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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

mercoledì 29 aprile 2015

T.A.Z., spazi di felicità. Alternative possibili al pensiero dominante.

L’inizio di questo discorso era, fino a questa mattina, alla fine. Poi mi è venuto l’impulso, l’estro, di fare una capriola. Come Dante (che oggi sarà una presenza fondamentale) al fondo dell’inferno per poter vedere le stelle. Non so se vi farò vedere le stelle, dato che non sono certo il soggetto più adatto ad additarvele (sono uno di quelli che vedono dappertutto solo il carro), ma so di aver fatto una capriola. Al fondo del discorso c’era questa memoria redatta dalla Fondazione Giovanni Agnelli per l'audizione sul Ddl 2994 di Riforma del sistema di istruzione e formazione", 7 aprile 2015, che recita così: “"Il docente del XXI secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di qualità didattico-disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista che deve saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola autonoma, contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e impegnarsi nella manutenzione delle proprie competenze". La pongo all’inizio, facendo appunto una capriola, perché è importante voi sappiate una cosa: oggi, adesso, vi parlerà qui un appassionato affabulatore, non necessariamente erudito, non in possesso di qualità didattico disciplinari innate straordinarie, ma certo non un aziendalizzato professionista, non uno impegnato nella manutenzione delle sue competenze (tra parentesi, la mia dimestichezza con gli oliatori è molto ridotta, non saprei nemmeno come usarli).


