Scenderemo nel gorgo muti, ha scritto Pavese in una sua, per me memorabile, poesia.
Nel gorgo stiamo scendendo, è vero, ma ci manca il mutismo, sostituito da parole che non significano nulla e che forse per questo vengono urlate, fatte risuonare, echeggiare, trionfalmente (sembra) rimbombare in piazze e da palchi. Da uomini (si fa per dire) che indossano divise e si gonfiano, si gonfiano, maiali nutriti a estrogeni, capponi e oche col fegato ingrossato e avvelenato.
Che nostalgia del rumore bianco, della scritta alla fine delle trasmissioni e di quel vero mutismo, fratello della sordità, trasmessi attraverso l'etere, loro sì veramente risonanti. Li ricordano gli insonni, i nottambuli, quelli che (allora) avrebbero desiderato essere intrattenuti in qualche modo, anche di notte, da una voce intelligente.
Ma la voce intelligente latita, non si fa sentire, e quando osa pronunciare qualche parola viene fraintesa, sbeffeggiata, messa da parte. Cosa si potrebbe farle dire che fosse non solo ascoltato ma messo in atto? In quale colore scrivere la sua verità, consumata ormai tutta la gamma delle sfumature a disposizione della tavolozza per dipingere spettacoli immondi, ripetitivi, sfavillanti e ben visibili.
Anche il sacro hanno contaminato con le loro parole da cui stilla il grasso della cotica. E il sacro si è rovesciato nella propria parodia, che non è il profano, ma il grottesco. Dove, dove trovare riparo?
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