Charlie
Hebdo, l’estremo sfregio a colpi di retorica
MicroMega
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di Marco d'Eramo
Non bastava l'esecuzione collettiva, ci voleva anche l'estremo sfregio. Dopo che le loro persone sono state sterminate, ora viene massacrata anche la loro visione del mondo, viene strumentalizzato e manipolato il loro messaggio, viene insultata la loro memoria.
Parlo dei disegnatori e dei giornalisti di Charlie Hebdo, un settimanale che ha forgiato la cultura politica di un'intera generazione, la mia, che è cresciuta a pane e Charlie. Il settimanale aveva molti difetti e ha commesso molti errori, ma di certo un peccato gli è sempre stato estraneo ed è quello della retorica trombonesca. Ed invece ora lo stanno seppellendo sotto una montagna di frasi fatte, di buoni sentimenti e di ipocrisia.
Un giornale che faceva dell'irriverenza, della bestemmia, dell'imprecazione, della provocazione la sua bandiera, un giornale che si piccava di non risparmiare niente e nessuno, ora viene tumulato sotto gli elogi di una chiesa cattolica e di un pontefice che sfotteva (nelle sue pagine sono innumerevoli i più fantasiosi rapporti sessuali tra Gesù e Maddalena, per non parlare delle perversioni che attribuiva alla Madonna e ai vari pontefici). Persino il tirannico Vladimir Putin, elogia come martiri della libertà coloro che lo sbeffeggiavano con violenza inaudita. Per non parlare di quel Barack Obama che non si peritavano di prendere per i fondelli.
Da ieri soggiornare in Francia, come mi capita, è un'esperienza allucinante. I “valori repubblicani” vengono sbandierati, strombazzati e spalmati nei media fino a divenire una gelatina disgustosa se si pensa a tutte le vignette feroci che i Wolinski e i Cabu avevano dedicato a Marianna, il simbolo della repubblica (e del repubblicanismo) francese: quando ancora si chiamava Hara-Kiri, fu chiuso per un titolo “irriverente” sulla morte di De Gaulle: una settimana dopo al suo posto veniva fondato Charlie Hebdo. Oggi questi paladini del ridicolo, questi eroi del salace e del grottesco sono mortificati dai minuti di silenzio, dalle bandiere a mezz'asta, dalle luci della Torre Eiffel spente: viene voglia di chiedere un'aspettativa dal pianeta terra.
Ma il peggio ci giunge dai politicanti di turno, i presidenti di ieri e di oggi, i Nicholas Sarkozy, i François Hollande, uomini senza nerbo, senza ironia, pieni solo di vanità, fustigati senza sosta e senza pietà da Charlie Hebdo, e che ora approfittano di questa strage per portare alla luce del sole un progetto che era nelle cose da anni, e cioè, in nome della lotta al terrorismo, varare apertamente una politica di “unità nazionale”, una gestione “bipartisan”, una Grosse Koalition subalterna alla Germania di Angela Merkel, oltre che naturalmente rendere ancora più poliziesco uno stato che già stava rotolando su quella china.
Fino al ridicolo di Matteo Renzi che proprio nei giorni della “manina” sul disegno di legge al 3%, scimmiotta il John Kennedy di “Ich bin ein Berliner” con un civettuolo “siamo tutti francesi”.
Decisamente non c'era funerale più indegno che una giornata di lutto nazionale per un gruppo che aveva fatto della dissacrazione la sua missione di vita e che per questa missione ha pagato con la vita.
P.S. Sul versante opposto è altrettanto vergognoso il commento apparso a caldo sul Financial Times, a firma del suo responsabile per l'Europa Tony Barber, e che in sostanza lasciava intendere che Charlie Hebdo “se l'era cercata” (in una versione successiva, rivista e corretta, il giudizio diventa: “... Questo non è affatto per scusare gli assassini, che vanno presi e puniti, o per suggerire che la libertà di espressione dovrebbe non estendersi a ritratti satirici della religione. E' solo per dire che un po' di buon senso sarebbe utile a pubblicazioni come Charlie Hebdo e il danese Jyllands-Posten che pretendono di segnare un punto per la libertà quando provocano i musulmani”. Peccato che il Financial Times non abbia esortato anche gli Stati uniti a un po' più di buon senso in politica internazionale commentando a caldo l'’11 settembre 2001.
(8 gennaio 2014)
Non bastava l'esecuzione collettiva, ci voleva anche l'estremo sfregio. Dopo che le loro persone sono state sterminate, ora viene massacrata anche la loro visione del mondo, viene strumentalizzato e manipolato il loro messaggio, viene insultata la loro memoria.
Parlo dei disegnatori e dei giornalisti di Charlie Hebdo, un settimanale che ha forgiato la cultura politica di un'intera generazione, la mia, che è cresciuta a pane e Charlie. Il settimanale aveva molti difetti e ha commesso molti errori, ma di certo un peccato gli è sempre stato estraneo ed è quello della retorica trombonesca. Ed invece ora lo stanno seppellendo sotto una montagna di frasi fatte, di buoni sentimenti e di ipocrisia.