Zone temporaneamente autonome, spazi di felicità.
Alternative possibili al pensiero dominante
T.A.Z. - the temporary autonomous zone, ontological anarchy, poetic terrorism (Autonomedia, 2003 – edizione rivista dell'originale del 1995), di Hakim Bey
Avevamo pensato, Paola Valpreda e io, di parlare insieme oggi di zone temporaneamente autonome, spazi di felicità, alternative possibili al pensiero dominante. Lo spunto per farlo proveniva, proviene (posso farmi portavoce del suo pensiero) dal profondo: dopo anni di insegnamento, entrambe sentiamo di combattere una battaglia sempre più feroce contro un muro invisibile, ma non perciò meno opprimente e meno difficile da abbattere d’un muro di mattoni come quello che circonda un carcere. L’analogia fra scuola e carcere non è nuova. Se è vero, come scriveva Dostoeskij, che il grado di civilizzazione di un paese si misura dallo stato delle sue prigioni, è anche vero che luoghi che dovrebbero collocarsi ai loro antipodi sono le scuole. Su entrambi i fronti la nostra società è fallimentare e il suo grado di civiltà può essere considerato vicino allo zero: dietro al muro della prigione, ci verrà a raccontare tra circa un’ora un maestro che da trent’anni è “dentro”, succede di tutto, tutto quello che noi stentiamo a immaginare o, comunque, non vorremmo mai vedere. D’altro canto, possiamo dire unitamente noi, intendo studenti e alcuni insegnanti insieme, l’organizzazione scolastica è  rimasta nel tempo, dal Settecento (quando se ne lamentavano gli illuministi) a oggi sostanzialmente invariata, plasmata su un modello carcerario, fatto di campanelli che scandiscono l’andamento della giornata, di costrizioni del pensiero e dell’immaginazione che invece lo studio dovrebbe stimolare e alimentare per aiutare a essere persone, cittadini attenti, vivaci, profondi, interessati agli altri, al mondo a se stessi nel modo più proficuo per sé e per gli altri. Delle zone temporaneamente autonome, frutto della teorizzazione di Hakim Bey, non parlerò perché sono argomento appunto di Paola. Posso accennare alla loro essenza, alla loro anima: le zone temporaneamente autonome sono spazi in cui i pacefondai (non  è un neologismo) creano possibili felicità. Sono luoghi in cui il corpo, il pensiero e la parola rappresentano un circuito integrato, sensitivo, forse sensuale,  in grado di impegnare la totalità dell’essere: esperienze olistiche, per riassumere.
Oggi supererò me stessa in fatto di premesse. Questa è infatti solo la prima. Ora viene la seconda (e il dubbio è che non finiscano mai, sia solo un inanellarsi di premesse…)
“Cosa ci volete fare se avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti, all’improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste d’un tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi bruciasse dentro, spandendo una pioggerellina di scintille in ogni intima fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi? (K. Mansfield, Racconti, Felicità)
Leggo sempre questo stralcio dal racconto della Mansfield, scrittrice neozelandese vissuta fra il 1888 e il  1923 quando voglio parlare di felicità. Non solo per la diretta pertinenza del titolo, ma proprio per questo singolo periodo, che mi piace recitare come un mantra, parola sanscrita che significa (più o meno) preghiera nella filosofia buddista. Luce che brucia intensamente, pioggia che pervade ogni intima fibra, nessuno spazio vuoto, pienezza dell’io, carpe diem correttamente inteso. La felicità ha dunque a che vedere necessariamente con la libertà interiore, e anche  l’arte,  nelle sue svariate declinazioni, certo non ne può prescindere. Anzi lei ha sempre bisogno di libertà e in tutte le occasioni storiche in cui questa sia venuta meno, per ragioni politiche o per via di decadenza culturale, ha subito arresti di sviluppo,  stagnazioni.
 Si potrebbe pensare che la libertà interiore sia inattaccabile, che il ferro rovente del controllo, della censura, non possa addentrarsi nelle pieghe dell’anima, ma è facilmente dimostrabile che questo non è vero. Tant’è, che nel Novecento artisti italiani, tedeschi, dell’Unione Sovietica sono emigrati dai loro Paesi all’interno dei  quali vigevano meccanismi di controllo autoritario della cultura, per cercare altrove possibilità di esprimersi. Altrove. Ecco un punto che non toccherò direttamente oggi, ma resterà in controluce: dove potrebbe essere l’altrove in cui scappare, oggi, per trovare la libertà che cercavano lo scrittore Thomas Mann in fuga dal totalitarismo hitleriano o  il violoncellista Rostropovich da quello sovietico. Forse l’altrove sono le zone temporaneamente autonome, di cui ci parlerà un’altra volta Paola. Il tema però aleggia anche fra noi che oggi  parleremo di felicità, di libertà, di arte.  Di ciascuna in sé e di qualche interrelazione: parleremo anche di sport e di politica,  guarderemo con occhi di altri, e sperimenteremo sensibilità di uomini e donne profondamente liberi, ossia liberi nel profondo, e per questo capaci, degni di parlare di libertà.  Sono scelti,  tengo a precisare, per onorare la giornata,  pensando a Piero Gobetti. Non rientra fra i miei numi tutelari, ognuno ha il suo daimon, ed è lui a ispirare le scelte  originarie che poi durano per tutta la vita, ma ha scritto un pensiero in merito alla libertà che mi sembra importante porre, insieme alla Mansfield, all’inizio di questa chiacchierata (terza e ultima premessa):
 “La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l'azione storica dei ceti che vi sono interessati. In Italia, dove le condizioni sia economiche che politiche sono singolarmente immature, le classi e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza e di preparare al paese un avvenire migliore con un'opposizione organizzata e combattiva. Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative. Poiché il liberalismo non è indifferenza né astensione ci aspettiamo che per il futuro i liberali, individuati i loro nemici eterni, si apprestino a combatterli implacabilmente» (Piero Gobetti, La lotta politica in Italia, in «La Rivoluzione Liberale», 1924). [dietro a siderurgici e latifondisti leggi multinazionali, dietro a riformisti e socialisti vedi la faccia di Renzi]

Adesso però basta. Ora il vero inizio.
Che noia il paradiso. No, non quello di Dante, non la III cantica che secondo Croce non sarebbe stata poetica. No, sono convinta che nel Paradiso di Dante ci sia tanta poesia, e che da questo non possa sortire noia,  come è facile  dimostrare recitando un paio di terzine, magari non del tutto a caso: (canto XV del Paradiso)

Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; 
33

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.

