Post in evidenza

TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

mercoledì 18 maggio 2016

RICAPITOLAZIONE DELLA LETTERATURA LATINA DAL I al V secolo d. C.

RICAPITOLAZIONE DAL I AL V SECOLO D.C.
L’età augustea (31 a. C., battaglia di Azio,  14 d. C., morte di Augusto) conobbe una fioritura di personalità artistiche senza precedenti: sospettiamo sia stata anche superiore a quanto a noi appare, essendo andate perdute le opere di numerosi autori di rilievo. Si pone in continuità con quanto avviatosi già nella tarda età repubblicana: il I secolo a.C. sembra non finire mai, per  intensità e perfezione di opere poetiche prodotte. Sarà pure un effetto delle predilezioni umaniste e rinascimentali, ma idee e immagini poetiche elaborate da  Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio continuano a esprimere in modo compiuto il Classico, nel senso di vicino alla perfezione e al contempo in grado di attivare nuove idee, com’è proprio del pensiero che riesce a essere universale. All’età augustea appartiene la voce “minore” di Fedro, a quanto si sa primo dei Romani, ma anche dei Greci, ad  aver raccolto favole presentandole come un’opera letteraria a pieno titolo. I Greci del IV secolo a. C., che realizzarono un’analoga operazione probabilmente “inventando” l’umbratile figura di Esopo, non furono certo così ambiziosi come il poeta latino: porre in versi un materiale folclorico, passibile di svariate manipolazioni, equivalse a conferirgli, per sempre, dignità letteraria. Al raggiungimento del medesimo obiettivo contribuiscono prologhi ed epiloghi, nei  quali l’autore imprime il proprio malcontento e a cui affida proprie aspirazioni: a un ordine sociale che non debba pagare lo scotto della perdita di libertà, a una società dove non siano sempre i lupi o i leoni ad avere la meglio e le rane scoprano in tempo che è preferibile un inutile ma inoffensivo re travicello a un’idra assetata di sangue. Divertire e istruire, qualche volta indignarsi, ma senza sfociare in critiche aperte e troppo incisive. Possiamo ritenere quest’ultima  una linea guida valida anche per altri settori della cultura e letteratura attivi nell’epoca in questione. La storiografia, per esempio, si muove secondo due assi, quello della storiografia propagandistica e quello della storiografia d’opposizione. Al primo risale l’Ab Urbe condita di Livio, il cui atteggiamento di approvazione e consenso è dettato dal fatto che egli appartenga all’ ambiente di Augusto e che quindi sia stato in parte indotto a interpretare la storia in una  convergenza di ideali con il potere incarnato da lui. A questo però si aggiunge un fattore per così dire “naturale”: i sentimenti di Livio sono sinceramente filo-repubblicani ed anche Augusto segue una linea politica secondo la quale si propone ai romani come il restauratore della repubblica (anche se, nei fatti, sarà l’uomo che ne decreterà la morte definitiva). D’altronde non sappiamo cosa Livio  pensasse di Augusto nello specifico, perché la parte della sua opera relativa a quest’epoca non ci è pervenuta.  
In ogni caso Livio si ricollega alla tradizione storiografica più antica, ossia l’annalistica. Ciò implica, quindi, una ulteriore intensificazione del suo rispetto verso gli elementi tradizionali, soprattutto le leggende, la religione, la celebrazione delle grandi personalità del passato. Nella sua opera, infatti, vengono inseriti tutte i miti più “classici” romani, come, ad esempio, quello di Romolo e Remo, come se non differissero quasi per nulla dai fatti più propriamente storici. I grandi condottieri vincono anche perché hanno onorato correttamente gli dei, così come largo spazio viene dato agli auspici celesti che indicano eventi futuri. Quella di Livio è, quindi, una storiografia che recupera ogni aspetto della tradizione romana e che non poteva non riavvicinarsi a quell’atteggiamento di consenso e patriottismo che aveva caratterizzato le origini di questo genere. Ad esempio, la questione imperialistica viene da lui impostata in maniera differente rispetto al passato, il conflitto fra l’aumentare della potenza romana all’infuori dei propri confini e il diritto all’indipendenza degli altri popoli, viene mitigato dalla fede in una sorta di “missione provvidenziale” che Roma deve compiere. Per Livio, infatti, il predominio