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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

domenica 29 gennaio 2012

Impostiamo un tema sull'argomento "la guerra"

Consideriamo parte del nostro bagaglio la lettura del Deserto dei Tartari di Buzzati e aggiungiamo i due racconti che riporto di seguito, Iniziate a leggerli con attenzione e a riassumerli per giovedì-venerdì prossimi, poi ne parleremo in classe.

RACCONTI DI REDUCI della II Guerra Mondiale
Sergente Roberto Fantaguzzi (Fronte Greco-albanese)
Dopo molti anni la memoria a causa dell’età si indebolisce; oppure, per grazia di Dio, si ricordano di più le cose belle che quelle brutte. E, in guerra, di cose belle non ce ne furono molte, salvo la grande fraternità fra gli alpini e la forte amicizia che ci legava nel pericolo. Non posso dimenticare però, in Albania, il fango che “bruciava” le stringhe degli scarponi, con il rischio di rimanere senza scarpa ad ogni passo perché spariva sotto terra come nelle sabbie mobili. E i cavalli, i muli e tutte le bestie morte durante l’inverno le cui carogne non s’erano potute sotterrare a causa del grande freddo che aveva pietrificato il terreno. All’arrivo della primavera, sparita la neve, le carogne affiorano sul terreno ancora intatte; sembrava che la battaglia attorno alla città di Coritza fosse passata in quel momento, anche se il cannone aveva smesso di sparare da molto. Un altro ricordo: le punture al petto, sulla schiena e nelle braccia ordinate dal comando sanitario, punture che, a causa della nostra giovinezza, della mancata esperienza e perché l’alpino (o forse tutti i militari) sono un po’ allergici alle istruzioni obbligatorie dell’infermeria, tutti cercavano di evitare. È un bel ricordo, perché, dovendo dare l’esempio, mi sottoposi a tutte le punture prescritte ingoiandomi tutte le pastiglie contro la malaria, eccetera, con il risultato di star bene durante e dopo la campagna militare. Stare bene non è stata cosa facile, perché abbiamo attraversato tutta l’Albania a piedi, in mezzo al lezzo delle carogne putrefatte, e purtroppo senza acqua da bere, Mi ricordo di avere bevuto acqua giallastra di uno stagno: al solo pensiero mi viene ancora oggi, dopo tanti anni, la pelle d’oca. Una cosa bella succedeva in Albania: non arrivava la cisterna dell’acqua, però non so per quale mistero non è mai mancato il vino; almeno ciò succedeva nella mia compagnia; il fiasco di Chianti e un pezzo di formaggio “Roma” si poteva trovare sotto ogni tenda. Un altro ricordo: di quando ci accampammo a Durazzo attorno alla villa reale, vicino al mare, in attesa del rimpatrio. Fu uno spettacolo: gli alpini, che vedevano per la prima volta il mare, in quanto nel viaggio di andata avevano preso l’aeroplano, andavano sulla spiaggia e assaggiavano l’acqua per sentire se veramente era salata come era stato loro descritto. E il ritorno da Durazzo a Bari, quando il capitano della nave chiamò l’ufficiale e i due sergenti di servizio per comunicarci di mettere gli alpini in allarme perché era stato avvistato un sommergibile nemico; mi venne in mente la scenetta dell’acqua salata. Non si poteva seminare panico fra gli alpini e così, d’accordo con il comandante, ordinammo a tutti di dormire senza scarpe e con il salvagente sotto la testa, in pre-allarme, senza precisare la presenza del sottomarino. Nella notte, dal sottomarino nemico partirono due siluri, ma per nostra fortuna a vuoto, perché si viaggiava a zig-zag. Finalmente arrivo a Bari, per la sfilata della divisione Tridentina.