Sì, non del tutto a caso: gli occhi sono importanti. Ma prima c’è la questione della noia. La noia del paradiso è l’eterna beatitudine. Quella pretesa che si possa trovare felicità nell’essere in stato di quiete, nell’assenza di desideri, nella luce eterna. Nello sguardo rivolto eternamente all’Uno. E noi? Noi lì da chi verremmo guardati? Perché, è inutile,

tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico. [...] La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti [...] C'è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata [...] E c'è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.” (M. Kùndera, L’insostenibile leggerezza dell’essere).

Voglio oggi evocare, sotto lo sguardo di persone assenti, di sognatori di ieri e di oggi, morti, vivi, mai nati, sognati da qualcun altro, un paradiso non di luce, non di sorrisi, ma pieno di ombre sinestetiche, ombre dall’eco oscura, che immagino collocate nel quinto cielo, quello di Marte, degli spiriti battaglieri, gli spiriti indomiti, abitati da quello di memoria giovannea, spiritus ubi vult spirat, mai disposti a guardare in un’unica direzione, fosse anche quella in cui si trova “colui che tutto move”, l’eterno, colui che non può essere circoscritto.
Nel mio paradiso c’è  Socrates. No, non l’uomo satiro inventore del libero pensiero, non il protagonista d’una crisi sacrificale messa in scena alla fine del V secolo a.C. nella democratica Atene, bensì uno al quale un padre autodidatta e onnivoro lettore decise di trasmettere  un nome che fosse un omen, riuscendoci egregiamente. Il Socrates del mio V cielo nacque a  Belèm, nello stato del Parà in Brasile il 19 febbraio 1954 e morì domenica 3 dicembre 2011, nel giorno triste così felice, in cui la sua squadra vinse il campionato.  Raimundo Vieira, suo padre, aveva frequentato la scuola fino alla seconda elementare, quanto bastò per individuare nella lettura la chiave di volta della sua vita. Da autodidatta, riuscì a compiere un percorso di studio e professionale, divenendo  impiegato del settore pubblico,  appassionandosi di filosofia, particolarmente di quella greca (Socrates, Sostene  e Sofocle sono i nomi che dà ai primi tre dei suoi sei figli, poi la moglie s’impunta, minaccia  il divorzio, e riesce a dare nomi più comuni, Raimundo per esempio, agli altri tre figli). 
 Il Brasile, all’epoca dell’infanzia e giovinezza di Socrates, è un paese in fermento: nel 1967 l’approvazione della sesta costituzione istituzionalizza il golpe militare:  il generale Emilio Garrastazu Medici, eletto presidente, lancia il cosiddetto “miracolo economico”, aprendo il paese alle industrie di elettrodomestici e automobilistiche straniere; con il benestare della Cia viene avviato un programma di repressione (le manifestazioni contro di lui erano massicce e portavano in piazza studenti, giornalisti, operai, la base della chiesa cattolica, le organizzazioni delle donne e gli artisti) denominato Operação Bandeirante  (OBAN), e aperti i primi due centri segreti di tortura. Nel frattempo, gli occhi dell’Occidente sono rivolti alla Luna (tra parentesi: penso fosse una fase comunque più evoluta di questa che viviamo ora: almeno guardavano la luna, oggi ci fermiamo al dito, quello che la indica, naturalmente). Noi però non ci facciamo distrarre e ritorniamo a Socrates, per capire come faccia a meritarsi di stare nel cielo del sole di Dante. Socrates, figlio d’un padre che non ama il calcio, s’appassiona di questo sport, del quale ebbe a dire:

