“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra
individui mediato dalle immagini”.
Così Guy Debord, nel
1967, scrive nel suo saggio La società
dello spettacolo, in cui entra nei dettagli di un processo in atto all’epoca
e oggi,se non concluso, a un suo acme (per quanto possibile prevedere).
C’è un luogo in cui
vengono fabbricate falsificazioni (finzioni) e uno in cui vengono messe in
scena (sembra una descrizione del processo artistico che chiamiamo teatro): questo luogo è ormai ovunque, è un unico luogo, un luogo totale,
che si sviluppa senza soluzione di continuità e in un continuum temporale. Spazio
e tempo sono egualmente implicati, così che vale sempre domandarsi,
contemporameamente, chi e quando, e il chi è condizionato dal quando
e viceversa, anche se è pure vero che
poi tutto si rapprende in un unico punto
in cui avviene l’ordinaria messinscena e questa dura solo un istante, non
determina memoria ma, al contrario, innesca oblìo.
Debord, nelle pagine
dell’introduzione alla quarta edizione italiana (gennaio 1979), porta l’esempio
del caso Moro, appena verificatosi:
Si è potuta vedere la menzogna
statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il suo legame
conflittuale con la verità e la verosimiglianza da poter dimenticare anche se
stessa e sostituirsi di ora in ora. L’Italia ha avuto recentemene l’occasione
di contemplare questa tecnica, a proposito del rapimento e della messa morte di
Aldo Moro, al punto più alto che essa abbia mai raggiunto, e che tuttavia sarà
ben presto sorpassato, qui o altrove. La versione delle autorità italiane,
aggravata piuttosto che migliorata da
cento ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere
di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo istante. La sua
intenzione non era di essere creduta, ma di essere la sola verità; e dopo di
essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Uno
dei concetti fondamentali è questo: i fabbricatori di verità per la società
dello spettacolo hanno ben chiaro che l’obiettivo non è essere creduti, ma
ascoltati al momento e nel momento, per poi venire dimenticati il più in fretta
possibile. La moltiplicazioni di voci, il coro immenso che sentiamo oggi, ha
concorso a un ulteriore sviluppo della tecnica: l’orwelliano miniver annovera tra i suoi impiegati
stabili tutti quelli che (forse quasi tutti) scrivono sul web, incaricati o
meno di farlo che siano (ma forse tutti sono
incaricati, questa è la trappola). La
guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza, tutto e il contrario
di tutto si afferma e non si dimostra ma si mostra, purché occupi la scena, con
un’ossessione dominante per il vacuum, tutto deve essere pieno, riempito, ogni spazio ogni istante e...dov’è finito il rumore
bianco?
Allora,
gli elementi sono: un palcoscenico mondiale, un totalitarismo che non ha bisogno
di darsi una forma precisa, un’invasione di ultracorpi che non è venuta dallo
spazio profondo bensì dal nostro stesso interno, e ha proceduto proprio come
gli ultracorpi, per progressivo svuotamento e successivo riempimento degli
involucri rimasti con nuove sostanze, effimere però come gli involucri. La società
dello spettacolo è una società di fantasmi e, per andare a caccia di fantasmi, un ottimo aiuto viene da Roland Barthes, http://www.rigabooks.it/antologie.php?idlanguage=1&id=772&idantologia=821:
grazie a lui se ne possono trovare annidati in tanti contesti, dalla scienza
alla politica, all’arte, all’economia; l’elenco si fa presto eterogeneo e
bislacco, ma non è colpa sua.
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