SULLE ALI DEL TRICKSTER…
Trickster, dall’inglese, ingannatore è un termine che si è iniziato a usare in ambito antropologico per definire, presso culture di nativi americani, esseri, spesso associati ad animali come il coyote, il coniglio, le cornacchie, i ragni e altri ancora, che tramano inganni, nei quali cadono ora gli uomini ora le divinità. La tipologia dei trickster tuttavia è molto varia e, per quanto poco determinata, presente anche in culture occidentali. In una delle sue espressioni egli, imbroglione e amorale, riesce con una trovata, con un furto o con un trabocchetto a determinare una svolta per la cultura cui appartiene: presso gli indigeni delle isole Torres, al largo dell’Australia, si tramanda la leggenda secondo cui il fuoco era originariamente in possesso di una vecchia che lo teneva nascosto in un sesto dito fra pollice e indice. Quando voleva accendersi un fuoco, doveva semplicemente mettere questo sesto dito sotto l’esca [materiale infiammabile, secondo significato], e questa subito si infiammava. Gli animali di un’altra isola vedevano il suo fuoco e ne erano invidiosi, perché non lo possedevano. Uno alla volta attraversarono il braccio di mare che separava le due isole per rubarglielo in qualche modo, ma nessuno di loro ci riuscì, tranne una lucertola, che staccò con un morso il dito alla vecchia e lo portò a nuoto in bocca fino alla propria isola. Gli animali l’accolsero festosamente e ciascuno di loro ordinò all’albero della foresta che amava di più, dopo averne staccato un ramo, di venire a prendere un po’ di fuoco: gli alberi si mossero e vennero a dar fuoco al ramo corrispondente, così che da quel giorno il fuoco è custodito dagli alberi, e gli uomini da loro possono ottenerlo. Come nelle “civiltà totemiche” dei nativi americani, in questa leggenda australiana è un animale, la lucertola, a incarnare la parte del trickster che, congiungendo astuzia a forza, ruba il fuoco a chi lo possiede e ne fa dono ai suoi simili. Nella mitologia greca un trickster è Prometeo. Due i miti a lui collegati: il primo ricalca nelle sue linee essenziali quello appena rievocato. Prometeo [prima – penso; Epimeteo, suo fratello, poi-penso] è un titano [figlio di Giapeto a sua volta figlio di Urano e di Gea; sua madre è la ninfa Climene] che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini [o dalla fucina di Efesto o dalla fiaccola di Minerva]; prima di compiere questo atto, per il quale viene punito da Zeus con l’incatenamento alla roccia in Scizia e il rodimento del fegato da parte dell’aquila, cerca di ingannare Zeus in questo modo: dovendo gli uomini decidere in che maniera sacrificare agli dei, Prometeo suggerisce di avvolgere le parti migliori della vittima in budella [considerate parti immonde dalla cultura greca] e le ossa con del grasso. Zeus sceglie le ossa, ma, per dimostrare di aver compreso l’inganno, punisce gli uomini togliendo loro il fuoco, mentre grazia, per questa volta, Prometeo. In questa circostanza Prometeo dimostra di essere un trickster presuntuoso, non del tutto astuto, dato che sottovaluta la capacità di riconoscere l’inganno da parte di Zeus, che tra l’altro dimostra ulteriormente la sua superiorità nei suoi confronti non punendolo.
…FINO AGLI INDISTINTI CONFINI FRA VERITÀ E MENZOGNA
Polimorfo, fantasioso, ingannatore, demiurgico, prossimo, eppure lontano dagli dei, prossimo, eppure lontano, dagli uomini: così è il trickster, nelle sue varie incarnazioni riconoscibili attraverso studi letterarî e antropologici. A lui si debbono, abbiamo inteso, talvolta interventi cruciali per determinare svolte nel cammino dell’umanità: non a tutti ma a qualcuno sono date la capacità e la volontà di scoprire cosa possa essere fondamentale fare, a un certo momento, per liberarsi da una schiavitù, da una trappola, che i più non sapevano nemmeno riconoscere come tale. Quanti si accorgono di essere incatenati in una caverna a fissare ombre sul fondo e a udire echi di parole? I migliori trickster, i più riusciti, quelli che non lasciano intravedere nemmeno un lampo di stupidità nel loro agire (intendendo, con lampo di stupidità, l’errore commesso ad esempio da Prometeo con le parti di carne offerte a Zeus), sono quelli che coltivano la passione per le soglie, per i limiti, o meglio, per il superamento dei medesimi. È Ermes, allora, un trickster divino ideale: col suo potere incantatorio e disincantatorio, con la sua bacchetta che può far chiudere tutti gli occhi ad Argo e promuoverne il sonno eterno, è colui che porta se stesso e altri esseri (umani, semidivini poco importa) al di là e al di qua delle soglie fondamentali: quelle della vita, della morte, del sogno, della morte che è anche un po’ sogno, del sogno che è anche un po’ morte. Ermes è l’ipnagogo, colui che induce al sonno e accompagna le anime nel regno dei morti, ma è pure l’angelo del risveglio, che conduce fuori dalla caverna, uccide e arrostisce le sacre vacche, dissolve gli dei nel fiume del tempo.
