RICAPITOLAZIONE
DAL I AL V SECOLO D.C.
L’età augustea (31 a. C., battaglia di
Azio, 14 d. C., morte di Augusto) conobbe una fioritura di
personalità artistiche senza precedenti: sospettiamo sia stata anche superiore
a quanto a noi appare, essendo andate perdute le opere di numerosi autori di
rilievo. Si pone in continuità con quanto avviatosi già nella tarda età
repubblicana: il I secolo a.C. sembra non finire mai, per intensità e perfezione di opere poetiche
prodotte. Sarà pure un effetto delle predilezioni umaniste e rinascimentali, ma
idee e immagini poetiche elaborate da
Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio continuano a esprimere in modo
compiuto il Classico, nel senso di vicino alla perfezione e al contempo in
grado di attivare nuove idee, com’è proprio del pensiero che riesce a essere
universale. All’età augustea appartiene la voce “minore” di Fedro, a quanto si sa primo dei Romani,
ma anche dei Greci, ad aver raccolto
favole presentandole come un’opera letteraria a pieno titolo. I Greci del IV
secolo a. C., che realizzarono un’analoga operazione probabilmente “inventando”
l’umbratile figura di Esopo, non furono certo così ambiziosi come il poeta
latino: porre in versi un materiale folclorico, passibile di svariate
manipolazioni, equivalse a conferirgli, per sempre, dignità letteraria. Al
raggiungimento del medesimo obiettivo contribuiscono prologhi ed epiloghi,
nei quali l’autore imprime il proprio
malcontento e a cui affida proprie aspirazioni: a un ordine sociale che non debba
pagare lo scotto della perdita di libertà, a una società dove non siano sempre
i lupi o i leoni ad avere la meglio e le rane scoprano in tempo che è
preferibile un inutile ma inoffensivo re travicello a un’idra assetata di
sangue. Divertire e istruire, qualche volta indignarsi, ma senza sfociare in
critiche aperte e troppo incisive. Possiamo ritenere quest’ultima una linea guida valida anche per altri settori
della cultura e letteratura attivi nell’epoca in questione. La storiografia,
per esempio, si muove secondo due assi, quello della storiografia
propagandistica e quello della storiografia d’opposizione. Al primo risale l’Ab Urbe condita di Livio, il cui atteggiamento di approvazione e consenso è dettato dal fatto che
egli appartenga all’ ambiente di Augusto e che quindi sia stato in parte
indotto a interpretare la storia in una convergenza di ideali con il potere incarnato
da lui. A questo però si aggiunge un fattore per così dire “naturale”: i
sentimenti di Livio sono sinceramente filo-repubblicani ed anche Augusto segue
una linea politica secondo la quale si propone ai romani come il restauratore
della repubblica (anche se, nei fatti, sarà l’uomo che ne decreterà la morte
definitiva). D’altronde non sappiamo cosa Livio pensasse di Augusto nello specifico, perché la
parte della sua opera relativa a quest’epoca non ci è pervenuta.
In ogni caso Livio si ricollega alla
tradizione storiografica più antica, ossia l’annalistica. Ciò implica, quindi,
una ulteriore intensificazione del suo rispetto verso gli elementi
tradizionali, soprattutto le leggende, la religione, la celebrazione delle
grandi personalità del passato. Nella sua opera, infatti, vengono inseriti
tutte i miti più “classici” romani, come, ad esempio, quello di Romolo e Remo,
come se non differissero quasi per nulla dai fatti più propriamente storici. I
grandi condottieri vincono anche perché hanno onorato correttamente gli dei,
così come largo spazio viene dato agli auspici celesti che indicano eventi
futuri. Quella di Livio è, quindi, una storiografia che recupera ogni aspetto della
tradizione romana e che non poteva non riavvicinarsi a quell’atteggiamento di
consenso e patriottismo che aveva caratterizzato le origini di questo genere.