S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 1^ Parte)
Avevo nove o dieci anni quando balbettai questo giuramento: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”. Ricordo ancora come la scuola divenne una caserma: i maestri in camicia nera, noi in camicia nera. Ho ancora negli occhi le prime adunate, nella palestra della scuola, per le lezioni di canto. Tutti uguali, i piccoli ed i grandi, tutti neri, per imparare l’Inno a Roma, Fischia il sasso, Giovinezza. A quattordici anni lasciai il moschetto finto per imbracciarne uno vero, da guerra. Eravamo già negli “anni eroici”. Ogni sabato, attorno alla casa della GIL imparavamo a camminare, a maneggiare le armi. Urla marziali e colpi di fischietto. Chi scattava, chi se ne fregava. Io scattavo come una molla. Dalle adunate del sabato ai “campi Dux” il passo era breve. In settembre, ai Parioli un’immensa tendopoli accoglieva i giovani fascisti dell’Italia intera, tutti in divisa, tutti uguali. Pestavamo per giorni e giorni il caldo asfalto della Farnesina. Infine la sfilata lungo la via dell’Impero, con il duce, i gerarchi, i generali che ci applaudivano. Col passare degli anni avevo collezionato tante patacche smaltate e medaglie da non saper più dove appenderle. Alternavo il “passo romano” con le gare atletiche. I muscoli si facevano più saldi, non mi stancavo di benedire il duce per i miei successi sportivi. Tutto quanto sapeva di forza mi elettrizzava: le parate militari, le adunate oceaniche. Mi tuffavo nella folla anonima con entusiasmo. Gridavo “viva il duce, viva la guerra” come noi in quei tempi gridavano quasi tutti. I cortei della mia città, invece, mi lasciavano indifferente. Non era folla, era gente, gente da processione del Corpus Domini. I più facevano la faccia feroce, come in processione facevano la faccia computa: due commedie uguali. Gridavano “viva il duce” come noi, come i “figli della lupa”, ma con voce rassegnata, stanca, vecchia. Tutta la gente della città, incontravamo; se ne sapeva vita e miracoli: i nostri fratelli maggiori, i nostri maestri, i nostri professori, il prete, il droghiere, il professionista, il ciabattino. Non mancavano i vecchi, i nonni. Non mancavano gli antifascisti ricuperati, gli ex santoni della maledetta democrazia. In tutto quel nero, spiccava, come una mosca bianca, un vecchio senatore dalla lunga barba. Il mio prestigio di gerarchetto fascista ebbe un duro contraccolpo all’esame di stato. Sapevo tutto sul fascismo, ma ignoravo a tal punto il tonnellaggio delle nostre navi da guerra da confondere i chilogrammi con le tonnellate. Così rischiai un bocciatura in cultura militare. Superai invece brillantemente l’esame per l’ammissione all’Accademia di fanteria e cavalleria di Modena. In quel settembre del ’39, come al solito, ero in giro per l’Italia a fare l’atleta. A Milano mi raggiunse un telegramma. L’Accademia apriva i battenti. Dimenticai i fascetti, le patacche, le medaglie. Divenni soldato. Ingranare a Modena non fu facile. Disciplina rigida, correre senza mai fermarsi, se non per mangiare, per dormire; con gli “anziani” che trattavano i “cappelloni” come ciabatte. Gli istruttori erano severissimi. Tanta ginnastica che non ci riposavamo da una volta all’altra. In più, le lezioni al maneggio, a colpi di frusta, con i cavalli che impazzivano fra bestemmie e invettive volgari: “stringi con le gambe, sembri una vacca”, era il richiamo più garbato. Alcuni non resistevano. Posavano le stellette, e a testa bassa prendevano la via di casa. I più superavano il rodaggio a denti stretti. Una volta alla settimana, lunga corsa in bicicletta fin sull’Appennino, pedalando anche in discesa per via delle gomme piene. Molto studio, su “sinossi” vecchie quasi come il palazzo ducale nel quale abitavamo. Vecchi insegnanti che vivevano nel culto della guerra del ’15, nel culto dei seicentomila morti. Vita poco brillante: alla sera cinquanta minuti – non uno di più – di libera uscita. La mensa era piuttosto scarsa. Si respirava, con l’autarchia, l’inizio del razionamento. Tutto a squilli di tromba: mangiare, deglutire, digerire. Io prendevo tutto sul serio. Non per nulla mi fecero “allievo scelto”. “Sei un tedesco”, mi diceva a volte il tenente, ed era un complimento. Soldato perfetto e tedesco erano la stessa cosa. A Modena esisteva una diversa gerarchia fra il re e il duce. Il re era il “numero uno”. Se nei primi tempi di quest’invasione gerarchica mi aveva