“il nostro calcio è creatività, è allegria. A volte anche irriverenza, irresponsabilità. Nei nostri passaggi, nei nostri dribbling  c’è l’istinto della danza, l’energia della capoeira, con cui, a ogni gesto, ammorbidiamo gli spigoli coi quali gli inglesi hanno pensato questo gioco. Il nostro calcio  non è iniziato con la prima partita, piena di regole e di limiti. È iniziato a piedi nudi sulla sabbia. Con le catene alle caviglie. È iniziato da un gesto di libertà, da un desiderio di fuga, non d’imposizione. Il nostro calcio è ribelle a ogni ordine interno ed esterno, agli eccessi di uniformazione, di geometrizzazione, di standardizzazione, ed è ribelle ad ogni totalitarismo che rischia di far scomparire la spontaneità dell’individuo. Il nostro calcio non può sottostare a un metodo scientifico, alla dittatura della tattica nella quale il singolo è perno di un ingranaggio perfetto ma privo di anima. Il nostro calcio non è figlio della rivoluzione industriale, è figlio della pioggia sulla pelle, di un pallone fatto di stracci e di una spiaggia, di gioventù senza fine. Il nostro calcio è un insieme di individualità che brillano una di fianco all’altra, ma, ciascuna, di luce propria. […] Se l’immaginazione andasse al potere, pensava John Lennon, il mondo sarebbe migliore. John Lennon, un grande inglese, l’unico estraneo per cui ho pianto. È esattamente come lui che la penso, dentro e fuori dal campo: la capacità d’immaginare è la nostra energia sovversiva”.

 A ognuno il suo dio, la sua immaginazione di dio: quello di Socrates, che lui contempla nel mio quinto cielo, ha sicuramente la forma di un pallone di stracci. Socrates nella vita fa dunque il calciatore, ma studia anche con profitto medicina: la sua squadra, quella con la quale si merita la collocazione paradisiaca, sono i Corinthians di San Paolo. Con loro compie un esperimento democratico, la democrazia corinthiana.   La squadra giocava per musica, racconta chi l’ha vista esibirsi. Senza aggressività, il Corinthians da squadra allo sbando  divenne presto un riferimento nazionale che non si lasciò sfuggire la possibilità di parlare ai suoi tifosi il linguaggio della politica.  “Volevamo far capire alla gente che sarebbe stato molto interessante un cambiamento”, racconta Zenon, compagno di squadra di Socrates. Un cambiamento nella forma del gioco, nell’organizzare quella piccola collettività di atleti e intellettuali, nel modo di intendere il calcio e le relazioni umane e, in ultimo, un cambiamento generale che investiva tutto il paese: nelle elezioni per il presidente della Repubblica, che il popolo brasiliano cominciava a chiedere. E così, al posto degli sponsor, sulle loro maglie i Corinthians sfoggiano messaggi politici, inviti alla democrazia e al voto. Quando, nel 1984, Socrates legò la propria permanenza nella squadra e in Brasile all’approvazione di un emendamento costituzionale per ristabilire libere elezioni che fu bocciato (per una manciata di voti), terminò la grande avventura. Socrates compie il suo gesto socratico: ha inizio l’ultima fase della sua vita,  un breve esilio fiorentino, durato un anno, al termine del quale ritornò in Brasile per ritirarsi definitivamente dal calcio nel 1988. “Mondiali per chi” scriverà ancora nel 2011, poco prima di morire, il dottor Socrates, a fronte della notizia che il Brasile avrebbe ospitato nel 2014 il grande (per lui sfortunatissimo) evento calcistico:

 “Mondiali per chi? Per chi farà sentire la sua voce, per chi occuperà le strade, chiedendo sanità, istruzione, trasporti invece dell’oppio d’un pallone. Quel che ho detto adesso è quel che ho sempre detto, con il pugno chiuso, con il sorriso, senza fare mai un passo indietro. Le mie sono parole pronte a rinascere in altre voci. Perché se il mio corpo si è fermato, le mie idee possono continuare a fluire come il vento o come la passione, che permette alla gioia e  al dolore di condividere lo stesso spazio. E farci capire che le lacrime sono, o dovrebbero essere, i semi della felicità”.

Nel mio quinto cielo eleggerei poi una collettività, che si è data un nome singolo. Una trovata degna di un appassionato di ossimori, ma soprattutto di qualcuno, di alcuni, e spero che sappiano come moltiplicarsi, che il senso dell’ironia applicato al mondo attuale porta a seguire strade inedite, completamente nuove, sovvertitrici nel senso più puro  del termine.
America del sud, tra le montagne della Sierra Madre, in Messico, in una zona complicata, San Cristòbal  de Las Casas, Chiapas. Lì continua a prendere forma una realizzazione, non un progetto badate, rivoluzionaria che non ha eguali nel mondo attuale. Una presa di potere dal basso, guidata dal motto “comandare obbedendo”, ma anche non vendersi, non arrendersi, non esitare. Si tratta della repubblica zapatista, in cui sono i villaggi a comandare, senza avanguardie, né capi, né  leader. Il mitico (in Occidente) sub comandante Marcos è il simbolo di questo: uomo che c’è e  non c’è, che in passato a ogni intervista era un altro eppure sempre lo stesso. Perché il cuore del movimento è uno, mentre i soggetti che ne fanno parte sono tanti, com’è naturale sia in un mondo che non vuole certo negare la diversità, che è il sale della terra, ma sostenere il valore della giustizia.