Un giornale che faceva dell'irriverenza, della bestemmia, dell'imprecazione, della provocazione la sua bandiera, un giornale che si piccava di non risparmiare niente e nessuno, ora viene tumulato sotto gli elogi di una chiesa cattolica e di un pontefice che sfotteva (nelle sue pagine sono innumerevoli i più fantasiosi rapporti sessuali tra Gesù e Maddalena, per non parlare delle perversioni che attribuiva alla Madonna e ai vari pontefici). Persino il tirannico Vladimir Putin, elogia come martiri della libertà coloro che lo sbeffeggiavano con violenza inaudita. Per non parlare di quel Barack Obama che non si peritavano di prendere per i fondelli.
Da ieri soggiornare in Francia, come mi capita, è un'esperienza allucinante. I “valori repubblicani” vengono sbandierati, strombazzati e spalmati nei media fino a divenire una gelatina disgustosa se si pensa a tutte le vignette feroci che i Wolinski e i Cabu avevano dedicato a Marianna, il simbolo della repubblica (e del repubblicanismo) francese: quando ancora si chiamava Hara-Kiri, fu chiuso per un titolo “irriverente” sulla morte di De Gaulle: una settimana dopo al suo posto veniva fondato Charlie Hebdo. Oggi questi paladini del ridicolo, questi eroi del salace e del grottesco sono mortificati dai minuti di silenzio, dalle bandiere a mezz'asta, dalle luci della Torre Eiffel spente: viene voglia di chiedere un'aspettativa dal pianeta terra.
Ma il peggio ci giunge dai politicanti di turno, i presidenti di ieri e di oggi, i Nicholas Sarkozy, i François Hollande, uomini senza nerbo, senza ironia, pieni solo di vanità, fustigati senza sosta e senza pietà da Charlie Hebdo, e che ora approfittano di questa strage per portare alla luce del sole un progetto che era nelle cose da anni, e cioè, in nome della lotta al terrorismo, varare apertamente una politica di “unità nazionale”, una gestione “bipartisan”, una Grosse Koalition subalterna alla Germania di Angela Merkel, oltre che naturalmente rendere ancora più poliziesco uno stato che già stava rotolando su quella china.
Fino al ridicolo di Matteo Renzi che proprio nei giorni della “manina” sul disegno di legge al 3%, scimmiotta il John Kennedy di “Ich bin ein Berliner” con un civettuolo “siamo tutti francesi”.
Decisamente non c'era funerale più indegno che una giornata di lutto nazionale per un gruppo che aveva fatto della dissacrazione la sua missione di vita e che per questa missione ha pagato con la vita.
P.S. Sul versante opposto è altrettanto vergognoso il commento apparso a caldo sul Financial Times, a firma del suo responsabile per l'Europa Tony Barber, e che in sostanza lasciava intendere che Charlie Hebdo “se l'era cercata” (in una versione successiva, rivista e corretta, il giudizio diventa: “... Questo non è affatto per scusare gli assassini, che vanno presi e puniti, o per suggerire che la libertà di espressione dovrebbe non estendersi a ritratti satirici della religione. E' solo per dire che un po' di buon senso sarebbe utile a pubblicazioni come Charlie Hebdo e il danese Jyllands-Posten che pretendono di segnare un punto per la libertà quando provocano i musulmani”. Peccato che il Financial Times non abbia esortato anche gli Stati uniti a un po' più di buon senso in politica internazionale commentando a caldo l'’11 settembre 2001.
(8 gennaio 2014)
Aujourd'hui, les débats les plus vifs en comité de rédaction portent
sur l'abolition de la prostitution ou la légalisation des drogues. Charb assure que l'islam n'est pas
l'obsession de Charlie Hebdo. Il en veut pour témoins les récentes
"unes" affichées à côté de son bureau, qui se moquent de l'ancien
président de la République. "Si nous avons eu une obsession au cours de
cette année 2012, c'est plutôt Sarkozy…"
Depuis l'incendie des locaux de l'hebdomadaire en 2011, le dessinateur et plusieurs de ses collègues ont dû s'habituer à la présence de policiers à leurs côtés. "En un an, on a épuisé une vingtaine de gardes du corps", s'amuse-t-il. Avec ses lunettes de myope et son T-shirt rayé, le directeur de Charlie traîne un air d'adolescent attardé. Pourtant, c'est crânement qu'il déclare n'avoir pas peur d'éventuelles représailles. "Je n'ai pas de gosses, pas de femme, pas de voiture, pas de crédit. C'est peut-être un peu pompeux ce que je vais dire, mais je préfère mourir debout que vivre à genoux."
Riss, dessinateur et directeur de la rédaction, évoque la "philosophie de la vie", qui anime le journal. Lui, c'est le beau gosse de la rédaction: grand, brun, les yeux bleus, la chemise blanche ouverte. Il résume ainsi sa philosophie: "On n'a pas envie d'avoir peur, mais de se marrer, de prendre la vie avec légèreté. On essaie juste de faire un truc rigolo. L'humour est un langage que les intégristes ne comprennent pas. Eux s'appuient sur la peur." Il évoque son travail de dessinateur, où le plus dur n'est pas de prendre les crayons et de tracer un dessin, mais de trouver des bonnes idées.