turbato, in seguito l’avevo accettata con disinvoltura. In fondo in fondo, il duce non era che un caporale, e la milizia non era che la brutta copia dell’esercito. Non avevo dubbi sull’invincibilità del nostro esercito: con la modernissima mitragliatrice Breda – la migliore del mondo – avremmo vinto la guerra. Ricordo che a scuola d’armi, quando l’accostavamo alle mitraglie con raffreddamento ad acqua della guerra di Libia, il confronto era entusiasmante. Avevo poche notizie sui carri armati. D’altra parte anche gli allievi carristi si accontentavano di studiare queste nuove armi sui complicati schizzi in sezione trasversale e longitudinale. Mai visto un carro armato vero. La regina delle battaglie era ancora e sempre la fanteria. I carri armati, macchine sussidiarie, erano qualcosa di più del necessario. La cavalleria sì, quella contava, con le nuove Breda someggiate! Dell’aviazione sapevo tutto con la storia delle trasvolate atlantiche. Dopo il 10 giugno 1940 studiai la tattica e l’arte militare con maggiore impegno. L’esempio non veniva dall’alto. Il principe di Piemonte, infatti, quando ispezionava l’Accademia, dimostrava di preferire le lezioni di scherma, equitazione e ginnastica. La pesante esperienza del fronte occidentale e l’avventura del fronte greco-albanese restarono sul piano del bollettini ufficiali. I bollettini parlavano sempre di vittoria e ci riusciva facile confondere le nostre ritirate con le avanzate lampo dei tedeschi. Un mattino, quando meno ce l’aspettavamo, l’incanto si ruppe. L’insegnante di storia militare, un vecchio colonnello carico di nastrini, con voce grave, ci disse che il cambio della guardia fra Badoglio e Cavallero era una sventura nazionale. Era uno sconcio che i fascisti osassero infangare Badoglio: Badoglio era l’esercito. Di quel giorno anche il nostro comandante di compagnia, un bersagliere che non sorrideva mai, commentando i bollettini di guerra aggiornò il suo linguaggio: disse che le truppe del fronte greco-albanese, invece di avanzare sempre, con abili manovre, ripiegavano sulle posizioni prestabilite per ritrovare il trampolino di lancio… Con la primavera del ’41 – mentre i tedeschi spezzavano per nostro conto le reni alla Grecia – il mio corso chiuse precipitosamente i battenti. Addio scuola di applicazione, addio divise fuori ordinanza di Farè. Un secco ordine del giorno parlava soltanto dei campi di battaglia, “dell’urgente bisogno di novella energia e fuoco giovanile per la vittoria finale”. Il generale Carboni ci riunì nel salone d’onore: eravamo circa duecento. Disse pressappoco così: ”Da oggi non siete più allievi, siete ufficiali. La guerra va male. Raggiungerete i reparti mobilitati, il fronte. Ricordate che la responsabilità dell’impreparazione dell’esercito ricade sul fascismo”. Finii a Cuneo, al 2° alpini, proprio nei giorni in cui la divisione Cuneense tornava dal fronte greco-albanese. Ero un perfetto ufficiale effettivo. Non chiedevo che di fare la guerra, di pagare la mia parte. Le barzellette, il disfattismo del fronte interno, mi ferivano profondamente. Guardavo la carriera, le medaglie, con naturale interesse: soprattutto le medaglie, perché separavano i combattenti dai piedipiatti del deposito. La prima impressione che provai al reggimento fu poco incoraggiante. Soltanto gli ufficiali ed i soldati del deposito sembravano riconoscere i miei gradi. I reduci, alpini anziani ed ufficiali in gran parte di complemento, mi guardavano come si guarda un imboscato. Subito, al battaglione Borgo San Dalmazzo, venni preso dalla vita del reparto, vita di caserma, fatta di piccole cose inutili per gente che in guerra ne aveva viste di tutti i colori: le fasce ben avvitate alle gambe, i pantaloni su, le giacche giù, il cappello non pizzicato, ma rotondo come un panettone, l’ordine chiuso, ed anche la ginnastica. In più, dopo la rivista ai poveri stracci tornati dal fronte, la distribuzione di un po’ di vestiario. Fu in questo periodo che imparai le prime cose proibite. In piazza d’armi, fra un’istruzione e l’altra, con brevi corsi di orientamento, gli alpini m’insegnarono che in guerra la mitragliatrice Breda s’inceppava, che i mortai greci erano più micidiali delle nostre artiglierie. Raccontando bestemmiavano. Sentivano nel sangue quell’avventura finita male. Io ascoltavo con grande interesse. Cercavo la verità anche se mi feriva: tentavo di buttare il falso per far posto al vero, a costo di sentirmi