L’inizio di questo discorso era, fino a questa
mattina, alla fine. Poi mi è venuto l’impulso, l’estro, di fare una capriola.
Come Dante (che oggi sarà una presenza fondamentale) al fondo dell’inferno per
poter vedere le stelle. Non so se vi farò vedere le stelle, dato che non sono
certo il soggetto più adatto ad additarvele (sono uno di quelli che vedono
dappertutto solo il carro), ma so di aver fatto una capriola. Al fondo del
discorso c’era questa memoria redatta dalla Fondazione Giovanni Agnelli per
l'audizione sul Ddl 2994 di Riforma del sistema di istruzione e
formazione", 7 aprile 2015, che recita così: “"Il docente del XXI
secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di qualità
didattico-disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista che deve
saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola autonoma,
contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e impegnarsi nella
manutenzione delle proprie competenze". La pongo all’inizio, facendo appunto
una capriola, perché è importante voi sappiate una cosa: oggi, adesso, vi
parlerà qui un appassionato affabulatore, non necessariamente erudito, non in possesso
di qualità didattico disciplinari innate straordinarie, ma certo non un
aziendalizzato professionista, non uno impegnato nella manutenzione delle sue
competenze (tra parentesi, la mia dimestichezza con gli oliatori è molto
ridotta, non saprei nemmeno come usarli).
Zone temporaneamente autonome, spazi di felicità.
Alternative possibili al pensiero
dominante
T.A.Z. - the
temporary autonomous zone, ontological anarchy, poetic terrorism (Autonomedia, 2003 – edizione rivista
dell'originale del 1995), di Hakim Bey
Avevamo
pensato, Paola Valpreda e io, di parlare insieme oggi di zone temporaneamente
autonome, spazi di felicità, alternative possibili al pensiero dominante. Lo
spunto per farlo proveniva, proviene (posso farmi portavoce del suo pensiero)
dal profondo: dopo anni di insegnamento, entrambe sentiamo di combattere una
battaglia sempre più feroce contro un muro invisibile, ma non perciò meno
opprimente e meno difficile da abbattere d’un muro di mattoni come quello che
circonda un carcere. L’analogia fra scuola e carcere non è nuova. Se è vero,
come scriveva Dostoeskij, che il grado di civilizzazione di un paese si misura
dallo stato delle sue prigioni, è anche vero che luoghi che dovrebbero
collocarsi ai loro antipodi sono le scuole. Su entrambi i fronti la nostra
società è fallimentare e il suo grado di civiltà può essere considerato vicino
allo zero: dietro al muro della prigione, ci verrà a raccontare tra circa
un’ora un maestro che da trent’anni è “dentro”, succede di tutto, tutto quello
che noi stentiamo a immaginare o, comunque, non vorremmo mai vedere. D’altro
canto, possiamo dire unitamente noi, intendo studenti e alcuni insegnanti
insieme, l’organizzazione scolastica è rimasta nel tempo, dal Settecento (quando se
ne lamentavano gli illuministi) a oggi sostanzialmente invariata, plasmata su
un modello carcerario, fatto di campanelli che scandiscono l’andamento della
giornata, di costrizioni del pensiero e dell’immaginazione che invece lo studio
dovrebbe stimolare e alimentare per aiutare a essere persone, cittadini
attenti, vivaci, profondi, interessati agli altri, al mondo a se stessi nel
modo più proficuo per sé e per gli altri. Delle zone temporaneamente autonome,
frutto della teorizzazione di Hakim Bey, non parlerò perché sono argomento
appunto di Paola. Posso accennare alla loro essenza, alla loro anima: le zone
temporaneamente autonome sono spazi in cui i pacefondai (non è un neologismo) creano possibili felicità.
Sono luoghi in cui il corpo, il pensiero e la parola rappresentano un circuito
integrato, sensitivo, forse sensuale, in
grado di impegnare la totalità dell’essere: esperienze olistiche, per
riassumere.