Depuis l'incendie des locaux de l'hebdomadaire en 2011, le dessinateur et plusieurs de ses collègues ont dû s'habituer à la présence de policiers à leurs côtés. "En un an, on a épuisé une vingtaine de gardes du corps", s'amuse-t-il. Avec ses lunettes de myope et son T-shirt rayé, le directeur de Charlie traîne un air d'adolescent attardé. Pourtant, c'est crânement qu'il déclare n'avoir pas peur d'éventuelles représailles. "Je n'ai pas de gosses, pas de femme, pas de voiture, pas de crédit. C'est peut-être un peu pompeux ce que je vais dire, mais je préfère mourir debout que vivre à genoux."
Riss, dessinateur et directeur de la rédaction, évoque la "philosophie de la vie", qui anime le journal. Lui, c'est le beau gosse de la rédaction: grand, brun, les yeux bleus, la chemise blanche ouverte. Il résume ainsi sa philosophie: "On n'a pas envie d'avoir peur, mais de se marrer, de prendre la vie avec légèreté. On essaie juste de faire un truc rigolo. L'humour est un langage que les intégristes ne comprennent pas. Eux s'appuient sur la peur." Il évoque son travail de dessinateur, où le plus dur n'est pas de prendre les crayons et de tracer un dessin, mais de trouver des bonnes idées.

Dipingi un Maometto glorioso, e muori.
Disegna un Maometto divertente, e muori.
Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori.
Gira un film di merda su Maometto, e muori.
Resisti al terrorismo religioso, e muori.
Lecchi il culo agli integralisti, e muori.
Prendi per cretino un oscurantista, e muori.
Cerca di discutere con un oscurantista, e muori.
Non c’è niente da negoziare con i fascisti.
La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova.
Grazie, banda di coglioni.
Disegna un Maometto divertente, e muori.
Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori.
Gira un film di merda su Maometto, e muori.
Resisti al terrorismo religioso, e muori.
Lecchi il culo agli integralisti, e muori.
Prendi per cretino un oscurantista, e muori.
Cerca di discutere con un oscurantista, e muori.
Non c’è niente da negoziare con i fascisti.
La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova.
Grazie, banda di coglioni.
Charb, Charlie Hebdo, 15
ottobre 2012. [trovato su
Internazionale]
Può sembrare strano e teorico questo rilancio
dell'Europa politica che comporta un rilancio analogo dell'Europa economica e
d'un decentramento partecipato verso la microeconomia e la microsocialità ed
invece è una dinamica assolutamente logica che consente di attribuire a Mario
Draghi il merito d'esser stato tra i primi ad indicarla e, per quanto riguarda
le sue competenze, ad attuarla utilizzando lo strumento monetario.
Il prossimo 22 gennaio la Bce deciderà l'attuazione del "quantitative easing", cioè l'acquisto di titoli del debito pubblico nei Paesi con maggiore necessità ma anche in quelli più solidi e quindi chiamati a contribuire alla crescita generale. Draghi affiderà alle Banche centrali nazionali alcune mansioni importanti ma il timone non può che restare nelle mani del direttorio della Bce al quale partecipano a turno le Banche nazionali. Si parla di un "qe" di 500 miliardi. Credo che la cifra sarà maggiore, probabilmente il doppio, anche se distribuita in uno o due anni. Saranno comunque acquisti di titoli destinati a restare a lungo nelle casse della Bce la quale nel frattempo effettuerà anche operazioni consuete di prestiti lunghi alle banche ordinarie e di interventi sul mercato interbancario a bassissimi tassi d'interesse.
Draghi, oltre allo strumento monetario, ha in mente un'Europa politicamente federata. Anche qui si tratta di parallele convergenti che alimentano speranze d'un futuro migliore. (Scalfari, Repubblica dell’11 gennaio)
Il prossimo 22 gennaio la Bce deciderà l'attuazione del "quantitative easing", cioè l'acquisto di titoli del debito pubblico nei Paesi con maggiore necessità ma anche in quelli più solidi e quindi chiamati a contribuire alla crescita generale. Draghi affiderà alle Banche centrali nazionali alcune mansioni importanti ma il timone non può che restare nelle mani del direttorio della Bce al quale partecipano a turno le Banche nazionali. Si parla di un "qe" di 500 miliardi. Credo che la cifra sarà maggiore, probabilmente il doppio, anche se distribuita in uno o due anni. Saranno comunque acquisti di titoli destinati a restare a lungo nelle casse della Bce la quale nel frattempo effettuerà anche operazioni consuete di prestiti lunghi alle banche ordinarie e di interventi sul mercato interbancario a bassissimi tassi d'interesse.
Draghi, oltre allo strumento monetario, ha in mente un'Europa politicamente federata. Anche qui si tratta di parallele convergenti che alimentano speranze d'un futuro migliore. (Scalfari, Repubblica dell’11 gennaio)
M. Piras, Le parole e le cose, La democrazia non è l’occidente
Si sente già il suono che cresce, il brontolio in lontananza,
che diventerà sempre più vicino, forte, ossessivo. Già conosciamo queste voci.