l’animo vuoto ma pulito. Quando parlavano degli imboscati, dei festaioli del fronte interno, mi sentivo timido e impacciato come una recluta. Erano anziani i miei alpini, erano stanchi, disincantati. Non sognavano che un mese di “licenza agricola” per tornare in famiglia. “Se gente come questa ha fatto la guerra, - mi dicevo, - non devo perdere tempo, devo partire volontario. Soltanto in guerra darò un volto, quello vero, a questa patria che non conosco. In guerra toccherò la verità”. Nell’autunno, dopo i campi estivi, la vita di caserma mi divenne insopportabile. Mi aggiravo in un groviglio di pesanti delusioni. Al fascismo non guardavo più da tempo. I gerarchi, vestiti di nero, sembravano uccelli di malaugurio. Anche i nostri bollettini di guerra mi davano fastidio. La “vittoria finale” mi appariva soltanto di marca tedesca. Ormai conoscevo tutta la storia della guerra di Grecia. Il “clima eroico” era fatto di povera gente mandata al macello con armi vecchie e superate, come i nostri generali. La disorganizzazione logistica era addirittura drammatica. In famiglia mi volevano almeno generale, ma non volevano sentir parlare di guerra: ecco, un patriottismo prudente, del tipo “armiamoci e partite”, che salvasse capra e cavoli. I miei colleghi di complemento diffidavano degli ufficiali effettivi e guardavano ai fatti. Per credere ancora in qualcosa era proprio necessario che partissi per il fronte. Buttai giù una domanda da volontario, alla disperata. L’unico fronte aperto era l’Africa settentrionale. Dichiarai di rinunciare, se indispensabile, alla specialità alpina. Mi convocarono d’urgenza al comando reggimento. Aspettavo un encomio solenne, invece l’aiutante maggiore mi accolse urlando: “Tu chiedi di andare in guerra senza la penna. Cos’hai combinato? Hai messo incinta una ragazza? Hai debiti di gioco?” Picchiarlo non era possibile. Mi chiusi la porta alle spalle. Mi riconvocarono al comando reggimento, e questa volta aspettavo gli arresti. L’aiutante maggiore non comparve. Mi parlò a quattr’occhi il colonnello Scrimin, come un padre. “Tu vuoi partire volontario, vuoi fare la guerra a tutti i costi, - mi disse. – Lo sai che Roma è peggio di una cloaca? Laggiù finirà la tua domanda. Ammiro il tuo entusiasmo, ma non forzare il destino. La guerra verrà presto, per tutti”. Su richiesta del comando dovetti completare la domanda con la frase di rito “per la vittoria finale”. Senza questo atto di fede l’avrebbero bocciata in partenza. Con l’inizio del ’42 – sottovoce – nei reparti alpini si incominciò a parlare del fronte russo. Avevamo una dotazione completa di corde per roccia, ramponi da ghiaccio, funicelle da valanga. Mancavano le scarpe. Ero sempre a Cuneo, al battaglione Borgo San Dalmazzo. La mia domanda era sempre a Roma, neanche avessi chiesto d’imboscarmi. La sera del 31 marzo la Cuneense rientrò in sede dopo cinque giorni di lunghe marce in pianura: con queste “marce di allenamento per la steppa russa” i comandi di Roma giudicarono i reparti alpini pronti per il nuovo impiego. Proprio quella sera trovai in fureria una strana lettera del mio generale con saluti ed auguri per la mia partenza. Partenza per dove? Per l’Africa settentrionale? Due giorni e fui a Rivoli in forza al battaglione Tirano del 5° alpini, divisione Tridentina. Fra il 2° ed il 5° alpini non esisteva alcuna differenza: la Cuneense e la Tridentina facevano parte del corpo d’armata alpino e avrebbero raggiunto il fronte russo contemporaneamente. Tanto valeva che mi avessero lasciato a Cuneo. A Rivoli la Tridentina era in fase di addestramento per una parata a Torino alla presenza del re. Purtroppo le famose “marce di allenamento per la steppa russa” erano state rimandate. Andammo avanti e indietro per giorni e giorni, portando a spasso gli zaini pieni di paglia. L’ordine chiuso non finiva più, le scarpe seminavano chiodi. Finalmente sfilammo in Piazza Castello. Sul palco rosso il re si perdeva fra le greche e le aquile d’argento dei generali. Anche le aquile d’oro dei gerarchi imboscati erano tante. I nostri battaglioni avanzavano massicci. Gli alpini, infagottati nel glorioso grigioverde, con il fucile ’91 a spall’arm, ricordavano la guerra del ’15. Un’allegra fanfara copriva il rumore sordo delle scarpe rotte che battevano l’asfalto. Molti i muli, antichi come le armi ed i materiali ondeggianti sui neri gropponi. Passata la festa s’incominciò a fiutare nell’aria odore di polvere