Oggi supererò
me stessa in fatto di premesse. Questa è infatti solo la prima. Ora viene la
seconda (e il dubbio è che non finiscano mai, sia solo un inanellarsi di premesse…)
“Cosa ci volete fare se
avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti,
all’improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste
d’un tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi
bruciasse dentro, spandendo una pioggerellina di scintille in ogni intima
fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi? (K. Mansfield, Racconti, Felicità)
Leggo sempre questo stralcio dal racconto
della Mansfield, scrittrice neozelandese vissuta fra il 1888 e il 1923 quando voglio parlare di felicità. Non
solo per la diretta pertinenza del titolo, ma proprio per questo singolo
periodo, che mi piace recitare come un mantra, parola sanscrita che significa (più
o meno) preghiera nella filosofia buddista. Luce che brucia intensamente,
pioggia che pervade ogni intima fibra, nessuno spazio vuoto, pienezza dell’io, carpe diem correttamente inteso. La
felicità ha dunque a che vedere necessariamente con la libertà interiore, e
anche l’arte, nelle sue svariate declinazioni, certo non ne
può prescindere. Anzi lei ha sempre bisogno di libertà e in tutte le occasioni
storiche in cui questa sia venuta meno, per ragioni politiche o per via di decadenza
culturale, ha subito arresti di sviluppo, stagnazioni.
Si
potrebbe pensare che la libertà interiore sia inattaccabile, che il ferro
rovente del controllo, della censura, non possa addentrarsi nelle pieghe
dell’anima, ma è facilmente dimostrabile che questo non è vero. Tant’è, che nel
Novecento artisti italiani, tedeschi, dell’Unione Sovietica sono emigrati dai
loro Paesi all’interno dei quali
vigevano meccanismi di controllo autoritario della cultura, per cercare altrove
possibilità di esprimersi. Altrove. Ecco un punto che non toccherò direttamente
oggi, ma resterà in controluce: dove potrebbe essere l’altrove in cui scappare,
oggi, per trovare la libertà che cercavano lo scrittore Thomas Mann in fuga dal
totalitarismo hitleriano o il
violoncellista Rostropovich da quello sovietico. Forse l’altrove sono le zone
temporaneamente autonome, di cui ci parlerà un’altra volta Paola. Il tema però
aleggia anche fra noi che oggi parleremo
di felicità, di libertà, di arte. Di
ciascuna in sé e di qualche interrelazione: parleremo anche di sport e di
politica, guarderemo con occhi di altri,
e sperimenteremo sensibilità di uomini e donne profondamente liberi, ossia
liberi nel profondo, e per questo capaci, degni di parlare di libertà. Sono scelti, tengo a precisare, per onorare la giornata, pensando a Piero Gobetti. Non rientra fra i
miei numi tutelari, ognuno ha il suo daimon, ed è lui a ispirare le scelte originarie che poi durano per tutta la vita,
ma ha scritto un pensiero in merito alla libertà che mi sembra importante
porre, insieme alla Mansfield, all’inizio di questa chiacchierata (terza e
ultima premessa):
“La nuova critica liberale deve
differenziare i metodi, negare che il
liberismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con
l'azione storica dei ceti che vi sono interessati. In Italia, dove le
condizioni sia economiche che politiche sono singolarmente immature, le classi
e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere
una minoranza e di preparare al paese un avvenire migliore con un'opposizione
organizzata e combattiva. Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici,
interessati al parassitismo dei padroni, né
i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che
vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la
libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro
cooperative. Poiché il liberalismo non è
indifferenza né astensione ci aspettiamo che per il futuro i liberali, individuati i loro nemici eterni, si
apprestino a combatterli implacabilmente» (Piero Gobetti, La
lotta politica in Italia, in «La Rivoluzione Liberale», 1924). [dietro a
siderurgici e latifondisti leggi multinazionali, dietro a riformisti e
socialisti vedi la faccia di Renzi]
Adesso però basta. Ora il vero inizio.
Che noia il paradiso. No, non quello di Dante, non la III cantica che
secondo Croce non sarebbe stata poetica. No, sono convinta che nel Paradiso di Dante ci sia tanta poesia, e
che da questo non possa sortire noia, come
è facile dimostrare recitando un paio di
terzine, magari non del tutto a caso: (canto XV del Paradiso)
Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; 33
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; 33
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Sì, non del tutto a caso: gli occhi sono importanti. Ma prima
c’è la questione della noia. La noia del paradiso è l’eterna beatitudine.
Quella pretesa che si possa trovare felicità nell’essere in stato di quiete,
nell’assenza di desideri, nella luce eterna. Nello sguardo rivolto eternamente
all’Uno. E noi? Noi lì da chi verremmo guardati? Perché, è inutile,
“tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi.
A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere
suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un
numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un
pubblico. [...] La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno
bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti [...] C'è poi la terza
categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli
occhi della persona amata [...] E c'è infine una quarta categoria, la più rara,
quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti.
Sono i sognatori.” (M. Kùndera, L’insostenibile leggerezza dell’essere).