L’Islam invade l’Europa. La civiltà europea è rammollita dalla ricerca del
benessere, si fa sopraffare da chi crede veramente nei propri valori. La
democrazia è minacciata. L’Occidente è minacciato. La democrazia è minacciata, ergo l’Occidente è minacciato. L’Islam è
incompatibile con la democrazia. Il fanatismo è dentro l’Islam. E così via.
Conosciamo queste voci. Ci hanno frastornato per anni dopo
l’undici settembre. Ci hanno fatto perdere la lucidità, e hanno fornito il
collante ideologico che ha sostenuto una guerra insensata, che ha solo
aggravato e moltiplicato i problemi. Hanno giustificato l’uscita dallo stato di
diritto (leggi speciali sulla sicurezza, tortura ecc.). Alimentano
quotidianamente la destra (Le Pen, Salvini) che scarica sull’odio per il nemico
esterno le inadempienze del sistema sociale. Sono coltivate amorevolmente da
intellettuali di sinistra che o vogliono mostrarsi apocalittici (un
intellettuale non apocalittico annoia, e non vende) o vogliono cullarsi nel
senso della decadenza, guardando il mondo dal loro Grand Hotel Abisso. E così
tutto sembra coerente.
Del resto lo hanno fatto capire bene anche “loro”. Hanno
attaccato un giornale, satirico, proprio perché faceva satira. Quindi hanno
voluto attaccare la democrazia: la libertà di espressione, la libertà
religiosa, la tolleranza, la critica. La serie di altri attentati simili,
benché meno gravi, dei mesi passati lo conferma: una scuola, un parlamento, un
centro culturale. Obbiettivi diversi rispetto a quelli dei grandi attentati di
Al Qaeda degli anni duemila. Lì, in primo luogo, è stato colpito un simbolo del
capitalismo globale, del dominio globale sul mondo esercitato dal capitalismo
delle multinazionali, dagli Stati Uniti. E poi, nelle stazioni, è stata colpita
la vita ordinaria del benessere occidentale. Qui, invece, si colpiscono
istituzioni democratiche, in modo esplicito. Quindi la guerra contro la nostra
civiltà è la guerra contro la democrazia. Bisogna essere accecati dal buonismo
per non rendersi conto che l’Islam si sta scagliando contro i “nostri” valori.
Che è una guerra tra noi e loro.
Descritta così, questa guerra è già stata vinta da loro. Così
come era già vinta dai nazisti la guerra contro gli ebrei quando gli ebrei
erano costretti a rinchiudersi unicamente nella loro identità ebraica, sotto
l’attacco feroce del fanatismo nazista, che li perseguitava in quanto ebrei,
togliendo loro la libertà di essere altro, cittadini liberi, agnostici,
scettici, nichilisti, indifferenti, edonisti, o qualsiasi altra cosa. Se io
adesso, per difendere la democrazia, devo essere schiacciato sulla mia
“identità” occidentale, sui miei “valori” occidentali, perdo la libertà di
essere altro. E quindi “loro”, in questa arcaica e grottesca logica
amico-nemico, hanno già vinto la guerra: la loro interpretazione diventa anche
la mia. Io perdo la libertà di mantenere separati gli ambiti, la lucidità di
ragionare con cautela e distinguere. La civiltà europea è minacciata, quindi
bando alle esitazioni dell’intelligenza e affrontiamo con coraggio il nemico, armiamoci
e difendiamo i “nostri” valori.
Propongo invece una moratoria, una specie di disinfestazione del
pensiero. Dovremmo bandire dal vocabolario politico e sociale alcune parole:
“Occidente”, “occidentale”; “valori”; “noi”; “loro”. E poi vedere che cosa si
può dire di quello che accade con le parole che restano.
Si può dire questo. Alcuni fanatici islamisti hanno massacrato
delle persone inermi e pacifiche, solo perché queste hanno criticato la loro
religione. Questi fanatici probabilmente vogliono mostrare anche che la libertà
e la democrazia sono un male, e vogliono distruggerle. (Avevano probabilmente
in mente una intuizione di questo genere: «la libertà di coscienza è il più
diabolico dei dogmi, perché significa che ciascuno deve essere lasciato libero
di andare all’inferno secondo la propria inclinazione». Una cosa detta qui in
un linguaggio un po’ vecchio, perché risale a qualche secolo fa, ed è stato
detto da un… ahi, come non dire qui “occidentale”? Mah, diciamo che era
europeo, che era francese, cristiano, calvinista: Théodore de Bèze, 1554. Ma
insomma, non importa da dove viene questa idea, è un’idea che ha avuto un suo
successo, in molte forme.) Quindi, dicevamo, il nemico, a quanto pare, è una
società in cui si è liberi di pensarla come si vuole, in cui tutto è
dissacrabile, in cui un gruppetto di disegnatori e giornalisti brillanti può
mettere alla berlina Maometto, insieme a tutto il resto (il Papa, il Presidente
ecc.). Una società quindi in cui non c’è autorità consacrata per definizione
superiore agli individui in carne e ossa. In cui possono convivere persone con
sensibilità morali molto diverse, coscienze religiose e caustici spiriti
liberi, e riescono a stare a fianco perché, è vero, hanno un po’ “buttato giù”
le loro credenze, hanno accettato l’idea che si può vivere anche se esistono al
mondo persone che quelle credenze le esecrano. E accettano di incrociarle,
queste persone diverse, di conviverci, di farci persino delle cose insieme.