Torniamo, per un intermezzo, in Paradiso
Canto XXVII, invettiva di San Pietro contro la Chiesa e il Papa
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio, 
24

fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa». 
27

Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso. 
30
Dopo aver visto il cielo che  si tinge di rosso, non il colore  dell’indignazione (troppo spesso fine a se stessa), non quello della vergogna (che per noi  non è sufficiente), ma quello dell’ira, rimaniamo nella stessa parte di mondo in cui si è sviluppata la storia di Socrates.  Tra la luce e l’ombra  si intitola il discorso di morte dell’ologramma denominato sub-comandante Marcos, pronunciato nel mese di maggio del 2014 in occasione della morte di un maestro zapatista, che si chiamava Galeano. Vi si parla di giustizia, di memoria, di senso delle battaglie, di rapporti fra basso e alto e, naturalmente di libertà e felicità. Ne leggo qualche passaggio.
Noi scegliemmo.  Invece di dedicarci a formare guerriglieri, soldati e squadroni, di preparare promotori di educazione e di salute, e di porre le basi della nostra autonomia di cui oggi si meraviglia il mondo. Invece di costruire caserme, migliorare il nostro armamento, costruire muri e trincee, si costruirono scuole, ospedali e centri di salute, migliorammo le nostre condizioni di vita. Invece di lottare per occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate dal basso, scegliemmo di costruire la vita.
Tutto questo nel mezzo di una guerra che, anche se sorda, non era meno letale.
Perché  una cosa è gridare “non siete soli” e un'altra è affrontare solo con il corpo una colonna di blindati di truppe federali, come successe nella zona di Los Altos in Chiapas, e stare a vedere se hai fortuna e qualcuno se ne accorge, e se hai un po' più di fortuna e quello che se ne accorge si indigna, e ancora un po' più di fortuna e quello che si indigna fa qualcosa.
[…]
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e fecero arrendere le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia quelli che occuparono senza pronunciare parole gli edifici da dove si celebrava la nostra sparizione. Il solo fatto inappellabile che l'EZLN non solo non si era indebolito, meno ancora sparito, ma che era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente intelligente si rendesse conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all'interno dell'EZLN e delle comunità.
Forse più di uno crede che sbagliammo a scegliere, che un esercito non può e non deve impegnarsi per la pace. Fu per molte ragioni certo, però la principale era ed è perché in questa forma finiremmo per scomparire.
Forse è vero. Forse ci siamo sbagliati nello scegliere di coltivare la vita invece di adorare la morte. Ma noi prendemmo la decisione non ascoltando quelli da fuori. Coloro che chiedono sempre la lotta fino alla morte, finché i morti li mettono gli altri. Scegliemmo, guardandoci e ascoltandoci, essendo lo spirito collettivo che siamo. Scegliemmo la rivolta, cioè la vita. Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dall'alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il dominio sopra di noi.
Sapevamo e sappiamo che una ed un'altra volta dovremo difendere ciò che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà a esserci la morte, perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere moriamo.
 