Ad esempio, la questione imperialistica viene da lui impostata in maniera
differente rispetto al passato, il conflitto fra l’aumentare della potenza
romana all’infuori dei propri confini e il diritto all’indipendenza degli altri
popoli, viene mitigato dalla fede in una sorta di “missione provvidenziale” che
Roma deve compiere. Per Livio, infatti, il predominio di Roma sugli altri stati
è un bene, al fine di realizzare il grande progetto della Pax Romana,
ossia dello stabilirsi della pace fra tutte le popolazioni, garantita dalla
protezione e dall’influenza della romanità. In Livio, quindi, l’Urbe si assume,
val la pena sottolineare, per l’ultima volta con un fondamento storico, una missione pacificatrice, nell’ottica della
quale le sue conquiste divengono più che giustificabili. Una vera e propria
opposizione, in campo storiografico, stenta a esistere in senso stretto: in
compenso affiora un taglio pessimista, che troverà la sua voce più autorevole
in Tacito, storico che percepisce
grandiosamente tanto l’irrecuperabilità del passato, al quale riesce a guardare
con nostalgia scevra di rimpianto, quanto l’insidiosità del presente, in cui
occorre procedere con cautela, con realismo politico, con senso del dovere, per
non promuovere precocemente il crollo di un edificio che ha iniziato a mostrare
varie crepe.
Nell’età Giulio-Claudia, con Tiberio,
Claudio, Caligola e Nerone (dal 14 al 68), in effetti, segnali di dissenso possono essere percepiti
all’interno di grandi opere che non appartengono al genere storiografico: il
poeta Lucano, cantore nella Pharsalia di una ruina
mundi, la fine del mondo repubblicano, vede minacciato l’ordine dell’universo, e
sicuramente incupito l’orizzonte luminoso che aveva ospitato la rifioritura
della Roma cantata da Virgilio. Di qui la sua epica senza eroi, con un Cesare
che nel caos trionfa e si innalza al di sopra di un mondo che egli stesso ha
contribuito a portare alla rovina.
Meno accorato, ma non meno cupo, il
sentore che Persio ha di un
immiserimento della vita sociale e politica nell’età imperiale: i Romani dalle
orecchie d’asino (satira I), come il mitico re Mida così punito da Apollo per
incompetenza musicale (aveva giudicato Pan superiore a lui, che si era
prontamente vendicato), non sanno più giudicare la letteratura, si fanno
ingannare da poetastri alla moda, che raggiungono il successo con tronfie
esibizioni salottiere. Brillano per stoltezza e superficialità i cives togati
descritti nelle satire di Persio, e
appaiono consonanti con i personaggi che popolano il Satyricon di Petronio, avidi
e insaziabili (di cibi come di sesso e di danaro), non lesinano quelli che
chiamano divertimenti, ma appaiono piuttosto come modi nemmeno sempre eleganti
e rispettosi della dignità umana di perdere tempo. Non a caso è questo uno dei
rovelli del filosofo più celebre di questa età di travagli e miserie: in uno
stile sentenzioso e spezzato che rappresenta uno stacco deciso rispetto al
disteso andamento del periodo ciceroniano, Seneca
richiama gli uomini distratti e
velleitari a cogliere l’essenza nella vita, a non distrarsi né alienarsi, a
possedere sé stessi conoscendosi, quale
somma realizzazione di un ideale da scolpire nell’anima. In controtendenza con
un’epoca avviata al dispotismo, non certo alla monarchia illuminata, il
filosofo stoico coniuga l’imperativo categorico repubblicano, l’obbligo del servitium, con la percepita esigenza di umanizzare (nel
senso antico dell’humanitas) il potere. Ma, come ben traspongono le tragedie,
questo ha un animo sanguinario, è un Hercules furens preda di erinni che non si
trasformeranno mai in eumenidi, e che gli detteranno sempre parole di morte,
anche per chi gli ha fatto da maestro per una parte della vita.
