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giovedì 19 luglio 2018

FANTASMI SUL PALCOSCENICO



Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”.
Così Guy Debord, nel 1967, scrive nel suo saggio La società dello spettacolo, in cui entra nei dettagli di un processo in atto all’epoca e oggi,se non concluso, a un suo acme (per quanto possibile prevedere).
C’è un luogo in cui vengono fabbricate falsificazioni (finzioni) e uno in cui vengono messe in scena (sembra una descrizione del processo artistico che chiamiamo teatro): questo luogo è ormai ovunque, è un unico luogo, un luogo totale, che si sviluppa senza soluzione di continuità e in un continuum temporale.  Spazio e tempo sono egualmente implicati, così che vale sempre domandarsi, contemporameamente, chi e quando, e il chi è condizionato dal quando e viceversa,  anche se è pure vero che poi tutto si rapprende in un unico punto in cui avviene l’ordinaria messinscena e questa dura solo un istante, non determina memoria ma, al contrario, innesca oblìo.
Debord, nelle pagine dell’introduzione alla quarta edizione italiana (gennaio 1979), porta l’esempio del caso Moro, appena verificatosi:
Si è potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il suo legame conflittuale con la verità e la verosimiglianza da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora. L’Italia ha avuto recentemene l’occasione di contemplare questa tecnica, a proposito del rapimento e della messa morte di Aldo Moro, al punto più alto che essa abbia mai raggiunto, e che tuttavia sarà ben presto sorpassato, qui o altrove. La versione delle autorità italiane, aggravata piuttosto che  migliorata da cento ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo istante. La sua intenzione non era di essere creduta, ma di essere la sola verità; e dopo di essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Uno dei concetti fondamentali è questo: i fabbricatori di verità per la società dello spettacolo hanno ben chiaro che l’obiettivo non è essere creduti, ma ascoltati al momento e nel momento, per poi venire dimenticati il più in fretta possibile. La moltiplicazioni di voci, il coro immenso che sentiamo oggi, ha concorso a un ulteriore sviluppo della tecnica: l’orwelliano miniver annovera tra i suoi impiegati stabili tutti quelli che (forse quasi tutti) scrivono sul web, incaricati o meno di farlo che siano (ma forse tutti sono incaricati, questa è la trappola). La guerra è pace, la libertà è schiavitù e  l’ignoranza è forza, tutto e il contrario di tutto si afferma e non si dimostra ma si mostra, purché occupi la scena, con un’ossessione dominante per il vacuum, tutto deve essere pieno, riempito, ogni spazio ogni istante e...dov’è finito il rumore bianco?
Allora, gli elementi sono: un palcoscenico mondiale, un totalitarismo che non ha bisogno di darsi una forma precisa, un’invasione di ultracorpi che non è venuta dallo spazio profondo bensì dal nostro stesso interno, e ha proceduto proprio come gli ultracorpi, per progressivo svuotamento e successivo riempimento degli involucri rimasti con nuove sostanze, effimere però come gli involucri. La società dello spettacolo è una società di fantasmi e, per andare  a caccia di fantasmi, un ottimo aiuto viene  da Roland Barthes, http://www.rigabooks.it/antologie.php?idlanguage=1&id=772&idantologia=821: grazie a lui se ne possono trovare annidati in tanti contesti, dalla scienza alla politica, all’arte, all’economia; l’elenco si fa presto eterogeneo e bislacco, ma non è colpa sua.

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