Per finire un discorso, lo sostengo anche per gli svolgimenti scritti di qualsivoglia tipologia, l’unica è mettere un punto. Pretendere di concludere, lo penso sempre più vivamente, rasenta la stupidaggine. Senza contare che uno rischia di trovarsi in paradiso, se conclude con troppa convinzione. Ma d’altronde c’è qualcuno che l’ha detto così bene, che non bisogna concludere,  ma così bene, che non solo mi viene da mettere anche lui nel quinto cielo, ma da lasciargli la parola per chiudere il mio divagante discorsetto.
Io odio a morte tutti coloro che si son composti e quasi automatizzati in un dato numero di pensieri e di movimenti, paghi, tranquilli e sicuri d'aver capito il congegno dell’universo, di aver trovato la chiave per caricarne o scaricarne le molle, per regolarne il registro. Io li chiamo conclusioni ambulanti. Vogliono vedere in tutto, trarre da tutto una conclusione, dalla storia antica e moderna, da ogni avvenimento, da ogni piccolo incidente. Amo invece ed ammiro le anime sconclusionate, irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, di irrigidirsi in questa o in quella forma determinata. (Luigi Pirandello, Non conclude, saggio del 1909) 
Sì anche Pirandello ce l’ha col paradiso, e io con lui. Non è a quello di Dante che pensiamo, che emozione parlare al plurale di me e di Pirandello, mio unico nume tutelare originario, nella dimensione letteraria intendo, ma a quel paradiso di cui dicevo all’inizio, quello stato di quiete, quell’assenza di desideri, quell’uniformità agghiacciante, quel mondo globalizzato, dove la democrazia ha diffuso la schiavitù e le multinazionali hanno creato per noi una facciata comoda di consumi dietro alla quale, edizione a nostro uso e consumo di matrix, si cela un vero e proprio marasma commerciale. E allora non c’è che cercare le zone temporaneamente autonome, gli spazi di felicità possibile e persino probabile che esistono al mondo.
Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio

Alla fine del I incontro vedremo Un uomo obsoleto, da Ai confini della realtà

DOPO LA VISIONE DEL FILM
Un uomo obsoleto. Sì, come l’insegnante erudito e carismatico affabulatore. E pretendono anche di star facendo una rivoluzione, dixit il ministro Giannini. Rinchiudetela insieme a me in una stanza e le leggerò non la bibbia, ma questa testimonianza di un professore della Bocconi che è andato a insegnare in una scuola zapatista. Chissà che non chieda di uscire prima della fine, magari in nome del sub comandante Marcos (invece che di dio, come il giudice del film Un uomo obsoleto). A quel punto la lascerei uscire.
Facevo il professore a Milano. Adesso insegno Matematica in Messico, nella scuola zapatista                                                        http://matematica.unibocconi.it/articoli/

Il laboratorio di sartoria dell’Università della Terra
Ho lasciato la scuola italiana (dove con grande piacere insegnavo Matematica) per continuare a farlo, anziché nel privilegiato mondo occidentale, in luoghi dove lo sfruttamento, l’esclusione, il disprezzo, l’ingiustizia, la persecuzione e la conseguente miseria sono più forti.
Ho scelto il Chiapas, uno stato del sud-est messicano perché lì è nato un movimento indigeno che si oppone e resiste alle logiche della globalizzazione neoliberale. Mi sembrava che la sua conoscenza potesse insegnarmi molto.
Così, conclusi gli ultimi impegni di lavoro nella scuola superiore di Milano, sono arrivato nell’ottobre 2009 a San Cristobal de Las Casas. Il percorso di avvicinamento alla realtà indigena è stato lungo, costellato di molti momenti di frustrazione e timore di aver sbagliato strada o approccio. Alla fine, nei primi giorni di questo mese di luglio (2010) è iniziata la mia prima esperienza di insegnamento (taller) nel caracól di Morelia a circa 20 Km dalla città di Altamirano. Ciò che segue è il tentativo di raccontarlo.