di Roma sugli altri stati è un bene, al fine di realizzare il grande progetto della Pax Romana, ossia dello stabilirsi della pace fra tutte le popolazioni, garantita dalla protezione e dall’influenza della romanità. In Livio, quindi, l’Urbe si assume, val la pena sottolineare, per l’ultima volta con un fondamento storico,  una missione pacificatrice, nell’ottica della quale le sue conquiste divengono più che giustificabili. Una vera e propria opposizione, in campo storiografico, stenta a esistere in senso stretto: in compenso affiora un taglio pessimista, che troverà la sua voce più autorevole in Tacito, storico che percepisce grandiosamente tanto l’irrecuperabilità del passato, al quale riesce a guardare con nostalgia scevra di rimpianto, quanto l’insidiosità del presente, in cui occorre procedere con cautela, con realismo politico, con senso del dovere, per non promuovere precocemente il crollo di un edificio che ha iniziato a mostrare varie crepe.
Nell’età Giulio-Claudia, con Tiberio, Claudio, Caligola e Nerone (dal 14 al 68), in effetti,  segnali di dissenso possono essere percepiti all’interno di grandi opere che non appartengono al genere storiografico: il poeta Lucano, cantore nella Pharsalia  di una ruina mundi, la fine del mondo repubblicano,  vede minacciato l’ordine dell’universo, e sicuramente incupito l’orizzonte luminoso che aveva ospitato la rifioritura della Roma cantata da Virgilio. Di qui la sua epica senza eroi, con un Cesare che nel caos trionfa e si innalza al di sopra di un mondo che egli stesso ha contribuito a portare alla rovina.
Meno accorato, ma non meno cupo, il sentore che Persio ha di un immiserimento della vita sociale e politica nell’età imperiale: i Romani dalle orecchie d’asino (satira I), come il mitico re Mida così punito da Apollo per incompetenza musicale (aveva giudicato Pan superiore a lui, che si era prontamente vendicato), non sanno più giudicare la letteratura, si fanno ingannare da poetastri alla moda, che raggiungono il successo con tronfie esibizioni salottiere. Brillano per stoltezza e superficialità i cives togati descritti nelle satire di Persio, e appaiono consonanti con i personaggi che popolano il Satyricon di Petronio, avidi e insaziabili (di cibi come di sesso e di danaro), non lesinano quelli che chiamano divertimenti, ma appaiono piuttosto come modi nemmeno sempre eleganti e rispettosi della dignità umana di perdere tempo. Non a caso è questo uno dei rovelli del filosofo più celebre di questa età di travagli e miserie: in uno stile sentenzioso e spezzato che rappresenta uno stacco deciso rispetto al disteso andamento del periodo ciceroniano, Seneca  richiama gli uomini distratti e velleitari a cogliere l’essenza nella vita, a non distrarsi né alienarsi, a possedere sé stessi  conoscendosi, quale somma realizzazione di un ideale da scolpire nell’anima. In controtendenza con un’epoca avviata al dispotismo, non certo alla monarchia illuminata, il filosofo stoico coniuga l’imperativo categorico repubblicano, l’obbligo del servitium,  con la percepita esigenza di umanizzare (nel senso antico dell’humanitas) il potere. Ma, come ben traspongono le tragedie, questo ha un animo sanguinario, è un Hercules furens preda di erinni che non si trasformeranno mai in eumenidi, e che gli detteranno sempre parole di morte, anche per chi gli ha fatto da maestro per una parte della vita.
Se non c’è pace sulla scena politica, se anche la poesia sembra languire, senza più valori alti da cantare, senza più eroi e con le sole frecce del sarcasmo al proprio arco, allora forse è tempo di descrivere il mondo, di registrare l’esistente (e l’inesistente) con piglio scientifico e un pizzico, o forse qualcosa di più, di fanatismo. Di questi ingredienti pare intinta la scrittura farraginosa di Plinio il Vecchio, la cui opera dedicata a Tito vuole porsi nientemeno che come summa del sapere universale. Superando la tentazione di facili ironie, si può pensare al monumentale scritto come a un’apoteosi del  sapere erudito, una delle ultime spiagge per civiltà languenti, che non hanno ancora esaurito tutte le loro energie creative, ma stanno per soffocare per inerzia e incapacità di ribellione.