Quindi una società in cui è possibile vivere anche se il totem della propria
identità non viene continuamente alimentato da sacrifici umani. Forse, in
questa pratica terra terra di bricolage morale, di accomodamenti e compromessi,
di vite buone inventate alla meno peggio, anche provando le vie più contraddittorie,
di ricerca del benessere quotidiano, di paura di essere troppo duri e troppo
autoritari, dal momento che non si sa bene perché lo si dovrebbe fare, a che
fine, con quale vantaggio, beh, forse in questa società traluce un sentimento
di pietà per l’inettitudine umana, per la sua inadeguatezza, per il suo bisogno
di essere rispettata nell’instabilità del desiderio e della sofferenza. E
quindi questa pietà senza enfasi coltiva l’illusione di un mondo più vivibile,
meno spigoloso, in cui non ci si debba scontrare furiosamente per affermare i
grandi… ah, qui bisognerebbe mettere “valori”, ma non si può, quindi metto
“obbiettivi”, più neutro. Ma perché un obbiettivo dovrebbe comportare il
sacrificio della vita di una persona?
Messo così, mi piace questo mondo. È il mondo dell’aldiquà, ma
senza chiedere a tutti di diventare atei. Chiediamo semplicemente a tutti di
non massacrarci gli uni con gli altri. Ed è anche il mondo dell’equilibrio
macchinoso, instabile, difettoso, della democrazia liberale. Di questa congiunzione
difficile tra due parole, democrazia e liberalismo, che hanno chiesto il
sacrificio di cinquanta milioni di morti (almeno) per essere unite. La
democrazia è dimessa, è poco appetibile, è grigia, e poi è anche sempre
inadempiente. Le abbiamo capite queste cose, tutti i raffinati critici della
democrazia ce lo hanno ricordato in tutti i modi. E la libertà individuale è
atomizzante, favorisce il capitalismo e la ricerca sfrenata del benessere ecc.,
abbiamo capito anche tutte queste belle cose. Però quando ti confronti con i
veri nemici di questo mondo (quello che ho cercato di descrivere), e cioè con i
veri nemici della democrazia, cioè della vita vivibile nell’immanenza,
nell’aldiquà in attesa di sapere come finirà di là, ti rendi conto che queste
critiche o sono chiacchiere o sono fiancheggiatrici. E qui capisco che
linguaggio possiamo parlare, finalmente. Se ci sono dei nemici da combattere,
con i mezzi che la ragione (accesa dalla pietà per la vita, sì, ma sempre
ragione, lucida e analitica) ci consiglia, sono i nemici della democrazia. Cioè
i nemici di una società in cui l’istanza ultima sono gli esseri umani dati, in
carne e ossa, e non qualche idea generale che si spaccia per qualcos’altro con
nomi altisonanti. Questi nemici non sono necessariamente islamici, né
necessariamente religiosi. L’intelligenza si vergogna di se stessa, dopo le
esperienze storiche del Novecento, a dover ancora ricordare questo.
Belle parole, mi si dirà, ma se ti attaccano devi rispondere.
D’accordo. “Porgi l’altra guancia” è un principio morale molto discutibile.
Soprattutto, non è un principio di giustizia. Mentre è in nome di una idea di
giustizia che vogliamo difendere una società democratica e liberale. Però
bisogna rispondere sfuggendo alla logica amico-nemico, e alla contrapposizione
noi-loro (parole, appunto, che non avrei dovuto pronunciare). Se il nemico è
chi vuole distruggere la democrazia con la violenza e con l’imposizione di un
ordine etico coatto, le risposte, anche con l’uso della forza, sono dettate
dalla democrazia stessa: ciò che deve essere combattuto, nelle pratiche, e dove
occorre anche con la legge, con l’uso della forza pubblica (all’interno degli
stati), e con l’uso della forza militare (all’esterno, nel diritto
internazionale), non è la religione, non è l’Islam, ma è ogni condotta che
violi il principio dell’eguale rispetto di individui liberi, intesi
concretamente, come persone in carne e ossa. Se i cittadini delle democrazie
liberali, quelle più vecchie, ma anche quelle più giovani che si stanno formando
con grandi tensioni in parti del mondo esterne al cosiddetto “Occidente”,
prendono coscienza che questa è la posta in gioco, allora cade la retorica
della “debolezza etica” della democrazia. Questo è il mondo etico che
difendiamo: la vita delle persone concrete, la convivenza confusa di vite
diverse, e anche la ricerca del benessere, di queste persone concrete. Se ci
crediamo, non ne facciamo una crociata. E non dividiamo di nuovo il mondo
secondo “culture”, “religioni” e “civiltà” (altra parola da bandire), non
cadiamo nella logica del nostro nemico, non ci facciamo imporre da lui
un’identità. Ma guardiamo il mondo nella sua particolarità.
