestiti richiesti alla fisica moderna riguardano anche
una particolare narrativa filmica. Del resto credo abbia ragione Giansiro
Ferrata quando, nel 1967 afferma che, sul “Convegno” e in altre riviste, i
saggi teorici sul cinema di Debenedetti « aprirono una prospettiva
nuova, in sostanza, per criteri d’estetica non soltanto relativi a quest’arte ».
È anche da rilevare che, contrariamente a quanto si crede ed afferma,
Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo non « è solo in
parte sul cinema ». Intanto invito a ricordare che quel memorabile
saggio – che conclude stupendamente l’avventura del lavoro intellettuale di
Debenedetti, la sua autobiografia critica – è la relazione base ad un convegno
su Forme della comunicazione cinematografica anche in rapporto alla narrativa e
alle esperienze televisive: relazione affidata al grande critico su mia
proposta dall’allora direttore della Mostra di Venezia, Luigi Chiarini, e per
la prima volta pubblicata, sia pure non integralmente, sulla rivista “Cinema
Nuovo” (e anche su questo, assoluto silenzio nelle bibliografie).
Riluttanza, residui di sospetto da parte di letterati nei confronti del
cinema? « C’è una tale specie di sospetto che sembra insuperabile o destinata a
noti risolversi mai più in benevolenza » annotava Debenedetti agli inizi degli
anni Trenta.
II cinematografo
visitato di rado e con irregolarità per colmare le ore più pigre, quelle in cui
il pensiero o la fantasia caparbiamente disertano il cervello lasciandolo
tristo; frequentato insomma da un animo prevenuto e decadente come i teatrini
di varietà della barriera dove si esibiscono le vecchie stelle nel loro abito
rosa stinto – il cinematografo rappresenta il quarto d’ora inconfessabile, o
confessabile soltanto fra le riserve e i distacchi di un ironico pudore.
Sospetto e dispetto, « è cosa di cui conosciamo fin troppi esempi » . In
uno dei suoi “incontri” con Ottavio Cecchi, Debenedetti aveva riferito:
II critico, a costo di sembrare
inattuale, deve [...] tenere in salvo per l’indomani i valori transitoriamente
sconfessati, se crede davvero che siano valori. Posto che egli non si sia
sbagliato (ma allora lo si vede subito dai difetti della sua dimostrazione
critica), verrà il giorno in cui ciascuno di quei valori apparirà come una
tappa che è stato necessario attraversare per giungere a nuove e più profonde
forme di espressione e quindi a un progresso di tutta la creazione artistica.
Riandando all’affermazione di Ferrata, il cinema ha rappresentato appunto
per Debenedetti una tappa necessaria del suo percorso intellettuale e del
progresso della creazione artistica nel suo insieme. Tenuti in salvo per
l’indomani i valori insiti nel nuovo mezzo espressivo e transitoriamente
sconfessati, ritenendo davvero che quelli fossero valori, vinta la “scommessa”,
nel suo ultimo saggio ecco intanto riprendere e ribadire l’ipotesi di partenza
per la scommessa stessa. In garbata polemica con Jean Bloch-Michel e l’ “école
du regard” in generale, domanda:
E proprio sicuro, per esempio, che
l’obiettivo sia un occhio indifferente? O non è piuttosto un occhio disponibile
a captare tutte le immagini che gli vengono proposte, ma quelle soltanto?
Indifferente sarebbe se guardasse tutto, di continuo, senza discriminazioni;
invece si apre solo se noi vogliamo, e quando vogliamo; si adatta alle miopie,
presbiopie, allargamenti e restringimenti di campo da noi decisi coi
cambiamenti di fuoco e di lente; considera le cose sotto l’angolo che noi
abbiamo scelto, accetta il nostro anodo di presentargli e illuminare gli
oggetti. Di quanti aggettivi, e tutt’altro che ottici, tutt’altro che
innocenti, si fa conduttore con queste connivenze. Di quante figure retoriche,
metafore, sineddochi, traslati diventa complice [...] Si dirà che stiamo
cadendo in un superstizioso animismo. Ma chiunque abbia adoperato la cinepresa,
fa su di lei un transfert che ne abolisce l’indifferenza.
Notissima la chiusa della Commemorazione provvisoria:
Mettendo da parte le teorie, la pratica
ci lascia intravedere il pericolo che stia nascendo o sia già nata un’arcadia
dell’antipersonaggio. E allora, a chi votarsi se non al vecchio, ma ancora
vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo?
Poco prima, nello stesso saggio, si legge:
Il cinema favorisce le resistenze del
personaggio-uomo, che mettono quasi sempre in scacco l’antipersonaggio.