Di questa sembrano certo non doversi preoccupare imperatori come i Flavi, con l’eccezione di Domiziano, o come Nerva e Traiano: i primi si peritano comunque di dare vita a  quelli che si possono definire, gramscianamente, intellettuali integrati. Uno di loro, il brillante Quintiliano, promuove idee pedagogiche, ordina e valuta il patrimonio letterario latino, focalizza la situazione della cultura senza note drammatiche, ma avvertendone l’oggettiva decadenza, almeno in alcuni settori. La forza dell’educazione pare essere l’unico baluardo disponibile, prima di arrendersi alla forza dei tempi. Sui quali sembra voler concentrare l’attenzione  uno degli ultimi grandi storici del mondo latino, il già citato Tacito, che opta però poi per una ricostruzione ab origine della monarchia, lasciando ai posteri il compito di occuparsi del suo proprio tempo. Su una scena che compete, per oscurità delle vicende e tortuosità d’animo dei protagonisti,  con quelle tipiche  delle tragedie di Seneca, lo storico si interroga una volta di più  sul destino della Romanità e dei cives, contempla orrori, registra misfatti, altri ne intuisce o suggerisce; poi individua valori ancora vivi e operanti, sfiora persino la percezione di una fine possibile, non troppo lontana, per mano di barbari bestialmente violenti ma ancora virtuosi in quel senso originario che i Romani hanno perduto, complice l’assalto della civiltà. Il realismo politico impedisce a Tacito di abbandonarsi al nostalgia dei bei tempi antichi ed è sempre per realismo, non politico però, ma letterario, che Marziale e Giovenale compiono la loro recusatio e scelgono rispettivamente la via dell’epigramma e della satira. Con arguzia e distacco il primo, con violento sarcasmo il secondo, danno alla loro pagina il sapore dell’uomo (per citare Marziale), dipingono la vita dell’epoca, con qualche deformazione o in maniera iperbolica, sempre con l’intento di restituire il sentore di una realtà che non piace, respinge, offende, suscita rimpianti.
La dimensione della laudatio temporis acti è certo ristretta: per riaprire gli orizzonti, magari anche per negare che sia in atto una decadenza, una delle vie a disposizione è sicuramente quella della fantasticheria. Ancora meglio se si fantastica realisticamente, ossia se si crea con i due termini opposti uno splendido ossimoro: è quanto realizza Apuleio nel suo romanzo Le metamorfosi, fantasmagorico calderone nel quale confluiscono racconti a incastro, favole, miti, resoconti di culti misterici, sogni e avventure. Affacciandosi al II secolo, nell’età di Adriano, degli Antonini e del grande imperatore Marco Aurelio, il panorama sembra migliorare: al potere stanno uomini probi, dei quali persino Cicerone avrebbe apprezzato la statura morale e forse anche quella politica. Eppure la crisi è alle porte, come lascia presagire la volontà di fuga e straniamento che aleggia per tutto il romanzo di Lucio, confluendo poi nella catartica iniziazione. I Misteri conquistano la popolazione, offrono una via di fuga dall’inadeguatezza del reale, lasciano immaginare che un grande mantello di Iside, la Notte, possa infine avvolgere tutto e tutti, provvedendo di un senso anche ciò che non lo ha. Il romanzesco avvince, conquista, distrae. Negli stessi anni Marco Aurelio, nei suoi ricordi (170), esorta a coltivare il luogo interiore. Lì si trova la pace che l’impero non riesce più ad assicurare: così, mentre i confini traballano, le menti migliori di una generazione coltivano l’ideale dell’interiorità preservata e rinsaldata, con la quale affrontare meglio qualsivoglia vicissitudine esistenziale, foss’anche la perdita di controllo del limes.
A parte il limes esterno, che nessun vallo e nessuna fortificazione riesce a rendere più inviolabile, c’è un limes interiore che inizia a sgretolarsi, che è difficile difendere forse anche perché difficile da definire. Si tratta del limes che separa i cristiani dai pagani, proprio mentre questi ultimi vedono messi in crisi alcuni dei valori fondanti della loro civiltà, alcune delle loro certezze, mentre i primi iniziano a calcare le scene del mondo col bagaglio di poche, confuse, potenti idee rivoluzionarie. Lo scontro è inevitabile e la moderazione è fuori luogo: lo si percepisce dal carteggio fra Plinio e Traiano, si sente come la questione stia sobbollendo nell’ombra e si prepari a valicare gli angusti confini all’interno dei quali ancora viene tenuta.