Voglio oggi evocare, sotto lo sguardo di
persone assenti, di sognatori di ieri e di oggi, morti, vivi, mai nati, sognati
da qualcun altro, un paradiso non di luce, non di sorrisi, ma pieno di ombre
sinestetiche, ombre dall’eco oscura, che immagino collocate nel quinto cielo,
quello di Marte, degli spiriti battaglieri, gli spiriti indomiti, abitati da
quello di memoria giovannea, spiritus ubi
vult spirat, mai disposti a guardare in un’unica direzione, fosse anche
quella in cui si trova “colui che tutto
move”, l’eterno, colui che non può essere circoscritto.
Nel mio paradiso c’è Socrates. No, non l’uomo satiro inventore del
libero pensiero, non il protagonista d’una crisi sacrificale messa in scena
alla fine del V secolo a.C. nella democratica Atene, bensì uno al quale un
padre autodidatta e onnivoro lettore decise di trasmettere un nome che fosse un omen, riuscendoci
egregiamente. Il Socrates del mio V cielo nacque a Belèm, nello stato del Parà in Brasile il 19
febbraio 1954 e morì domenica 3 dicembre 2011, nel giorno triste così felice,
in cui la sua squadra vinse il campionato. Raimundo Vieira, suo padre, aveva frequentato
la scuola fino alla seconda elementare, quanto bastò per individuare nella
lettura la chiave di volta della sua vita. Da autodidatta, riuscì a compiere un
percorso di studio e professionale, divenendo
impiegato del settore pubblico,
appassionandosi di filosofia, particolarmente di quella greca (Socrates,
Sostene e Sofocle sono i nomi che dà ai
primi tre dei suoi sei figli, poi la moglie s’impunta, minaccia il divorzio, e riesce a dare nomi più comuni,
Raimundo per esempio, agli altri tre figli).
Il
Brasile, all’epoca dell’infanzia e giovinezza di Socrates, è un paese in
fermento: nel 1967 l’approvazione della sesta costituzione istituzionalizza il
golpe militare: il generale Emilio
Garrastazu Medici, eletto presidente, lancia il cosiddetto “miracolo
economico”, aprendo il paese alle industrie di elettrodomestici e
automobilistiche straniere; con il benestare della Cia viene avviato un
programma di repressione (le manifestazioni contro di lui erano massicce e
portavano in piazza studenti, giornalisti, operai, la base della chiesa
cattolica, le organizzazioni delle donne e gli artisti) denominato Operação
Bandeirante (OBAN), e aperti i primi due
centri segreti di tortura. Nel frattempo, gli occhi dell’Occidente sono rivolti
alla Luna (tra parentesi: penso fosse una fase comunque più evoluta di questa
che viviamo ora: almeno guardavano la luna, oggi ci fermiamo al dito, quello che
la indica, naturalmente). Noi però non ci facciamo distrarre e ritorniamo a Socrates,
per capire come faccia a meritarsi di stare nel cielo del sole di Dante. Socrates,
figlio d’un padre che non ama il calcio, s’appassiona di questo sport, del
quale ebbe a dire:
“il nostro calcio è creatività, è
allegria. A volte anche irriverenza, irresponsabilità. Nei nostri passaggi, nei
nostri dribbling c’è l’istinto della danza,
l’energia della capoeira, con cui, a ogni gesto, ammorbidiamo gli spigoli coi
quali gli inglesi hanno pensato questo gioco. Il nostro calcio non è iniziato con la prima partita, piena di
regole e di limiti. È iniziato a piedi nudi sulla sabbia. Con le catene alle
caviglie. È iniziato da un gesto di libertà, da un desiderio di fuga, non
d’imposizione. Il nostro calcio è ribelle a ogni ordine interno ed esterno,
agli eccessi di uniformazione, di geometrizzazione, di standardizzazione, ed è
ribelle ad ogni totalitarismo che rischia di far scomparire la spontaneità
dell’individuo. Il nostro calcio non può sottostare a un metodo scientifico,
alla dittatura della tattica nella quale il singolo è perno di un ingranaggio
perfetto ma privo di anima. Il nostro calcio non è figlio della rivoluzione
industriale, è figlio della pioggia sulla pelle, di un pallone fatto di stracci
e di una spiaggia, di gioventù senza fine. Il nostro calcio è un insieme di
individualità che brillano una di fianco all’altra, ma, ciascuna, di luce
propria. […] Se l’immaginazione andasse al potere, pensava John Lennon, il
mondo sarebbe migliore. John Lennon, un grande inglese, l’unico estraneo per
cui ho pianto. È esattamente come lui che la penso, dentro e fuori dal campo:
la capacità d’immaginare è la nostra energia sovversiva”.