È un modo particolare
per respingere la resa senza condizioni alla “crisi”, all’uomo-particella? Nel
confutare un Antonioni “maestro dell’antipersonaggio”, Debenedetti sostiene che
il regista dell’Eclisse (civetteria da fine letterato, scrive Eclissi) e del
Deserto rosso, nell’« accettare le leggi di probabilità »
si « rivela un narratore moderno » : narratore moderno,
come si è visto, nell’accezione debenedettiana; trasponendo il linguaggio della
fisica non soltanto alla letteratura tua anche al cinema. « Quando
un romanziere si sente ancora in debito verso una poetica precedente (mettiamo,
appunto, il naturalismo) » – scrive Debenedetti nel 1963 -
e nello stesso tempo è già attratto dal
“nuovo dover essere” della narrativa (lo avverte anzi come qualcosa di
inevitabile), finisce cori lo scrivere il romanzo di se stesso di fronte alla
materia del suo possibile o impossibile romanzo.
È che cosa accade infatti all’ultimo Antonioni in ispecie, da Blow up in
avanti, se non proprio questo e, nel caso specifico, Identificazione di una
donna non offre all’autore la probabilità di identificare se stesso, di
scrivere il proprio romanzo?
Appena quattro anni
prima della Commemorazione provvisoria era apparso sugli schermi L’anno scorso
a Marienbad; per l’ “école du regard” anche il cinema è minacciato, il
“sospetto” di cui soffre il romanzo sembra coinvolgerlo e contagiarlo. « Come
spiegare altrimenti infatti l’inquietudine che sull’esempio dei romanzi provano
certi registi, e che li spinge a fare film in prima persona inserendovi
l’occhio di un testimone o la voce di un narratore? » si
interrogava e interrogava Nathalie Sarraute, convinta che il cinema, “arte
ricca di promesse”, fosse sul punto di « far profittare delle sue
tecniche nuovissime la nuova narrativa ». Marienbad è uno, ed il
più esemplare di quei film; Robbe-Grillet ne è il coautore, anche lui sicuro
che il cinema sia un mezzo di espressione predestinato al nuovo genere di
racconto, che sostituisca il monologo interiore con il monologo esteriore e
coniughi soltanto il presente. « E il cinema? Quale accoglienza ha
fatto all’antipersonaggio? » domanda Debenedetti. « Ottima,
sarebbe da supporre » risponde, « se è vero che ne è
stato lui il principale responsabile, come Jean Bloch-Michel ha ripetutamente
spiegato ». Ma si è vista l’obiezione che Debenedetti rivolge al
critico francese, che egli contesta anche a proposito dell’indicativo presente
cui sarebbe condannato il cinema.
Principale
responsabile o no del l’antipersonaggio – Debenedetti lo esclude il cinema è
uno dei protagonisti della Commemorazione provvisoria: riguarda criteri di
estetica non soltanto relativi alla narrativa letteraria, « lo
scritto maggiore e di più ricca apertura sul nostro tempo » di
Debenedetti, l’ultima sua pagina critica, giustamente definita da Pampaloni
“famosa” e “affascinante” e nella quale « egli rifiutava, pur dopo
il trionfo, in decenni e decenni di narrativa, del personaggio-particella, di dire
addio al personaggio-uomo » (quali e quante assonanze con il
Calvino del “mare dell’oggettività” e la “sfida al labirinto”!). Partito da
« una assai parca esperienza di frequentatore cinematografico »
confessata in “Solaria” nel 1927, ormai egli è diventato un “frequentatore del
cinema”, anche se, come sottolinea, “purtroppo intermittente”. Una
testimonianza, e non ultima, ci viene dai libri che escono presso Il Saggiatore
di Alberto Mondadori, nelle collane “I Gabbiani”, le “Silerchie”, “Specchio del
mondo” e in particolare nella “Cultura”: il catalogo di quella grande e
anticipatrice esperienza editoriale – carne e sangue di Alberto e Giacomino
allinea titoli di Arnheim e Kracauer, Leyda e Jacobs e Manvell. Una tradizione
critica e intelligente, un gusto vero e proprio intorno al cinema, si sono
ormai costituiti, e fanno parte degli abiti culturali di Debenedetti; le
impressioni a riguardo divenute in lui materia talmente limpida da poter egli
ragionarci su e misurare la validità delle sue opinioni su quella degli altri.
Se il giudizio sul cinema è cambiato, « anzi se oggi esiste un
giudizio sul cinema, al di fuori dei corti apprezzamenti pratici e sentimentali »,
è anche merito del cineasta Debenedetti. Convinto che l’intellettuale « è
per diritto il primo commentatore di un’arte nuova », ha lottato
« con la tenacia e l’ardimento dei pionieri ». Pochi
come lui hanno impiegato il mirabile telescopio proustiano per introdurre i
renitenti e i refrattari ai misteri dell’arte nuova, esteso il campo di osservazione
per illuminare – scommessa non ultima e ancora una volta vincente nel suo
romanzo – l’iscrizione del film all’anagrafe del Parnaso.
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