Il passaggio, per noi, alla dimensione letteraria può ben valersi di Ermes e chiamare contemporaneamente in causa un uomo, un eroe mitico in verità, che condivide con lui non poche virtù: Odisseo. Egli è multiforme, dalla mente variopinta, dalla parola alata, ispirata, performatrice e creatrice, come solo sa essere quella che fruga nell’anima delle cose, che non si ferma al loro modo di apparire, che le vuole vedere da ogni lato, e non solo, le assaggia, le assorbe, se ne serve per trasformare e trasformarsi. Ermes è l’archetipo divino di quell’eroe umano che è Odisseo, ed entrambi sono una creazione poetica, ossia prodotto di quel “fare originario” (poesia condivide la sua radice con poieo, faccio, creo) che è il “comporre versi”, trovare parole, con le quali plasmare, riplasmare, comporre, ricomporre, la realtà. Ed è qui che si intravvede chiaramente la presenza di un confine, di una soglia, che gli appassionati del limite e del suo superamento non possono lasciarsi sfuggire: si tratta del limes tra verità e menzogna, fra quello che è “veramente accaduto” e quello che cade preda del potere deformante, mistificante della memoria imperfetta o della volontà manipolatrice o ancora della necessità (percepita da taluni perfino voluttuosamente) di ingannare. La parola che mistifica, che manipola o ricrea la realtà è, mi è già capitato di dire, l’anima della letteratura. Omero infatti rende Odisseo suo narratore di secondo grado per una parte cospicua della narrazione, ma gli consente anche di prodursi in una quantità di “falsi racconti”, nel corso dei quali egli appunto mistifica, inganna gli interlocutori, da Polifemo agli Itacesi e suoi congiunti al momento dell’atteso ritorno, per non farsi riconoscere, condendo sapientemente le proprie evocazioni di elementi veritieri e elementi menzogneri, in un impasto nel quale i confini sono davvero labili e a momenti vien da dire che non sia importante distinguerli. In effetti, a ben vedere, nella dimensione letteraria questo è davvero irrilevante. Si tratta infatti di eccellere nell’arte di inventare bugie e di mettere in discussione la verità stessa: per questo l’astuto Odisseo è perfetto. Così come lo è ser Ciappelleto, nel Decameron, e praticamente ogni narratore interno, esterno, onnisciente, di primo, secondo o terzo grado che sia. “Chiunque dica bugie che si limitano a contraddire la verità, fa ancora parte di un gioco le cui regole lo hanno preceduto, oppure sta semplicemente invertendo i termini, indicando non-A al posto di A. Il problema è quello di creare una ‘bugia’ che annulli l’opposizione e implichi in questo modo la possibilità di nuovi mondi.” (Lewys Hyde, Il briccone fa il mondo). La questione della messa in discussione della verità stessa è peraltro basilare anche nella filosofia. Ritornando all’accenno precedente al settimo libro della Repubblica di Platone, prendiamo atto del fatto che i filosofi abbiano denunciato l’incertezza, la fallacia che domina il mondo delle apparenze: sono nient’altro che ombre quelle che i prigionieri assumono come realtà concrete. Occorrerebbe voltarsi per rendersene conto, qualunque scotto vi sia da pagare. Occorrerebbe essere un trickster astuto. Si trova quindi in Platone impostata la distinzione, che fisserà terminologicamente Kant a fine Settecento, fra noùmeno e fenomeno, coincidente il primo con quanto è celato, seppur intelligibile, il secondo con quanto si manifesta esteriormente (e può essere, appunto, ingannevole). La letteratura però predilige gli indistinti confini e questo racconto di Borges che ora vi leggerò lo dimostra egregiamente, conducendoci in un percorso labirintico, in una menzogna che parla di sé: un po’ come nel paradosso di Protagora che, essendo cretese, dichiara che tutti i cretesi non fanno altro che mentire.