Se non c’è pace sulla scena politica, se
anche la poesia sembra languire, senza più valori alti da cantare, senza più
eroi e con le sole frecce del sarcasmo al proprio arco, allora forse è tempo di
descrivere il mondo, di registrare l’esistente (e l’inesistente) con piglio
scientifico e un pizzico, o forse qualcosa di più, di fanatismo. Di questi
ingredienti pare intinta la scrittura farraginosa di Plinio il Vecchio, la cui opera dedicata a Tito vuole porsi
nientemeno che come summa del sapere universale. Superando la tentazione di
facili ironie, si può pensare al monumentale scritto come a un’apoteosi
del sapere erudito, una delle ultime
spiagge per civiltà languenti, che non hanno ancora esaurito tutte le loro
energie creative, ma stanno per soffocare per inerzia e incapacità di
ribellione.
Di questa sembrano certo non doversi
preoccupare imperatori come i Flavi, con l’eccezione di Domiziano, o come Nerva
e Traiano: i primi si peritano comunque di dare vita a quelli che si possono definire,
gramscianamente, intellettuali integrati. Uno di loro, il brillante Quintiliano, promuove idee pedagogiche,
ordina e valuta il patrimonio letterario latino, focalizza la situazione della
cultura senza note drammatiche, ma avvertendone l’oggettiva decadenza, almeno
in alcuni settori. La forza dell’educazione pare essere l’unico baluardo
disponibile, prima di arrendersi alla forza dei tempi. Sui quali sembra voler
concentrare l’attenzione uno degli
ultimi grandi storici del mondo latino, il già citato Tacito, che opta però poi per una ricostruzione ab origine della
monarchia, lasciando ai posteri il compito di occuparsi del suo proprio tempo.
Su una scena che compete, per oscurità delle vicende e tortuosità d’animo dei
protagonisti, con quelle tipiche delle tragedie di Seneca, lo storico si
interroga una volta di più sul destino
della Romanità e dei cives, contempla orrori, registra misfatti, altri ne
intuisce o suggerisce; poi individua valori ancora vivi e operanti, sfiora
persino la percezione di una fine possibile, non troppo lontana, per mano di
barbari bestialmente violenti ma ancora virtuosi in quel senso originario che i
Romani hanno perduto, complice l’assalto della civiltà. Il realismo politico
impedisce a Tacito di abbandonarsi
al nostalgia dei bei tempi antichi ed è sempre per realismo, non politico però,
ma letterario, che Marziale e Giovenale compiono la loro recusatio e scelgono rispettivamente la via dell’epigramma e della
satira. Con arguzia e distacco il primo, con violento sarcasmo il secondo,
danno alla loro pagina il sapore dell’uomo (per citare Marziale), dipingono la
vita dell’epoca, con qualche deformazione o in maniera iperbolica, sempre con
l’intento di restituire il sentore di una realtà che non piace, respinge,
offende, suscita rimpianti.
La dimensione della laudatio temporis
acti è certo ristretta: per riaprire gli orizzonti, magari anche per negare che
sia in atto una decadenza, una delle vie a disposizione è sicuramente quella
della fantasticheria. Ancora meglio se si fantastica realisticamente, ossia se
si crea con i due termini opposti uno splendido ossimoro: è quanto realizza Apuleio nel suo romanzo Le metamorfosi,
fantasmagorico calderone nel quale confluiscono racconti a incastro, favole,
miti, resoconti di culti misterici, sogni e avventure. Affacciandosi al II
secolo, nell’età di Adriano, degli Antonini e del grande imperatore Marco
Aurelio, il panorama sembra migliorare: al potere stanno uomini probi, dei
quali persino Cicerone avrebbe apprezzato la statura morale e forse anche
quella politica. Eppure la crisi è alle porte, come lascia presagire la volontà
di fuga e straniamento che aleggia per tutto il romanzo di Lucio, confluendo
poi nella catartica iniziazione. I Misteri conquistano la popolazione, offrono
una via di fuga dall’inadeguatezza del reale, lasciano immaginare che un grande
mantello di Iside, la Notte, possa infine avvolgere tutto e tutti, provvedendo
di un senso anche ciò che non lo ha. Il romanzesco avvince, conquista, distrae.