A ognuno il suo dio, la sua immaginazione di
dio: quello di Socrates, che lui contempla nel mio quinto cielo, ha sicuramente
la forma di un pallone di stracci. Socrates nella vita fa dunque il calciatore,
ma studia anche con profitto medicina: la sua squadra, quella con la quale si merita
la collocazione paradisiaca, sono i Corinthians di San Paolo. Con loro compie
un esperimento democratico, la democrazia corinthiana. La squadra giocava
per musica, racconta chi l’ha vista esibirsi. Senza aggressività, il
Corinthians da squadra allo sbando divenne presto un riferimento nazionale che
non si lasciò sfuggire la possibilità di parlare ai suoi tifosi il linguaggio
della politica. “Volevamo far capire
alla gente che sarebbe stato molto interessante un cambiamento”, racconta Zenon,
compagno di squadra di Socrates. Un cambiamento nella forma del gioco,
nell’organizzare quella piccola collettività di atleti e intellettuali, nel
modo di intendere il calcio e le relazioni umane e, in ultimo, un cambiamento
generale che investiva tutto il paese: nelle elezioni per il presidente della
Repubblica, che il popolo brasiliano cominciava a chiedere. E così, al posto
degli sponsor, sulle loro maglie i Corinthians sfoggiano messaggi politici,
inviti alla democrazia e al voto. Quando, nel 1984, Socrates legò la propria permanenza
nella squadra e in Brasile all’approvazione di un emendamento costituzionale
per ristabilire libere elezioni che fu bocciato (per una manciata di voti),
terminò la grande avventura. Socrates compie il suo gesto socratico: ha inizio
l’ultima fase della sua vita, un breve esilio
fiorentino, durato un anno, al termine del quale ritornò in Brasile per
ritirarsi definitivamente dal calcio nel 1988. “Mondiali per chi”
scriverà ancora nel 2011, poco prima di morire, il dottor Socrates, a fronte
della notizia che il Brasile avrebbe ospitato nel 2014 il grande (per lui
sfortunatissimo) evento calcistico:
“Mondiali
per chi? Per chi farà sentire la sua voce, per chi occuperà le strade,
chiedendo sanità, istruzione, trasporti invece dell’oppio d’un pallone. Quel
che ho detto adesso è quel che ho sempre detto, con il pugno chiuso, con il
sorriso, senza fare mai un passo indietro. Le mie sono parole pronte a
rinascere in altre voci. Perché se il mio corpo si è fermato, le mie idee
possono continuare a fluire come il vento o come la passione, che permette alla
gioia e al dolore di condividere lo
stesso spazio. E farci capire che le lacrime sono, o dovrebbero essere, i semi
della felicità”.
Nel
mio quinto cielo eleggerei poi una collettività, che si è data un nome singolo.
Una trovata degna di un appassionato di ossimori, ma soprattutto di qualcuno,
di alcuni, e spero che sappiano come moltiplicarsi, che il senso dell’ironia
applicato al mondo attuale porta a seguire strade inedite, completamente nuove,
sovvertitrici nel senso più puro del
termine.
America
del sud, tra le montagne della Sierra Madre, in Messico, in una zona
complicata, San Cristòbal de Las Casas,
Chiapas. Lì continua a prendere forma una realizzazione, non un progetto
badate, rivoluzionaria che non ha eguali nel mondo attuale. Una presa di potere
dal basso, guidata dal motto “comandare obbedendo”, ma anche non vendersi, non
arrendersi, non esitare. Si tratta della repubblica zapatista, in cui sono i
villaggi a comandare, senza avanguardie, né capi, né leader. Il mitico (in Occidente) sub
comandante Marcos è il simbolo di questo: uomo che c’è e non c’è, che in passato a ogni intervista era
un altro eppure sempre lo stesso. Perché il cuore del movimento è uno, mentre i
soggetti che ne fanno parte sono tanti, com’è naturale sia in un mondo che non
vuole certo negare la diversità, che è il sale della terra, ma sostenere il
valore della giustizia.
