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Gli studiosi di Cicerone, primo fra
tutti Theodor Mommsen autore di una monumentale Storia di Roma del 1854, hanno talvolta infangato Cicerone
servendosi delle sue lettere, che documentano le doppiezze, le contraddizioni,
le bassezze, le viltà d’un “grande”.
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Ma che cosa ne sarebbe della nostra
possibilità di ricostruire storiograficamente il passato, se non capitasse, con
qualche personaggio della storia, di trovarsi di fronte a questa messe di
informazioni biografiche e autobiografiche (nel suo caso si tratta di lettere,
delle quali non era prevista la pubblicazione, e che si configurano quindi
proprio come lettere personali) che possono essere confrontate con l’attività
svolta, con le dichiarazioni di principio e quant’altro?
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In Cicerone è possibile vedere le contraddizioni - che sono di ogni
epoca - del politico che è però anche portatore di un universo di pensieri ai
quali si illude di poter restare ancorato pur tra i marosi della politica. In
lui si vede, meglio che in altri, l' illusione di «guidare», mentre di fatto si
è «guidati». (Sono i due «poli» della politica evocati da Tucidide nientemeno
che a proposito di Pericle).
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In lui si
coglie da vicino e quotidianamente il logoramento del politico sospinto verso
il compromesso e insidiato dalla domanda costante: fino a che punto ci si può
spingere sulla via del compromesso senza snaturarsi o addirittura rinnegarsi?
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In lui si vede anche lo scatto di ribellione -
che talora ci prende - che si traduce poi nel ritiro in se stessi, nella scelta
(in realtà coatta) di tornare a pensare e a scrivere perché la politica è
diventata impraticabile. E per l' élite dirigente romana - per la quale la
politica era tutto, vertice gratificante e totalizzante dell' agire umano - una
tale rinuncia, un tale ritiro (per noi posteri così fecondo di risultati) era
una rinuncia dolorosissima: sanabile solo con qualche sofisma autoconsolatorio,
come osserviamo nelle tormentate e insincere prefazioni delle monografie
di Sallustio.
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Di qui, allora, l’importanza di pensare
il passato attraverso il presente e viceversa.
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Scrisse Concetto Marchesi a proposito
della vicenda politica ciceroniana: «Visse
in un tempo di formidabili risoluzioni politiche e di formidabili uomini: tra
Silla e Cesare, tra l' uomo che finiva e l' uomo che cominciava davvero
una grande epoca. In questo periodo così incerto ed inquieto, ci fu posto per
Cicerone, l' uomo della parola. Egli non conosce il silenzio: quando non parla
scrive: ma la parola è la dimora del suo spirito. Non fu un artefice nella
politica, ma uno strumento». «Egli ha bisogno di combattere un avversario di
grande importanza, non di grande potenza». E fa l' esempio dell' attacco
ciceroniano contro Verre e contro Catilina, e però anche della deludente
prestazione nella difesa di Milone (protetto dal potentissimo Pompeo). E
soprattutto mette a nudo il vizio di base delle Filippiche, pronunciate tutte
contro un assente. «Non ebbe mai innanzi a sé, nel Senato, il volto di
Antonio», e quando Antonio fece sapere che gli avrebbe risposto in Senato,
«Cicerone non poté dare all' amor proprio suo la gioia tragica e grande di
affrontare, con rischio della vita, il pericoloso avversario. La seconda
Filippica, la più atroce e la più bella, non fu pronunciata, fu scritta».
Orbene, in una così perfetta descrizione di quel duello parlamentare a
distanza, come non ravvisare un' allusione contemporanea, vivente? Marchesi
scrive nel '1924 ed ha di certo in mente la ben diversa scena dell'
antiretorico e indomito Gramsci di fronte ad una Camera ormai dominata dai
deputati fascisti, facinorosi ed aggressivi - quella appunto eletta nel ' 24 -,
il quale nondimeno, interrotto continuamente dallo stesso Mussolini, parla con «voce
debole e inflessibile» (scrisse un testimone) e parla in difesa della libertà
di associazione. E contesta lo scioglimento della massoneria in quanto premessa
per altre, on meno gravi, misure liberticide.
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Ripensare
Cicerone significa dunque ripensare la politica come tale, i suoi dilemmi, la
sua inesauribile continuità.
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