Negli stessi anni Marco Aurelio, nei
suoi ricordi (170), esorta a coltivare il luogo interiore. Lì si trova la pace
che l’impero non riesce più ad assicurare: così, mentre i confini traballano,
le menti migliori di una generazione coltivano l’ideale dell’interiorità
preservata e rinsaldata, con la quale affrontare meglio qualsivoglia
vicissitudine esistenziale, foss’anche la perdita di controllo del limes.
A parte il limes esterno, che nessun
vallo e nessuna fortificazione riesce a rendere più inviolabile, c’è un limes
interiore che inizia a sgretolarsi, che è difficile difendere forse anche perché
difficile da definire. Si tratta del limes che separa i cristiani dai pagani,
proprio mentre questi ultimi vedono messi in crisi alcuni dei valori fondanti
della loro civiltà, alcune delle loro certezze, mentre i primi iniziano a
calcare le scene del mondo col bagaglio di poche, confuse, potenti idee
rivoluzionarie. Lo scontro è inevitabile e la moderazione è fuori luogo: lo si
percepisce dal carteggio fra Plinio e
Traiano, si sente come la questione stia sobbollendo nell’ombra e si
prepari a valicare gli angusti confini all’interno dei quali ancora viene
tenuta.
Consona all’affermazione di una nuova,
stravolgente per la logica e il pensiero pagani, ideologia, la paradossale espressione
di Tertulliano “credo quia
absurdum”. Vi si misura l’incommensurabile distanza fra un pensiero pagano
orientato alla conoscenza e pratica razionale anche del bene e un pensiero
cristiano che, almeno originariamente, propone i salti logici, le fulminee
intuizioni, l’accettazione di sovvertimenti inpinati, lo stravolgimento di
regole consolidate. I secoli incalzano, come i barbari ai confini, e le voci
pagane si diradano: ancora un grande storico, Ammiano Marcellino (325), che ricalca le orme di Tacito e salda le
sue Res Gestae al resoconto del grande predecessore (da Nerva a Valente, 378,
rimangono solo libri dal 14 al 31). Resiste, a dispetto di tanti eventi, l’idea
di una Roma aeterna e caput mundi: ci troviamo di fronte a una categoria dello
spirito, attraverso la quale si rafforza il concetto di limes di cui sopra. Lo
stendardo del caput mundi viene ancora sbandierato da Ammiano quando l’impero
inizia a ridurre i propri confini. L’ideale trionfa a dispetto delle
sconfessioni da parte della realtà. Lo storico è consapevole, come tanti suoi
predecessori, della decadenza, ma a dispetto di tutto confida in una ripresa.
Al contempo questa fiducia al di là della ragionevolezza diventa un ulteriore
indizio della crisi. Non si sa più cosa fare, forse non resta che un inutile
viaggio di ritorno. Sulla via del Nostos
si dirige infatti il nostro ultimo autore pagano, Rutilio Namaziano. Impossibile resistere alla tentazione di
assegnare al termine il suo valore originario, dunque simbolico: dove possono
tornare i pagani del IV e V secolo, se non in una terra che non esiste, o sta
per non esistere, più? La verità è che non si può tornare indietro, il flusso
del tempo procede in un’unica direzione, con buona pace delle riflessioni di
Agostino su questo argomento e sul trattare il tempo come uno stadio della
coscienza. I viaggi nel tempo possono, al limite, riportare ricordi, tracce di
memoria, ma alle volte nemmeno queste. Le orme si cancellano e sulla sabbia di
spiagge un tempo percorse non restano
segni di sorta. Gli unici sono quelli tracciati su carta, sono le opere
sopravvissute agli assalti della storia, che trasportano nell’aria, come
fossero pronunciate ora, verità antiche che ancora ci piace ascoltare.
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