Torniamo,
per un intermezzo, in Paradiso
Canto XXVII,
invettiva di San Pietro contro la Chiesa e il Papa
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio, 24
fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa». 27
Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso. 30
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio, 24
fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa». 27
Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso. 30
Dopo
aver visto il cielo che si tinge di
rosso, non il colore dell’indignazione
(troppo spesso fine a se stessa), non quello della vergogna (che per noi non è sufficiente), ma quello dell’ira,
rimaniamo nella stessa parte di mondo in cui si è sviluppata la storia di
Socrates. Tra la luce e l’ombra si
intitola il discorso di morte dell’ologramma denominato sub-comandante Marcos,
pronunciato nel mese di maggio del 2014 in occasione della morte di un maestro
zapatista, che si chiamava Galeano. Vi si parla di giustizia, di memoria, di
senso delle battaglie, di rapporti fra basso e alto e, naturalmente di libertà
e felicità. Ne leggo qualche passaggio.
“Noi
scegliemmo. Invece di dedicarci a
formare guerriglieri, soldati e squadroni, di preparare promotori di educazione
e di salute, e di porre le basi della nostra autonomia di cui oggi si
meraviglia il mondo. Invece di costruire caserme, migliorare il nostro
armamento, costruire muri e trincee, si costruirono scuole, ospedali e centri
di salute, migliorammo le nostre condizioni di vita. Invece di lottare per
occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate dal basso,
scegliemmo di costruire la vita.
Tutto questo nel mezzo di una guerra che, anche se sorda, non era meno letale.
Perché una cosa è gridare “non siete soli” e un'altra è affrontare solo con il corpo una colonna di blindati di truppe federali, come successe nella zona di Los Altos in Chiapas, e stare a vedere se hai fortuna e qualcuno se ne accorge, e se hai un po' più di fortuna e quello che se ne accorge si indigna, e ancora un po' più di fortuna e quello che si indigna fa qualcosa. […]
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e fecero arrendere le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia quelli che occuparono senza pronunciare parole gli edifici da dove si celebrava la nostra sparizione. Il solo fatto inappellabile che l'EZLN non solo non si era indebolito, meno ancora sparito, ma che era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente intelligente si rendesse conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all'interno dell'EZLN e delle comunità.
Forse più di uno crede che sbagliammo a scegliere, che un esercito non può e non deve impegnarsi per la pace. Fu per molte ragioni certo, però la principale era ed è perché in questa forma finiremmo per scomparire.
Forse è vero. Forse ci siamo sbagliati nello scegliere di coltivare la vita invece di adorare la morte. Ma noi prendemmo la decisione non ascoltando quelli da fuori. Coloro che chiedono sempre la lotta fino alla morte, finché i morti li mettono gli altri. Scegliemmo, guardandoci e ascoltandoci, essendo lo spirito collettivo che siamo. Scegliemmo la rivolta, cioè la vita. Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dall'alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il dominio sopra di noi.
Sapevamo e sappiamo che una ed un'altra volta dovremo difendere ciò che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà a esserci la morte, perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere moriamo.
Tutto questo nel mezzo di una guerra che, anche se sorda, non era meno letale.
Perché una cosa è gridare “non siete soli” e un'altra è affrontare solo con il corpo una colonna di blindati di truppe federali, come successe nella zona di Los Altos in Chiapas, e stare a vedere se hai fortuna e qualcuno se ne accorge, e se hai un po' più di fortuna e quello che se ne accorge si indigna, e ancora un po' più di fortuna e quello che si indigna fa qualcosa. […]
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e fecero arrendere le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia quelli che occuparono senza pronunciare parole gli edifici da dove si celebrava la nostra sparizione. Il solo fatto inappellabile che l'EZLN non solo non si era indebolito, meno ancora sparito, ma che era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente intelligente si rendesse conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all'interno dell'EZLN e delle comunità.
Forse più di uno crede che sbagliammo a scegliere, che un esercito non può e non deve impegnarsi per la pace. Fu per molte ragioni certo, però la principale era ed è perché in questa forma finiremmo per scomparire.
Forse è vero. Forse ci siamo sbagliati nello scegliere di coltivare la vita invece di adorare la morte. Ma noi prendemmo la decisione non ascoltando quelli da fuori. Coloro che chiedono sempre la lotta fino alla morte, finché i morti li mettono gli altri. Scegliemmo, guardandoci e ascoltandoci, essendo lo spirito collettivo che siamo. Scegliemmo la rivolta, cioè la vita. Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dall'alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il dominio sopra di noi.
Sapevamo e sappiamo che una ed un'altra volta dovremo difendere ciò che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà a esserci la morte, perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere moriamo.