(Torino,
8 gennaio 2015)
Internazionale, Igiaba
Oggi mi hanno
dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico
Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del
profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io
non ci sto.
“Not in my
name”, dice un famoso slogan, e oggi questo slogan lo sento mio come non mai.
Sono stufa di essere associata a gente che uccide, massacra, stupra, decapita e
piscia sui valori democratici in cui credo e lo fa per di più usando il nome
della mia religione. Basta! Non dobbiamo più permettere (lo dico a me stessa,
ai musulmani e a tutti) che usino il nome dell’islam per i loro loschi e
schifosi traffici.
Vorrei che
ogni imam in ogni moschea d’Europa lo dicesse forte e chiaro. Sono stufa di
veder così sporcato il nome di una religione. Non è giusto. Come non è giusto
veder vilipesi quei valori di convivenza e pace su cui è fondata l’Unione
europea di cui sono cittadina. Sono stufa di chi non rispetta il diritto di
ridere del prossimo. Stufa di vedere ogni giorno, da Parigi a Peshawar,
scorrere sangue innocente. E ho già il voltastomaco per i vari xenofobi che
aspettano al varco. So già che ci sarà qualcuno che userà questo attentato
contro migranti e figli di migranti per qualche voto in più. C’è sempre qualche
avvoltoio che si bea delle tragedie.
È così a ogni
attentato.
A ogni
disgrazia cresce il mio senso di ansia e di frustrazione. A ogni attentato
vorrei urlare e far capire alla gente che l’islam non è roba di quei tizi con
le barbe lunghe e con quei vestiti ridicoli. L’islam non è roba loro, l’islam è
nostro, di noi che crediamo nella pace. Quelli sono solo caricature, vorrei
dire. Si vestono così apposta per farvi paura. È tutto un piano, svegliamoci.
Per questo
dico che mi hanno dichiarato guerra. Anzi, ci hanno dichiarato guerra.
Questo attentato non è solo un attacco alla
libertà di espressione, ma è un attacco ai valori democratici che ci tengono
insieme. L’Europa è formata da cittadini ebrei, cristiani, musulmani, buddisti,
atei e così via. Siamo in tanti e conviviamo. Certo il continente zoppica, la
crisi è dura, ma siamo insieme ed è questo che conta. I killer professionisti e
ben addestrati che hanno colpito Charlie Hebdo vogliono il caos. Vogliono
un’Europa piena di paura, dove il cittadino sia nemico del suo prossimo. E in
questo vanno a braccetto con l’estrema destra xenofoba. Tra nazisti si
capiscono. Di fatto vogliono isolare i musulmani dal resto degli europei.
Vogliono vederci soli e vulnerabili. Vogliono distruggere la convivenza che
stiamo faticosamente costruendo insieme.
Trovo
bellissimo che alla moschea di Roma alla fine del Ramadan, per l’Eid, ci siano
a festeggiare con noi tanti cristiani ed ebrei. Ed è bello per me augurare agli
amici cristiani buon Natale e agli amici ebrei happy Hanukkah. È bello farsi
due risate con gli amici atei e ridere di tutto. Si può ridere di tutto, si
deve. Ecco perché questo attentato di oggi è così pauroso. Fa male sapere che
degli esseri umani siano stati uccisi da una mano vigliacca perché volevano
solo far ridere, ma fa male anche capire il disegno che c’è dietro, ovvero una
volontà di distruzione totale.
Una
distruzione che sapeva chi e cosa colpire.
Niente è
stato casuale. Sono stati spesi molti soldi da chi ha organizzato il massacro.
Sono stati scelti uomini addestrati. È stato scelto un target, la redazione di
un giornale satirico, che era sì un target simbolico, ma anche facile da
attaccare. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli. D’altronde una
dichiarazione di guerra lo è sempre. Chi ha compiuto questo attentato sa cosa
produrrà. Sa il delirio che si sta preparando. Allora se siamo in guerra si
deve cominciare a pensare come combatterla. In questi anni la teoria della
guerra preventiva, dell’odio preventivo, delle disastrose campagne di Iraq e
Afghanistan hanno creato solo più fondamentalismo.
Forse se si vuole vincere questa guerra contro il terrorismo
l’Europa si dovrà affidare a quello che ha di più forte, ovvero i suoi valori.
Chi ha ucciso sa che si scatenerà l’odio. Ora dovremmo non cascare in questa
trappola. Ribadire quello che siamo: democratici. Ha ragione la scrittrice
Helena Janeczek quando dice cheliberté,
égalité, fraternité è
ancora il motto migliore per vincere la battaglia. E i musulmani europei
ribadendo il “Not in my name” potranno essere l’asso nella manica della
partita. L’Europa potrà fermare la barbarie solo se i suoi cittadini saranno
uniti in quest’ora difficile.