Consona all’affermazione di una nuova, stravolgente per la logica e il pensiero pagani, ideologia, la paradossale espressione di Tertulliano “credo quia absurdum”. Vi si misura l’incommensurabile distanza fra un pensiero pagano orientato alla conoscenza e pratica razionale anche del bene e un pensiero cristiano che, almeno originariamente, propone i salti logici, le fulminee intuizioni, l’accettazione di sovvertimenti inpinati, lo stravolgimento di regole consolidate. I secoli incalzano, come i barbari ai confini, e le voci pagane si diradano: ancora un grande storico, Ammiano Marcellino (325), che ricalca le orme di Tacito e salda le sue Res Gestae al resoconto del grande predecessore (da Nerva a Valente, 378, rimangono solo libri dal 14 al 31). Resiste, a dispetto di tanti eventi, l’idea di una Roma aeterna e caput mundi: ci troviamo di fronte a una categoria dello spirito, attraverso la quale si rafforza il concetto di limes di cui sopra. Lo stendardo del caput mundi viene ancora sbandierato da Ammiano quando l’impero inizia a ridurre i propri confini. L’ideale trionfa a dispetto delle sconfessioni da parte della realtà. Lo storico è consapevole, come tanti suoi predecessori, della decadenza, ma a dispetto di tutto confida in una ripresa. Al contempo questa fiducia al di là della ragionevolezza diventa un ulteriore indizio della crisi. Non si sa più cosa fare, forse non resta che un inutile viaggio di ritorno. Sulla via del Nostos si dirige infatti il nostro ultimo autore pagano, Rutilio Namaziano. Impossibile resistere alla tentazione di assegnare al termine il suo valore originario, dunque simbolico: dove possono tornare i pagani del IV e V secolo, se non in una terra che non esiste, o sta per non esistere, più? La verità è che non si può tornare indietro, il flusso del tempo procede in un’unica direzione, con buona pace delle riflessioni di Agostino su questo argomento e sul trattare il tempo come uno stadio della coscienza. I viaggi nel tempo possono, al limite, riportare ricordi, tracce di memoria, ma alle volte nemmeno queste. Le orme si cancellano e sulla sabbia di spiagge un  tempo percorse non restano segni di sorta. Gli unici sono quelli tracciati su carta, sono le opere sopravvissute agli assalti della storia, che trasportano nell’aria, come fossero pronunciate ora, verità antiche che ancora ci piace ascoltare. 

Nessun commento:

Posta un commento