Per
finire un discorso, lo sostengo anche per gli svolgimenti scritti di
qualsivoglia tipologia, l’unica è mettere un punto. Pretendere di concludere,
lo penso sempre più vivamente, rasenta la stupidaggine. Senza contare che uno
rischia di trovarsi in paradiso, se conclude con troppa convinzione. Ma d’altronde
c’è qualcuno che l’ha detto così bene, che non bisogna concludere, ma così bene, che non solo mi viene da mettere
anche lui nel quinto cielo, ma da lasciargli la parola per chiudere il mio
divagante discorsetto.
Io odio a morte tutti coloro che si son composti e quasi
automatizzati in un dato numero di pensieri e di movimenti, paghi, tranquilli e
sicuri d'aver capito il congegno dell’universo, di aver trovato la chiave per
caricarne o scaricarne le molle, per regolarne il registro. Io li chiamo
conclusioni ambulanti. Vogliono vedere in tutto, trarre da tutto una
conclusione, dalla storia antica e moderna, da ogni avvenimento, da ogni
piccolo incidente. Amo invece ed ammiro le anime sconclusionate,
irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di
rapprendersi, di irrigidirsi in questa o in quella forma determinata. (Luigi Pirandello, Non conclude,
saggio del 1909)
Sì
anche Pirandello ce l’ha col paradiso, e io con lui. Non è a quello di Dante
che pensiamo, che emozione parlare al plurale di me e di Pirandello, mio unico
nume tutelare originario, nella dimensione letteraria intendo, ma a quel
paradiso di cui dicevo all’inizio, quello stato di quiete, quell’assenza di
desideri, quell’uniformità agghiacciante, quel mondo globalizzato, dove la
democrazia ha diffuso la schiavitù e le multinazionali hanno creato per noi una
facciata comoda di consumi dietro alla quale, edizione a nostro uso e consumo
di matrix, si cela un vero e proprio marasma commerciale. E allora non c’è che
cercare le zone temporaneamente autonome, gli spazi di felicità possibile e
persino probabile che esistono al mondo.
Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio
Alla
fine del I incontro vedremo Un uomo obsoleto,
da Ai confini della realtà
DOPO
LA VISIONE DEL FILM
Un
uomo obsoleto. Sì, come l’insegnante erudito e carismatico affabulatore. E
pretendono anche di star facendo una rivoluzione, dixit il ministro Giannini.
Rinchiudetela insieme a me in una stanza e le leggerò non la bibbia, ma questa
testimonianza di un professore della Bocconi che è andato a insegnare in una
scuola zapatista. Chissà che non chieda di uscire prima della fine, magari in
nome del sub comandante Marcos (invece che di dio, come il giudice del film Un uomo obsoleto). A quel punto la
lascerei uscire.
Facevo il professore a Milano. Adesso
insegno Matematica in Messico, nella scuola zapatista http://matematica.unibocconi.it/articoli/
Il laboratorio di sartoria dell’Università della Terra
Ho lasciato la scuola italiana (dove con grande piacere insegnavo
Matematica) per continuare a farlo, anziché nel privilegiato mondo occidentale,
in luoghi dove lo sfruttamento, l’esclusione, il disprezzo, l’ingiustizia, la
persecuzione e la conseguente miseria sono più forti.
Ho scelto il Chiapas, uno stato del sud-est messicano perché lì è nato un movimento indigeno che si oppone e resiste alle logiche della globalizzazione neoliberale. Mi sembrava che la sua conoscenza potesse insegnarmi molto.
Ho scelto il Chiapas, uno stato del sud-est messicano perché lì è nato un movimento indigeno che si oppone e resiste alle logiche della globalizzazione neoliberale. Mi sembrava che la sua conoscenza potesse insegnarmi molto.
Così,
conclusi gli ultimi impegni di lavoro nella scuola superiore di Milano, sono
arrivato nell’ottobre 2009 a San Cristobal de Las Casas. Il percorso di avvicinamento
alla realtà indigena è stato lungo, costellato di molti momenti di frustrazione
e timore di aver sbagliato strada o approccio. Alla fine, nei primi giorni di
questo mese di luglio (2010) è iniziata la mia prima esperienza di insegnamento
(taller) nel caracól di Morelia a circa 20 Km dalla città di Altamirano. Ciò
che segue è il tentativo di raccontarlo.
La marcia di
avvicinamento
Per arrivare
ad appoggiare il sistema educativo zapatista ho aspettato nove mesi. Nove mesi
passati a fare le cose più diverse: lavorare come falegname nella Università
della Terra, andare nelle comunità indigene come osservatore dei diritti umani
per documentare e denunciare attraverso murales, interviste e conferenze stampa
i frequenti assedi dei paramilitari, visitare alcune scuole statali in zona
indigena, studiare l’antica Matematica e Astronomia maya.