da sparo. Non si parlò più di ordine chiuso, ma di piccole manovre e tiri di combattimento. Il mio battaglione era comandato dal maggiore di stato maggiore M., così inadatto alla vita di reparto che, quando venne sostituito da un ufficiale di complemento, al Tirano ci fu gran festa. Raccontavano che, in una manovra a battaglioni contrapposti, tre alpini dell’Edolo l’avessero catturato sulle rive del lago d’Avigliana, mentre prendeva un po’ di fresco. Non volevano più mollarlo. Lui urlava e quelli niente. Scarpinavano da ore e pensavano che, catturando un grosso comandante, la manovra avrebbe avuto termine. A stento il maggiore si era poi imposto, ma gli alpini l’avevano insultato malamente come si fa con chi non sta al gioco, con chi bara alla morra. Anche il comandante della 46a compagnia non aveva la tempra del guerriero. Era un meridionale vestito da alpino. Con la lunga barba ricciolina sembrava un frate. Era duro, quasi spietato. Non aveva nastrini, ma soltanto la camice rossa da squadrista. Nei primi tempi, quando non ero ambientato, si era provato a sfottermi. Ma la mia decisione nel non lasciarmi pestare i piedi era stata efficace: si era messo a filare diritto e mi considerava un padreterno. A volte parlavamo del fascismo, dell’impreparazione dell’esercito, delle scarpe rotte, del disordine, dell’indisciplina. “La colpa è dell’esercito, non del fascismo”, ripeteva invariabilmente. “Che sia ben chiaro però, - aggiungeva, - la maggior parte degli squadristi sono delinquenti”. Ed i tedeschi? “Gente in gamba”. Alla fine di giugno lasciammo Rivoli per le famose “marce di allenamento”. In barba alle disposizioni dei grandi comandi non camminammo in pianura, ma in montagna. Fu attorno a Giaveno, verso Forno, che cominciai ad apprezzare gli alpini del Tirano. Bestemmiavano peggio dei piemontesi, ma resistevano meglio. Dopo le “marce di allenamento” si parlò di partenza imminente. Il Tirano venne alloggiato nelle “casermette funzionali” lontane alcuni chilometri da Rivoli e la vita del reparto divenne più intensa. Noi ufficiali subalterni contavamo, senza speranza, le paia di scarpe rotte. Metà dei miei soldati avevano le scarpe ritte nei piedi. Il “morale” non era a terra. C’era forse più rassegnazione che scontento. Non esisteva una via d’uscita; la guerra bisognava farla: se dopo il fronte greco-albanese veniva il frontE russo, pazienza! Molta la propaganda di stile fascista; s’insinuava come la peste per creare un clima di voluta incoscienza. Eccola: “I russi, straccioni scombinati che si fanno insaccare a centinaia di migliaia, non vogliono combattere. Avanzano come pecore, con i pulitruk alle spalle. “Anche la popolazione è stanca della guerra e fraternizza con i liberatori dell’Asse: una popolazione primitiva, di tipo africano. Come a suo tempo in Abissinia, basterà una medaglietta, una cartolina colorata, per ottenere in cambio almeno una vacca. Consigliabili le cartoline con su la testa del duce o del re, perché contano doppio”. Non era facile credere in questa propaganda: ma batti oggi, batti domani, qualcosa restava. Una strana circolare, che si riallacciava all’esperienza del CSIR, giunse ai reparti alla metà di luglio. Non parlava di carri armati russi, delle katiusce, dei parabellum. La “circolare riservata” ripeteva suppergiù la solita storia: che i russi erano stanchi di combattere, disorganizzati, agonizzanti. Non mancavano le notizie d’ambiente e consigli di questo tipo: “…l’inverno è molto freddo, tanto freddo che i russi non dormono nei letti, ma sulle stufe. L’acqua è pessima, è consigliabile correggerla con idrolitina”. L’interrogativo più pressante che saltò fuori dalla “circolare” fu questo: per l’acqua c’è rimedio, compriamo polverine finché basta. Come faremo a dormire sulle stufe? Gli alpini del Tirano, in grande parte valtellinesi, erano veri montanari rotti ad ogni fatica, resistentissimi, dotati dell’agilità del contrabbandiere, più svegli che pazienti. Se l’alpino della Cuneense preferiva una pedata ai cinque giorni di consegna, qui avveniva il contrario. La vecchia storia di un capitano troppo severo, lanciato nel vuoto dal terzo piano della caserma, era vera ed eloquente. Tagliati con l’accetta, insofferenti di ogni disciplina formale, salutavano gli ufficiali con la voce e tiravano avanti. Portare la mano al cappello era una fatica inutile. Se giocavano alla “morra”, si infiammavano come meridionali. Guai a chi barava. Per