Io non mi dissocio
Karim Metref
Karim Metref
Karim Metref, educatore e blogger che vive a Torino, ha scritto
una lettera di risposta a questo articolo (http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2015/01/07/non-in-mio-nome) di
Igiaba Scego.
http://www.internazionale.it/opinione/karim-metref-2/2015/01/09/io-non-mi-dissocio
http://www.internazionale.it/opinione/karim-metref-2/2015/01/09/io-non-mi-dissocio
Cara Igiaba,
in questi giorni saremo messi sotto torchio e le prossime campagne elettorali saranno fatte sulla nostra schiena. Gli xenofobi di tutta Europa vanno in brodo di giuggiole per la gioia e anche gli establishment europei che non hanno risposte da dare per la crisi saranno contenti di resuscitare il vecchio spauracchio per far rientrare le pecore spaventate nel recinto.
Da ogni parte ci viene chiesto di dissociarci, di scrivere che noi stiamo con Charlie, di condannare, di provare che siamo bravi immigrati, ben integrati, degni di vivere su questa terra di pace e di libertà.
Ebbene, anche se ovviamente condanno questo atto come condanno ogni violenza, non mi dissocio da niente. Non sono integrato e non chiedo scusa a nessuno. Io non ho ucciso nessuno e non c’entro niente con questa gente. Altrettanto non possono dire quelli che domani dichiareranno guerra a qualcuno in nome di questo crimine.
Tu dici: “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Io con questa gente sono in guerra da trent’anni. Li affrontavo con i pugni all’epoca dell’università e con le parole e con le azioni da allora e fino a oggi. Sono trent’anni che li combatto e sono trent’anni che il sistema della Nato e i suoi alleati li sostengono regolarmente ogni dieci anni per fomentare una guerra di qua o di là.
Anche io sono afroeuropeo, sono originario di un paese a maggioranza musulmana ma non mi considero un musulmano: non sono praticante, non sono credente. Ma anche io non ci sto. Non ci sto con questi folli, non ci sto quando lo fanno a Parigi ma non ci sto nemmeno quando lo fanno a Tripoli, Malula o a Qaraqush.
Non sto con loro e non sto con chi li arma un giorno e poi li bombarda il giorno dopo. Non ci sto in questa storia nel suo insieme e non solo quando colpisce il cuore di questa Europa costruita su “valori di convivenza e pace”. Perché dico che questa Europa deve essere costruita su valori di pace e convivenza anche altrove, non solo internamente (ammesso che internamente lo sia).
Tu dici che questo non è islam. Io dico che anche questo è islam. L’islam è di tutti. Buoni o cattivi che siano. E come succede con ogni religione ognuno ne fa un po’ quello che vuole. La adatta alle proprie convinzioni, paure, speranze e interessi. Nelle prossime ore, i comunicati di moschee e centri islamici arriveranno in massa, non ti preoccupare. Tutti (o quasi) giustamente si dissoceranno da questo atto criminale. Qualche altro Abu Omar sparirà dalla circolazione per non creare imbarazzo a nessuno. La Lega e altri avvoltoi si ciberanno di questa storia per mesi, forse per anni. E noi ci faremo di nuovo piccoli piccoli, in attesa della fine della tempesta. Come stiamo facendo dopo questi attentati (forse) commessi da quella stessa rete che la Nato aveva creato per combattere una sua sporca guerra.
Loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente. Io devo pretendere delle scuse. Io devo chiedere a questi signori di dissociarsi, definitivamente, non ad alternanza, da questa gente: amici in Afghanistan e poi nemici, amici in Algeria e poi nemici, amici in Libia e poi… non ancora nemici lì ma nemici nel vicino Mali, amici in Siria poi ora metà amici e metà nemici… Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.
in questi giorni saremo messi sotto torchio e le prossime campagne elettorali saranno fatte sulla nostra schiena. Gli xenofobi di tutta Europa vanno in brodo di giuggiole per la gioia e anche gli establishment europei che non hanno risposte da dare per la crisi saranno contenti di resuscitare il vecchio spauracchio per far rientrare le pecore spaventate nel recinto.
Da ogni parte ci viene chiesto di dissociarci, di scrivere che noi stiamo con Charlie, di condannare, di provare che siamo bravi immigrati, ben integrati, degni di vivere su questa terra di pace e di libertà.
Ebbene, anche se ovviamente condanno questo atto come condanno ogni violenza, non mi dissocio da niente. Non sono integrato e non chiedo scusa a nessuno. Io non ho ucciso nessuno e non c’entro niente con questa gente. Altrettanto non possono dire quelli che domani dichiareranno guerra a qualcuno in nome di questo crimine.
Tu dici: “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Io con questa gente sono in guerra da trent’anni. Li affrontavo con i pugni all’epoca dell’università e con le parole e con le azioni da allora e fino a oggi. Sono trent’anni che li combatto e sono trent’anni che il sistema della Nato e i suoi alleati li sostengono regolarmente ogni dieci anni per fomentare una guerra di qua o di là.
Anche io sono afroeuropeo, sono originario di un paese a maggioranza musulmana ma non mi considero un musulmano: non sono praticante, non sono credente. Ma anche io non ci sto. Non ci sto con questi folli, non ci sto quando lo fanno a Parigi ma non ci sto nemmeno quando lo fanno a Tripoli, Malula o a Qaraqush.