La marcia di avvicinamento

Per arrivare ad appoggiare il sistema educativo zapatista ho aspettato nove mesi. Nove mesi passati a fare le cose più diverse: lavorare come falegname nella Università della Terra, andare nelle comunità indigene come osservatore dei diritti umani per documentare e denunciare attraverso murales, interviste e conferenze stampa i frequenti assedi dei paramilitari, visitare alcune scuole statali in zona indigena, studiare l’antica Matematica e Astronomia maya.
A San Cristobal c’è una Università molto atipica; il Cideci (Centro Indigena de Capacitaciòn Integral) o Università della Terra. Non riceve alcun aiuto dallo Stato ed è un vero e proprio ponte con il mondo indigeno, in particolare quello che si ispira allo zapatismo, per la formazione professionale. E’ una scuola informale che assomiglia più alle università medioevali quando queste erano un vero centro di cultura e ricerca piuttosto che, come oggi, un luogo per produrre laureati.
 Un murales fuori dalla falegnameria del Cideci
Nei primi giorni dell’ottobre 2009 mi sono presentato al direttore del Cideci, il dr. Raymundo, un intellettuale coltissimo, amico del subcomandante Marcos e di tutta la comandancia dell’EZLN. Gli ho chiesto se potevo insegnare nel suo centro ma mi ha risposto descrivendomi piuttosto il suo funzionamento: cosa e come si insegna. Ho capito così che, per insegnare agli indigeni, la mia lunga esperienza di insegnante rischiava di essere più un ostacolo che un aiuto. In questa scuola non si certifica nulla perché il sapere non è certificabile, non si insegnano materie specifiche perché il sapere non è a compartimenti stagni, non ci sono registri perché non esistono prove di verifica né obblighi di presenza, non ci sono aule divise per età o grado di avanzamento perché ognuno apprende secondo i suoi ritmi e secondo la propria maturità. Il direttore mi ha consigliato di rivolgermi ai caracoles dove già da anni esisteva una scuola primaria (elementare) e una scuola secondaria (media) autonoma. Soprattutto mi ha consigliato di non avere fretta nel realizzare il mio progetto, di frequentare l’Università della Terra come e quando volevo, di visitare i caracoles e le comunità.
Così, per più di un mese, ho fatto l’apprendista nella falegnameria dell’Università della Terra sperimentando un insegnamento dove docente e alunno sono due persone che fanno insieme lo stesso lavoro e dove i ruoli della scuola tradizionale sono messi in discussione. In questi mesi ho partecipato, all’Università della Terra, agli incontri settimanali di discussione chiamati “seminari” che sono una vera e propria scuola di formazione per capire cosa avviene in Chiapas, in America Latina e soprattutto nel mondo. Un spazio frequentato da messicani, internazionali e indigeni e dove le esposizioni iniziali sono fatte in lingua spagnola ma anche in tzeltal e tzotzil, due delle lingue indigene più parlate in Chiapas.
Ho fatto la spola diverse volte in tre caracoles Oventic, Morelia e Roberto Barrios per offrire la mia disponibilità e farmi conoscere dalle commissioni educazione e dalle Giunte del Buon Governo.
Il primo incontro concreto l’ho avuto a marzo dove, con la commissione educazione del caracol di Morelia, si è pianificato un piano di lavoro che prevedeva il mio trasferimento da una scuola all’altra ogni due settimane. Ho passato tre mesi a preparare il materiale didattico che sarebbe servito per insegnare nel sistema educativo zapatista.
In tutti questi mesi, ho provato forti sentimenti di entusiasmo ma anche di sconforto. Molte volte ho avuto l’impressione che il mio progetto, di lasciare il mio lavoro di insegnante di Matematica in Italia, di lasciare la mia casa e i miei affetti, fosse stata una follia.

I Caracoles e la costruzione dell’autonomia

La lunga attesa aveva una ragione. La maggior parte di coloro che appoggiano il sistema educativo zapatista sono messicani. Tutti quelli che ho conosciuto hanno cominciato a lavorare con gli zapatisti dal momento della costruzione delle prime Aguascalientes ovvero dai primi tentativi di darsi una organizzazione autonoma.
La scelta dell’autonomia consisteva nell’attuare per proprio conto ciò che l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale aveva chiesto fin dall’inizio e cioè il diritto di tutti gli indigeni del Messico a una casa dove vivere con la propria famiglia, una terra e un lavoro per avere cibo, il diritto alla salute per non morire di malattie che per noi occidentali sono un semplice fastidio come la diarrea, il rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni e il diritto all’educazione. Con la firma degli accordi di san Andrés, nel 1996, il governo riconosceva tali diritti ma poi fece marcia indietro. Di fronte a questo tradimento l’EZLN ha risposto avviando un processo di costruzione di una autonomia in tutti i campi. Si trattava di costruire una società nuova partendo dal basso, senza utilizzare le risorse tipiche di uno stato, ma soprattutto, di dare il potere al popolo senza prendere il potere, in una situazione di grande incertezza, sottoposti di continuo a ostilità sia di carattere militare che paramilitare, per cacciarli dalle terre che lavoravano e per impedire loro l’accesso a risorse naturali primarie come l’acqua.