loro la vita militare era soltanto “calusia”, confusione. Dell’Albania, fra il resto, ricordavano i reparti mandati al macello con le sole armi individuali, mentre le mitraglie erano sparse nelle retrovie. Fu proprio in questi giorni di attesa che il problema disciplina balzò all’improvviso in primo piano. Tre alpini dell’Edolo, sorpresi di notte dall’ufficiale di vigilanza del Tirano, non avevano trovato nulla di meglio che pestarlo a calci e pugni lasciandolo lungo e disteso sull’asfalto. Il guaio era grosso. I reparti vennero consegnati in caserma, si riprese l’ordine chiuso come ai tempi della sfilata del re. Poi gli occhi sottotenente S. sgonfiarono, e tutto finì! Quando venne il cambio della guardia alla 46, conoscevamo ormai il giorno della partenza per il fronte russo. A sostituire il capitano squadrista arrivò il tenente in s.p.e. Grandi. Grandi proveniva dalla pattuglia sci veloci di Cervinia, ed i vecchi del 5° alpini lo ricordavano sul fronte occidentale, mentre saltava come un grillo sotto il fuoco delle mitraglie francesi. Non fu difficile intenderci con Grandi. Si liberò di tutte le scartoffie inutili, che riguardavano il numero di spirali di certe molle o raccomandavano l’idrolitina. Si interessò delle scarpe degli alpini. Al comando erano soliti dire che la nostra sarebbe stata una passeggiata. I tedeschi erano ormai nel Caucaso, avevano raggiunto l’Elbruz, e la guerra sarebbe forse finita prima ancora del nostro arrivo su quel fronte. In Italia – dicevano – saremmo tornati attraverso l’Asia e l’Africa settentrionale. Grandi non apprezzava queste barzellette. Il clima allegro, alla 10° alpini, l’infastidiva. Con noi, che già gli eravamo amici, proponeva sovente di dare l’esercito all’appalto, eliminando i generali. Parlava di Zoagli, Portofino, Cervinia, della sua esperienza di turista, sciatore, rocciatore, come un borghese che avesse avuto anche qualche rapporto con l’ambiente militare. Era un po’ strambo, Grandi. Gli alpini però sentivano che con lui si poteva andare in guerra, ed era una vera fortuna averlo comandante. Alla vigilia della partenza, un numero inverosimile di grosse casse raggiunse a Collegno la stazione di caricamento. Contenevano ramponi, piccozze, corde per roccia, funicelle da valanga ed altre diavolerie, insomma tutta la vecchia attrezzatura dei reparti alpini. Quel giorno, all’entrata principale della caserma, il trombettiere ebbe un lavoro d’eccezione. Entravano ed uscivano di continuo grossi generali per l’inchiesta in corso presso il battaglione allievi ufficiali. Noi sapevamo la storia e non c’interessava. Noi partivamo per la guerra e quelli restavano. Tutt’al più ci pareva un po’ strano che avessero cantato Bandiera rossa proprio quelli che restavano in Italia. A Modena, l’ultimo giorno d’accademia, nel sentire le parole coraggiose del generale Carboni ero rimasto muto come se mi avessero bocciato agli esami. Sapevo già che l’esercito non era il fascismo. Ma da sempre avevo creduto che il fascismo e l’esercito fossero l’Italia. Adesso, con le tradotte quasi pronte, cominciavo a rendermi conto che le parole del generale Carboni erano vere solo a metà. Non soltanto il fascismo, ma anche i nostri generali erano responsabili dell’impreparazione dell’esercito. 21 luglio 1942. Una strana partenza, dimenticata, quando ormai la luce azzurrina dell’oscuramento svaniva nell’aria chiara e fredda dell’alba. La tradotta sembrava addormentata. Soltanto a tratti, dai vagoni di fondo, giungeva il nervoso tambureggiare degli zoccoli dei muli. Solo, nella carrozza ufficiali, avevo guardato i campi, le cose che prendevano forma. Ero corso indietro con i ricordi, alle partenze rumorose dei legionari per la guerra d’Africa, per L’Albania. Feste, discorsi di chi partiva, di chi restava. I discorsi più belli erano degli imboscati. Di quelle partenze mi era rimasto negli occhi un legionario d’Africa che, sulla tradotta, piangeva e i suoi compagni ridevano e gli offrivano da bere, ma lui piangeva. Allora vincevamo e partire era più facile. All’improvviso, un canto. Lo sento ancora il canto della 46, lamentoso come un pianto nel primo rotolio della tradotta: “Bandiera nera, è lutto degli alpini che vanno alla guerra, la migliore gioventù va sotto terra”. A Milano, in una stazione secondaria, incontrammo un po’ di chiasso. Il fascio offriva secchi di acqua fresca e medagliette. Una gerarca in sahariana bianca, affannata, elemosinava