A San
Cristobal c’è una Università molto atipica; il Cideci (Centro Indigena de
Capacitaciòn Integral) o Università della Terra. Non riceve alcun aiuto dallo
Stato ed è un vero e proprio ponte con il mondo indigeno, in particolare quello
che si ispira allo zapatismo, per la formazione professionale. E’ una scuola
informale che assomiglia più alle università medioevali quando queste erano un
vero centro di cultura e ricerca piuttosto che, come oggi, un luogo per
produrre laureati.
Un murales fuori dalla
falegnameria del Cideci
Nei primi
giorni dell’ottobre 2009 mi sono presentato al direttore del Cideci, il dr.
Raymundo, un intellettuale coltissimo, amico del subcomandante Marcos e di
tutta la comandancia dell’EZLN. Gli ho chiesto se potevo insegnare nel suo
centro ma mi ha risposto descrivendomi piuttosto il suo funzionamento: cosa e
come si insegna. Ho capito così che, per
insegnare agli indigeni, la mia lunga esperienza di insegnante rischiava di
essere più un ostacolo che un aiuto. In questa scuola non si certifica nulla
perché il sapere non è certificabile, non si insegnano materie specifiche
perché il sapere non è a compartimenti stagni, non ci sono registri perché non
esistono prove di verifica né obblighi di presenza, non ci sono aule divise per
età o grado di avanzamento perché ognuno apprende secondo i suoi ritmi e
secondo la propria maturità. Il direttore mi ha consigliato di rivolgermi ai
caracoles dove già da anni esisteva una scuola primaria (elementare) e una
scuola secondaria (media) autonoma. Soprattutto mi ha consigliato di non avere
fretta nel realizzare il mio progetto, di frequentare l’Università della Terra
come e quando volevo, di visitare i caracoles e le comunità.
Così, per
più di un mese, ho fatto l’apprendista nella falegnameria dell’Università della
Terra sperimentando un insegnamento dove docente e alunno sono due persone che
fanno insieme lo stesso lavoro e dove i ruoli della scuola tradizionale sono
messi in discussione. In questi mesi ho partecipato, all’Università della
Terra, agli incontri settimanali di discussione chiamati “seminari” che sono
una vera e propria scuola di formazione per capire cosa avviene in Chiapas, in
America Latina e soprattutto nel mondo. Un spazio frequentato da messicani,
internazionali e indigeni e dove le esposizioni iniziali sono fatte in lingua
spagnola ma anche in tzeltal e tzotzil, due delle lingue indigene più parlate
in Chiapas.
Ho fatto la spola diverse volte in tre caracoles Oventic, Morelia e Roberto Barrios per offrire la mia disponibilità e farmi conoscere dalle commissioni educazione e dalle Giunte del Buon Governo.
Ho fatto la spola diverse volte in tre caracoles Oventic, Morelia e Roberto Barrios per offrire la mia disponibilità e farmi conoscere dalle commissioni educazione e dalle Giunte del Buon Governo.
Il primo
incontro concreto l’ho avuto a marzo dove, con la commissione educazione del
caracol di Morelia, si è pianificato un piano di lavoro che prevedeva il mio
trasferimento da una scuola all’altra ogni due settimane. Ho passato tre mesi a
preparare il materiale didattico che sarebbe servito per insegnare nel sistema
educativo zapatista.
In tutti
questi mesi, ho provato forti sentimenti di entusiasmo ma anche di sconforto.
Molte volte ho avuto l’impressione che il mio progetto, di lasciare il mio
lavoro di insegnante di Matematica in Italia, di lasciare la mia casa e i miei
affetti, fosse stata una follia.
I Caracoles e la
costruzione dell’autonomia
La lunga
attesa aveva una ragione. La maggior parte di coloro che appoggiano il sistema
educativo zapatista sono messicani. Tutti quelli che ho conosciuto hanno
cominciato a lavorare con gli zapatisti dal momento della costruzione delle
prime Aguascalientes ovvero dai primi tentativi di darsi una organizzazione
autonoma.