Non sto con loro e non sto con chi li arma un giorno e poi li bombarda il giorno dopo. Non ci sto in questa storia nel suo insieme e non solo quando colpisce il cuore di questa Europa costruita su “valori di convivenza e pace”. Perché dico che questa Europa deve essere costruita su valori di pace e convivenza anche altrove, non solo internamente (ammesso che internamente lo sia).
Tu dici che questo non è islam. Io dico che anche questo è islam. L’islam è di tutti. Buoni o cattivi che siano. E come succede con ogni religione ognuno ne fa un po’ quello che vuole. La adatta alle proprie convinzioni, paure, speranze e interessi. Nelle prossime ore, i comunicati di moschee e centri islamici arriveranno in massa, non ti preoccupare. Tutti (o quasi) giustamente si dissoceranno da questo atto criminale. Qualche altro Abu Omar sparirà dalla circolazione per non creare imbarazzo a nessuno. La Lega e altri avvoltoi si ciberanno di questa storia per mesi, forse per anni. E noi ci faremo di nuovo piccoli piccoli, in attesa della fine della tempesta. Come stiamo facendo dopo questi attentati (forse) commessi da quella stessa rete che la Nato aveva creato per combattere una sua sporca guerra.
Loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente. Io devo pretendere delle scuse. Io devo chiedere a questi signori di dissociarsi, definitivamente, non ad alternanza, da questa gente: amici in Afghanistan e poi nemici, amici in Algeria e poi nemici, amici in Libia e poi… non ancora nemici lì ma nemici nel vicino Mali, amici in Siria poi ora metà amici e metà nemici… Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.
• Karim Metref è un educatore e blogger che vive a Torino.
ELENA LOEWENTHAL
Io non sono Charlie.
Nessuno di noi lo è più, ormai. Se le manifestazioni di massa tanto sulla
piazza reale quanto su quella della rete hanno unanimamente scandito questa
identificazione, c’è qualcosa di profondo e profondamente ferito che stona in
tutto questo.
Io non sono Charlie perché fra chi è vivo e chi è morto ammazzato
da una raffica di spari in nome di Allah c’è un abisso di differenza, e tutti
noi vogliamo fermamente non essere Charlie. E c’è da scommettere che se Charlie
potesse parlare, direbbe: «Guarda che fra voi che siete vivi e noi che siamo
stati uccisi c’è una bella differenza!». E magari ci farebbe una vignetta.
Ma io non sono Charlie soprattutto
perché non siamo tutti vignettisti irriverenti come Wolinski, non siamo tutti
economisti terzomondisti come Bernard Maris, non siamo tutti poliziotti come
Ahmed Merabet. Il fondamento della libertà, quella di essere e quella di
esprimersi, sta nel riconoscere che il mondo non è tutto uguale e noi nemmeno,
anzi. L’uguaglianza non è un valore, lo è invece la parità: di essere e di
esprimersi nella diversità che ci caratterizza in quanto individui. E’ proprio
il fanatismo che propugna invece l’eguaglianza assoluta: come scrive Amos Oz,
il fanatico è così generoso che, dopo aver scoperto dove sta la giustizia,
vorrebbe portarci tutti. Vuole, anzi, che tu sia come lui che sta dalla parte
giusta ed è disposto a ucciderti, pur di renderti uguale a lui.
Per il fanatico, siamo tutti Charlie. Ma non è così, perché forse
il più grande valore di questa nostra cultura colpita al cuore sta proprio nel
riconoscimento che il mondo è vario. E’ persino bello, perché è vario. La
nostra cultura è fatta di volti e opinioni diverse, si definisce nella sua
multiformità e nella libertà di essere tutti gli uni diversi dagli altri. Io non sono Charlie. Non sono un
vignettista. E magari neanche apprezzo l’irriverenza di Charlie. Ma rivendico
il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in
piazza, gridare sulla rete.
Così, le matite alzate in piazza e gli hashtag virali, al di là
delle buone e doverose intenzioni, tradiscono una specie di equivoco. E’
semplice, diretto, identificarsi nelle vittime. Ha una grande energia
comunicativa. Ma è un cammino rischioso. Quanti
di coloro che l’hanno scandito sarebbero stati disposti a fare lo stesso il
giorno prima, quando Charlie era ancora vivo e disegnava? Dobbiamo imparare
a tracciare i confini della nostra identità e a dare alla libertà il peso che
merita non soltanto per i morti, anche per i vivi. Non per un demagogico scatto
d’orgoglio in stile scontro di civiltà, ma per una questione morale più
profonda. Quella che ci riguarda tutti in quanto individui di una società che
trova il suo valore principale nella diversità di ciascuno e nel rispetto di
questa diversità, non in un amalgama
uniforme incapace di distinguere i morti dai vivi. Se per il fanatismo siamo
tutti uguali – morti o vivi, vignettisti o poliziotti, proprio perché non siamo
Charlie dobbiamo difendere strenuamente il diritto di Charlie alla sua libertà,
che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui.
loewenthal@tin.it
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