J. L. Borges, Le rovine circolari, da Finzioni
Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l'uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l'idioma Zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente. L'uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra, che fu una volta del colore del fuoco ed è ora di quello della cenere. Questa rotonda è ciò che resta d'un tempio che antichi incendi divorarono, che profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore che le ferite s'erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della carne ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d'un altro tempio propizio, anch'esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno. Verso la mezzanotte lo svegliò il grido inconsolabile d'un uccello. Orme di piedi nudi, alcuni frutti e un bacile l'informarono che la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia. Sentì il freddo della paura e cercò nella muraglia dilapidata una nicchia sepolcrale, si coprì con foglie sconosciute.
Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto magico aveva esaurito l'intero spazio della sua anima; se alcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere. Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perché era un minimo di mondo visibile; anche gli conveniva la vicinanza dei contadini, perché s'incaricavano di sovvenire ai suoi bisogni frugali. Il riso e le frutta del loro tributo erano pascolo sufficiente al suo corpo, consacrato all'unico compito di dormire e di sognare.
Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro di un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad un'altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L'uomo dettava lezioni d'anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l'importanza di quell'esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l'avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno o più tardi, da sveglio, l'uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori, indovinava in certe perplessità un'intelligenza crescente. Cercava un'anima che meritasse di partecipare all'universo.
Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma sì in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto, non potevano aspirare alla condizione di individuo; gli altri preesistevano un poco di più. Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno, ormai non vegliava che un paio d'ore al mattino) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore. La brusca eliminazione dei suoi condiscepoli non lo sconcertò troppo a lungo; dopo poche lezioni, i suoi progressi già meravigliavano il maestro. Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l'uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d'un tramonto che prese per un'aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la lucidità intollerabile dell'insonnia s'abbatté su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma poté appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole, fugacemente traversati da visioni di tipo rudimentale: inservibili. Volle convocare il collegio, ma aveva appena articolato poche parole d'esortazione che quello si deformò, si cancellò. Nella veglia quasi perpetua, lagrime di rabbia bruciavano i suoi vecchi occhi.
Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto più arduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto. Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l'enorme allucinazione che l'aveva sviato al principio, e cercò un altro metodo di lavoro. Prima di applicarlo, dedicò un mese al recupero delle forze che aveva sprecato nel delirio. Non premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire per un tratto ragionevole del giorno. Le rare volte che sognò durante questo periodo, non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l'impresa, aspettò che il disco della luna fosse perfetto. allora, di sera, si purificò nelle acque del fiume, adorò gli dèi planetari, pronunciò le sillabe lecite d'un nome poderoso e dormì. Quasi subito, sognò un cuore che palpitava.
Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d'un pugno serrato, color granata nella penombra d'un corpo umano ancora senza volto né sesso; con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava: si limitava ad esserne testimone, a osservarlo, talvolta a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli. La quattordicesima notte sfiorò con l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu forse il compito più difficile. Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, né parlava, né poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato.
Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così inabile, rozzo ed elementare come quest'Adamo di polvere, era l'Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato. Una sera, l'uomo fu quasi per distruggere tutta l'opera, ma si pentì. (Più gli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell'effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno, sognò questa statua. La sognò viva, tremula; non era un atroce bastardo di cavallo e di tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, e anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il creatore, l'avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordinò di inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell'altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a valle, affinché una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell'edificio deserto. Nel sonno dell'uomo che lo sognava, il sognato si svegliò.
Il mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo (e furono finalmente due anni) a scoprirgli gli arcani dell'universo e del culto del fuoco. Nell'intimo, gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno. Rifece anche l'omero destro, forse mal riuscito. A volte, l'inquietava un'impressione che tutto quello fosse già avvenuto... In complesso, i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi pensava: "Ora starò con mio figlio". O, più di rado: "Il figlio che ho generato m'aspetta, e non esisterà se non vado".
Gradualmente, lo venne avvezzando alla realtà. Una volta gli comandò di imbandierare una cima lontana. Il giorno dopo, sul monte, fiammeggiava la bandiera. Tentò altri esperimenti di questo genere, ogni volta più audaci. Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, lo baciò, e lo inviò all'altro tempio, le cui vestigia biancheggiavano a valle, a molte leghe di selva inestricabile e di acquitrini. Prima (perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un uomo come gli altri) gl'infuse la dimenticanza totale dei suoi anni di apprendistato.
La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All'alba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale stesse eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, più a valle; la notte non sognava, o sognava come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme del'universo: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie d'estasi. Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. Il mago ricordò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte le creature che compongono l'orbe, il fuoco era l'unica a sapere che suo figlio era un fantasma. Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altr'uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è naturale che il mago temesse per l'avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete.
Il termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Primo (dopo una lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poiché si ripete ciò che era già accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte dal fuoco. In un'alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l'incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell'acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.
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