La scelta
dell’autonomia consisteva nell’attuare per proprio conto ciò che l’Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale aveva chiesto fin dall’inizio e cioè il
diritto di tutti gli indigeni del Messico a una casa dove vivere con la propria
famiglia, una terra e un lavoro per avere cibo, il diritto alla salute per non
morire di malattie che per noi occidentali sono un semplice fastidio come la
diarrea, il rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni e il diritto
all’educazione. Con la firma degli accordi di san Andrés, nel 1996, il governo
riconosceva tali diritti ma poi fece marcia indietro. Di fronte a questo
tradimento l’EZLN ha risposto avviando un processo di costruzione di una
autonomia in tutti i campi. Si trattava di costruire una società nuova partendo
dal basso, senza utilizzare le risorse tipiche di uno stato, ma soprattutto, di
dare il potere al popolo senza prendere il potere, in una situazione di grande
incertezza, sottoposti di continuo a ostilità sia di carattere militare che
paramilitare, per cacciarli dalle terre che lavoravano e per impedire loro
l’accesso a risorse naturali primarie come l’acqua.
La "escuelita"primaria autonomia di Agua Clara
Naturalmente,
per costruire questa autonomia il movimento indigeno aveva bisogno
dell’appoggio della società civile e questo aiuto arrivò con grande generosità
ma anche con la tipica autoreferenzialità e supponenza di chi, pur essendo di
sinistra, è cresciuto nel mondo capitalista. Se ne videro di tutti i colori.
Professori universitari che volevano rafforzare la loro immagine di sinistra
(in molte università messicane e in molti circoli intellettuali essere di
sinistra è ancora di moda), insegnanti con una visione molto cittadina che
cercavano di trasferire la loro visione di una istruzione universale valida in
tutti i luoghi del mondo tra persone che rifiutavano la globalizzazione e
l’omogeneizzazione, gruppi di studenti che dopo un primo appoggio sparivano e
costringevano gli operatori della scuola autonoma a ricominciare daccapo.
Risulta
quindi naturale una certa diffidenza nei confronti di tutti coloro che si
presentano nelle comunità per offrire gli appoggi più disparati. Gli zapatisti,
prima di accettare l’appoggio di qualcuno, innanzi tutto lo vogliono conoscere,
vogliono capire le sue vere intenzioni, la sua tenacia e determinazione, la sua
convinzione a lavorare in condizioni non facili. Tutto ciò indipendentemente
dalla sua competenza professionale, dalla sua capacità di svolgere bene il suo
lavoro nella città. La sua capacità di insegnare sarà verificata dopo,
osservandolo in azione.
La escuela primaria di Bolon Ajaw
I volontari sono ben
accetti ma solo nel ruolo di servire e obbedire a coloro che vogliono aiutare
Nella scuola
autonoma indigena coloro che insegnano sono gli stessi indigeni. Non ci sono
insegnanti che vengono da fuori delle comunità. Nelle scuole zapatiste non
insegnano né insegnanti volontari venuti da altre regioni, né tanto meno
volontari stranieri o, peggio, insegnanti inviati dal governo. Nelle scuole
zapatiste si insegna tutto quello che potrà servire nella vita della comunità.
Esistono le materie tradizionali ma i loro contenuti sono orientati ad
attendere alla loro cultura quotidiana. Esiste la materia “lingua spagnola”
(quella ufficialmente parlata in Messico) ma correntemente si parla e si
insegna nella lingua maya locale.
Murales nel caracol di Morelia
Nelle scuole
zapatiste coloro che insegnano non sono insegnanti professionali. Sono ragazzi
e ragazze usciti dalla scuola secondaria che tornano sui banchi a insegnare ciò
che avevano imparato. Una delle principali ragioni di questa apparente rigidità
è la lingua: la maggioranza degli indigeni non domina lo spagnolo. Sarebbe come
insegnare Geografia in lingua inglese nelle scuole italiane. La maggioranza
uscirebbe ignorante in Geografia. Una delle sfide della scuola zapatista è
garantire a tutti, veramente tutti, l’insegnamento di base. Un po’ sullo stile
di una battuta del Che Guevara “Se non c’è caffè per tutti non ci sarà caffè
per nessuno”. Cinquecento secoli di esclusione sono troppi per sopportare che
sia proprio la loro scuola quella che esclude i propri figli.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
D. ALIGHIERI, Divina commedia, Paradiso.
L. IERVOLINO, Un giorno triste così felice.
M. KUNDERA, L'insostenibile leggerezza dell'essere.
K. MANSFIELD, Racconti, Felicità.
L. PIRANDELLO, Non conclude.
http://matematica.unibocconi.it/articoli/
www.globalproject.info/it/mondi/tra-la-luce-e-lombra-il-saluto.../17244
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