La "escuelita"primaria autonomia di Agua Clara
Naturalmente, per costruire questa autonomia il movimento indigeno aveva bisogno dell’appoggio della società civile e questo aiuto arrivò con grande generosità ma anche con la tipica autoreferenzialità e supponenza di chi, pur essendo di sinistra, è cresciuto nel mondo capitalista. Se ne videro di tutti i colori. Professori universitari che volevano rafforzare la loro immagine di sinistra (in molte università messicane e in molti circoli intellettuali essere di sinistra è ancora di moda), insegnanti con una visione molto cittadina che cercavano di trasferire la loro visione di una istruzione universale valida in tutti i luoghi del mondo tra persone che rifiutavano la globalizzazione e l’omogeneizzazione, gruppi di studenti che dopo un primo appoggio sparivano e costringevano gli operatori della scuola autonoma a ricominciare daccapo.
Risulta quindi naturale una certa diffidenza nei confronti di tutti coloro che si presentano nelle comunità per offrire gli appoggi più disparati. Gli zapatisti, prima di accettare l’appoggio di qualcuno, innanzi tutto lo vogliono conoscere, vogliono capire le sue vere intenzioni, la sua tenacia e determinazione, la sua convinzione a lavorare in condizioni non facili. Tutto ciò indipendentemente dalla sua competenza professionale, dalla sua capacità di svolgere bene il suo lavoro nella città. La sua capacità di insegnare sarà verificata dopo, osservandolo in azione.

La escuela primaria di Bolon Ajaw

I volontari sono ben accetti ma solo nel ruolo di servire e obbedire a coloro che vogliono aiutare

Nella scuola autonoma indigena coloro che insegnano sono gli stessi indigeni. Non ci sono insegnanti che vengono da fuori delle comunità. Nelle scuole zapatiste non insegnano né insegnanti volontari venuti da altre regioni, né tanto meno volontari stranieri o, peggio, insegnanti inviati dal governo. Nelle scuole zapatiste si insegna tutto quello che potrà servire nella vita della comunità. Esistono le materie tradizionali ma i loro contenuti sono orientati ad attendere alla loro cultura quotidiana. Esiste la materia “lingua spagnola” (quella ufficialmente parlata in Messico) ma correntemente si parla e si insegna nella lingua maya locale.

Murales nel caracol di Morelia
Nelle scuole zapatiste coloro che insegnano non sono insegnanti professionali. Sono ragazzi e ragazze usciti dalla scuola secondaria che tornano sui banchi a insegnare ciò che avevano imparato. Una delle principali ragioni di questa apparente rigidità è la lingua: la maggioranza degli indigeni non domina lo spagnolo. Sarebbe come insegnare Geografia in lingua inglese nelle scuole italiane. La maggioranza uscirebbe ignorante in Geografia. Una delle sfide della scuola zapatista è garantire a tutti, veramente tutti, l’insegnamento di base. Un po’ sullo stile di una battuta del Che Guevara “Se non c’è caffè per tutti non ci sarà caffè per nessuno”. Cinquecento secoli di esclusione sono troppi per sopportare che sia proprio la loro scuola quella che esclude i propri figli.

 BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
D. ALIGHIERI, Divina commedia, Paradiso.

L. IERVOLINO, Un giorno triste così felice.

M. KUNDERA, L'insostenibile leggerezza dell'essere.

K. MANSFIELD, Racconti, Felicità.

L. PIRANDELLO, Non conclude

 http://matematica.unibocconi.it/articoli/

www.globalproject.info/it/mondi/tra-la-luce-e-lombra-il-saluto.../17244





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