firme di ringraziamento per il suo federale. Trento ed il Brennero, e l’Italia restava alle spalle. Nei dodici giorni di tradotta, che mi portarono in Russia, vidi la guerra anche se il fronte era lontano. In Austria, in Germania, prigionieri scalzi e stremati lungo i binari. Il Polonia, ebrei a branchi, segnati con un marchio giallo, nelle stazioni a raccogliere i rifiuti. In Ucraina, bambini dagli occhi troppo grandi che chiedevano alle tradotte un pezzo di galletta. In una stazione distribuimmo il rancio caldo agli ebrei. Non ne avevamo da buttar via, ma quella fame ci spaventava. Ogni ebreo tirò fuori dal secchio dei rifiuti una scatola vuota, un bicchiere, una latta. Ogni cucchiaio di brodaglia era un giorno di vita. A Stolpee erano molti gli ebrei; bambini di quattro, cinque anni, donne e uomini anziani, scalzi, coperti di stracci. Passavano da una tradotta all’altra con il secchio e la scopa, come cani rognosi. Parevano dirci che la nostra era una guerra maledetta. Un ebreo vestito di nero, con una strana cravatta a farfalla, correva agitando un bastone: allontanava i bambini dalle tradotte. Sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza, passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva IN latino una preghiera: chiedeva pane. Era un’ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie. A tratto, con pudore, si aggiustava gli stracci che la coprivano. Stazioni e paesi distrutti, carcasse di uomini, di automezzi, di carri armati. Cose contorte, cose morte. Vive restavano soltanto le nostre tradotte, con sangue fresco in marcia verso il fronte. Sbarcammo a Novo Gorlovka, in una stazione lontana centinaia di chilometri dal fronte. Subito, appena accampati in un grande bosco, imparammo a temere i partigiani, a odiare i tedeschi. Noi eravamo molto poveri. Noi avevamo i muli, i tedeschi avevano i carri armati. Eravamo mal vestiti e mal nutriti. I tedeschi non mancavano di nulla e ci disprezzavano. Ogni mattina, all’alba, un reparto di Sturm-Staffeln, accampato a due passi da noi, iniziava l’istruzione dandoci la sveglia. A colpi di fischietto, saltando come grilli, i tedeschi si spingevano quasi fra le nostre tende. Cantavano, marciando su una gamba sola, cadevano all’improvviso come birilli spinti dal vento. Anche ventidue oche tedesche, in dotazione al reparto, partecipavano alle manovre. Dondolanti, in formazione spiegata, subivano le improvvise variazioni dei padroni, spinte qua e la malamente. Erano oche vere, e gli alpini le guardavano con grande interesse… Nella lunga attesa di muovere verso la zona d’impiego, verso il Caucaso, uscivamo sovente dall’accampamento per brevi esercitazioni tattiche. Assunte le informazioni di combattimento giocavamo a fare la guerra. Gli alpini sembravano marinai, non fanti. Il terreno chiedeva che strisciassero , tanto era piatto , o che muovessero rapidi con brevi sbalzi .Invece erano lenti , pesanti , e correvano curvi finche raggiungevano il ciglio . Poi , rannicchiati , a testa in su , come dietro una roccia , cercavano su quel deserto qualcosa di rotto , di spaccato , che ricordasse la montagna . Tutto era inadatto all’ambiente . Anche la divisa , così verde , era inadatta , segnava troppo il bersaglio . Avevamo vagoni di materiale per la guerra di montagna , dai ramponi per ghiaccio , alle funicelle da valanga , alle corde per roccia . Eravamo alpini , eravamo fatti per la guerra lenta , per andare a piedi . Avevamo novanta muli per ogni compagnia e quattro autocarrette in tutto il battaglione . L’armamento individuale consisteva nel fucile modello 1891 , un’arma che per l’età aveva il pregio di non essere d’avancarica . L’armamento di reparto consisteva nel fucile mitragliatore Breda , che sparava se ben pulito e ben oliato . Non dovevamo però insistere troppo con le raffiche , per evitare che la canna diventasse rossa e l’arma s’inchiodasse o sparasse da sola . Le armi d’accompagnamento -mortai Brixia , mitragliatrici Breda , mortai da 81 e cannoni da 47/32 - erano in buona parte armi superate e comunque assolutamente insufficienti . La nostra unica arma controcarro -il cannone da 47/32 – bucava soltanto i carri armati italiani . Contro i carri armati russi niente da fare . Le artiglierie nell’ambito divisionale consistevano in materiale da museo: il 75/13 , il 100/17 . Bombe a mano innocue ed incredibilmente umanitarie , che non sempre scoppiavano . Mezzi di collegamento fatti