Il Viaggio di Cenerentola
Cenerentola si risvegliò di colpo, senza riuscire a recuperare
immediatamente la facoltà di movimento e sentendosi un piccolo passero
spaventato tra voci sconosciute e un “bip bip” incessante. Attorno a lei pareva
tutto bianco, spaventosamente bianco. Aguzzò lo sguardo per capire meglio dove
si trovava: era in un ospedale, non c’era dubbio. Si girò e vide
l’ecocardiogramma registrare tracciati matti, ma prima? La linea era dritta,
era forse resuscitata? Si trovava in una specie di paradiso? Cenerentola sorrise,
ora ricordava: aveva appena vissuto un’esperienza fantastica e terribile. Le
sembrava di avere vagamente in testa l’immagine di un principe, di un posto
molto molto lontano e di una scarpetta di cristallo fragile e piccola quanto il
suo piedino, ma quel ricordo aveva un retrogusto amaro: non era stato
tutto rosa e fiori. Delle donne l’avevano maltrattata.
All’improvviso, una voce familiare risuonò nella stanza, era quella di suo
padre: “Cenerentola! Cos’hai combinato ‘sta volta? Sei andata di nuovo in
overdose? Ma cosa devo fare con te?”, il tutto pronunciato in un fiato tra
tentativi concitati di medici che lo invitavano ad uscire e ad aspettare,
almeno finché i parametri vitali non fossero stati stabili e le condizioni di
sua figlia opportunamente accertate.
Quest’ondata di realtà spazzò via le fantasie di Cenerentola, che si
ritrovò a rimuginare sugli avvenimenti della sera precedente. In effetti, si
era di nuovo drogata con la sua amica Giuseppina, e di nuovo non sapeva perché.
Non sentiva più il bisogno di eroina dopo la disintossicazione a cui l’aveva costretta il
padre, ma voleva essere trasgressiva: in questo mondo, al giorno d’oggi, tutti
pensano che la vita vada vissuta appieno, senza stare troppo a pensare ai
rischi e alle conseguenze delle proprie azioni e, si sa, questa è la rovina di
molte persone, che sortiscono l’effetto contrario a quello da loro desiderato.
Cenerentola in fin dei conti voleva solo farsi un altro bellissimo viaggio
mentale per alleviare la sofferenza del periodo in cui si vedeva immersa: dopo
cinque anni di università alla facoltà di ingegneria i suoi sforzi, con la
disoccupazione dilagante, non erano ancora stati premiati, non aveva trovato un
lavoro decente, nonostante innumerevoli e strazianti ricerche.
Dopo una mezz’oretta il padre le si parò davanti, prese una sedia e
l’accostò al letto: “Cara, noi dobbiamo parlare. Dopo la morte di tua madre e
la tua prima overdose, ho persino accettato di chiamarti con quell’assurdo nome
che ti hanno dato i tuoi amici spacciatori, che mescolava la cenere di ciò che
ti fumavi alla circostanza che fossi una sventola. Ma sono riuscito a farmi
ascoltare e a mandarti in quel centro per persone come te, ti ricordi? Ebbene,
adesso lo rifarò, ma non sarò più gentile come prima, non ti leccherò nemmeno
le cartine delle sigarette quando avrai la salivazione azzerata. Nossignore. Ti
chiamerò con il tuo nome di battesimo e tu dovrai tornare l’Osvalda di un
tempo, quella con cui mi azzuffavo giocosamente. E tutte le volte che tornerò a
casa e sentirò l’odore di una qualsiasi sostanza stupefacente o ne vedrò le
tracce, non aspetterò che tu nasconda le prove: non spruzzerai deodorante in
giro, non finirai il più velocemente possibile di sniffare quelle tue polverine
bianche mentre fingo di dover andare di corsa in bagno, non metterai nemmeno le
siringhe nel famoso cassetto della cucina che ogni settimana mi tocca comunque
svuotare, e tutto questo per rimandare un’ennesima sgridata giornaliera, dal
momento che sai che quando mi arrabbio divento tutto rosso e gonfio. Un rospo
rubicondo. E non finisce qui: non porterai a casa nostra più di un ragazzo alla
settimana, almeno forse in questo modo capirai il significato dell’amore e
magari finalmente ti sentirò parlare con un uomo. Adesso riposa. Ah, e tutti i
tuoi filmini porno da ora non sono più invisibili ai miei occhi e andranno a
finire nel cestino. Sii forte.” E così dicendo, le diede quello che nelle sue
intenzioni doveva essere un buffetto sulla guancia, ma che era a tutti gli
effetti uno schiaffo, e di quelli che lasciano il segno delle dita sulla pelle.
Se ne andò trascinando quel suo enorme deretano, che non andava per niente
d’accordo con le gambe da fenicottero che si ritrovava.
Tre giorni dopo Osvalda detta Cenerentola stava raccogliendo le sue cose
per andare nella casa di cura per gente disperata e malata, quando notò di
esser tornata dall’ospedale senza uno stivale: aveva ancora il palmo del piede
destro nero per l’asfalto su cui aveva camminato fino ad allora. Tornò dalla
sua amica Giuseppina, ma scoprì che quella non era la casa dei suoi genitori,
come lei invece aveva più volte sottolineato sorridendo (avrebbe potuto
intuirlo), bensì vi abitava uno scapolo dall’aspetto meraviglioso.
Probabilmente Giuseppina lo aveva sedotto e gli aveva rubato le chiavi
dell’appartamento, per avere un posto sicuro dove drogarsi in santa pace, senza
disturbi né lamentele di alcun genere, approfittando del fatto che spesso il
giovane inquilino era fuori città.
Cenerentola scoprì che il ragazzo ormai venerava come una divinità lo
stivale che gli era apparso in casa come per magia, così lo costrinse a
infilarglielo con le sue mani, per dimostrare che era suo. In quel momento, i
loro occhi si incrociarono e qualcosa scattò nei loro cuori, qualcosa che si
manifestò sotto forma di una scintilla nelle loro pupille, stanche della brutta
vita che conducevano i loro proprietari: improvvisamente capirono che un vero
incontro con un altro essere umano vale da solo la fatica di tutto il viaggio.
Osvalda-Cenerentola da allora non volle che vivere nella realtà,
assaporando la magia che è parte intrinseca di essa pur senza l’aiuto delle
fiabe, di viaggi chimici o di frasi a effetto come “e vissero tutti felici e
contenti”, con la quale infatti non finirò questo racconto.
Clara San Pietro
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