per la guerra di montagna , inadatti alle grandi distanze; le vecchie bandiere , gli eliografi , su quel terreno ondulato non servivano a nulla. Le poche radio , pesanti e scassate , a volte erano meno rapide dei portaordini. Niente mine , niente bengala , niente reticolati , niente pallottole traccianti. E poche munizioni , quasi contate. L’equipaggiamento era lo stesso del fronte occidentale , della guerretta del giugno 1940. Divise di pessima lana , scarpe di cuoio duro e asciutto , che sembrava cartone. Le fasce mollettiere parevano fatte apposta per bloccare la circolazione del sangue , favorendo i riscaldamenti o i congelamenti. Non eravamo carri armati. Eravamo truppe di montagna , male armate , male attrezzate , male equipaggiate per la guerra di montagna. Buttarci in pianura , dove la guerra corazzata correva veloce , voleva dirci buttarci allo sbaraglio. Ricordo che durante l’addestramento ero solito parlare con Grandi del nostro impiego imminente. “Su questo terreno,-dicevo,- è spaventosamente facile lasciarci le penne. Qui le distanze perdono ogni significato , i muli sono cose antiche , noi siamo cose antiche. Qui la guerra è guerra di colonne motorizzate , corazzate. Non saranno così pazzi. Combatteremo da alpini , nel Caucaso”. E speravo nella buona stella. Nelle ore libere non abbandonavo quasi mai l’accampamento. Scrivevo a casa , scrivevo ad Anna. Leggevo un caro libro dell’altra guerra , Ritorneranno. Per la popolazione sentivo una profonda pietà. Ero stanco delle retrovie , i segni della guerra appena passata mi davano tristezza. Vivevo queste giornate di attesa chiuso in me stesso , preso da sempre nuovi contrasti. Il volto della patria mi appariva falso e gonfio di retorica: era il volto del fascismo, dei campeggi , delle adunate oceaniche , dei falsi giuramenti a dozzine , dei gerarchi imboscati , della guerra facile. Attendevo la guerra vera , i fatti , come un’esperienza necessaria e definitiva per tentare di credere ancora. Speravo di non dover combattere con l’animo vuoto. Un mattino il generale chiamò a rapporto i comandanti di compagnia. Pensai che fosse giunto l’ordine di movimento. Invece il generale era seccatissimo perché il tenente delle Sturm-Staffeln aveva contato le oche e voleva un’inchiesta rigorosa. Non mi sembrò strano che i tedeschi , perduta la tradizionale prepotenza , avessero scelto la via ufficiale da comando a comando. Erano in pochi. In punta di piedi si spingevano ai margini dei nostri accampamenti nella speranza di avvistare almeno le penne delle oche scomparse. Ma gli alpini , formando siepe fuori delle tende , con strane voci gutturali , li spingevano indietro. E forse ci sarebbe stato uno scambio di fucilate fra alleati - com’era avvenuto tra bersaglieri e tedeschi alla vigilia del nostro arrivo – se il reparto delle Sturm-Staffeln non avesse ricevuto l’ordine di partire. Alla metà di agosto abbandonammo , a Novo Gorlovka , le casse di materiali inutili. Poi , come un’immensa tribù di zingari , iniziammo la marcia verso il Caucaso. Trenta, quaranta kilometri al giorno , carichi come bestie , con le scarpe che seminavano chiodi. Più si camminava , più il Caucaso appariva lontano. I tedeschi, con lunghe file di automezzi , correndo veloci verso il fronte , ci spingevano sui margini della pista nella polvere che sembrava nebbia. Nemmeno imprecare ad alta voce si poteva , dovevamo imprecare dentro. Fu durante questi giorni di marcia che per la prima e l’ultima volta vidi i mitra Beretta. A Modena avevo sentito parlare tanto di queste nuove armi. Vederle , adesso , non in dotazione ai reparti , ma a tracolla dei due marescialli di scorta al generale Nasci , mi lasciò indifferente. Che fossero gli unici due esemplari dell’esercito italiano? Rividi poi i mitra in Italia , in mano alle brigate nere. Dopo giorni di cammino , all’improvviso mutammo rotta. Le marce si fecero più lunghe , il digiuno continuò rigoroso: due gallette ed una scatoletta per cinquanta kilometri di marcia. Alla sera anche le tende ciondolavano. Il 24 agosto a Vorosilovgrad piantammo le tende con maggiore energia. Speravamo in una sosta prolungata , pensavamo ancora al Caucaso , alla guerra di montagna. Invece era già pronta una colonna di autocarri per trasportarci sul fronte del Don , dove una divisione dell’ottava armata, la Sforzesca , sorpresa da un attacco russo , era in fuga.

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