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lunedì 5 ottobre 2015

MODELLO ANALISI ULTIMO CANTO DI SAFFO CON VERSIONE IN PROSA

Dei Canti, vivo il poeta, uscirono due edizioni: una fiorentina nel 1831 e una napoletana nel 1835.
Ultimo canto di Saffo
Versione in prosa
I     O notte serena, casto raggio della luna al tramonto; e tu, o Venere che spunti in mezzo al bosco silenzioso al di sopra del monte; oh,  immagini piacevoli e gradite ai miei occhi finché non conobbi i tormenti e il destino; ormai uno spettacolo dolce non dà piacere a chi è oppresso da disperazione. Una gioia insolita ci  anima nel momento in cui attraverso l’aria umida e i campi ondeggianti turbina il flusso polveroso dei venti (Noti) e quando il carro, il pesante carro di Giove, tuonando sul capo squarcia il cielo tenebroso.  Ci piace immergerci   nella tempesta fra i dirupi e  le valli profonde, ci piace la disordinata fuga delle greggi sconvolte, o lo scroscio e la furia travolgente delle onde contro la malsicura sponda di  un fiume.
Il motivo dominante è quello del rapporto fra Saffo e la natura (tema tipicamente romantico: si ricordi Werther e il mutare del suo rapporto con la natura circostante a seconda degli stati d’animo): quand’era giovane e speranzosa  coglieva l’armonia dei paesaggi naturali, ne traeva piacere; ora, inquieta e disperata, predilige la natura tumultuosa, i paesaggi sconvolti dalla furia delle intemperie.
II O cielo divino, il tuo manto è bello, e sei bella anche tu, terra intrisa di rugiada. Ahimè, alla povera Saffo i numi e il malvagio destino non diedero alcuna  parte di questa infinita bellezza. Io, o natura, sottomessa alle tue dispotiche leggi come ospite spregevole e malamente sopportata [grave], e come un’amante rifiutata , invano tendo supplichevole  il cuore e gli sguardi alle tue bellezze. Non mi sorride la campagna soleggiata, e la luce dell’alba che sorge dalla porta del cielo; non mi saluta il canto degli uccelli colorati, e il mormorio dei faggi; e all’ombra dei salici incurvati verso terra, dove il ruscello limpido fa scorrere  le sue limpide acque, esso sdegnoso sottrae le sue acque serpeggianti al mio piede incerto e urta nella fuga le rive profumate.
Cielo e Terra sono pervasi di bellezza, mentre Saffo ne è esclusa da un malvagio destino. A nulla valgono le inclinazioni del cuore che anela a essere reso partecipe di tutto questo splendore: la natura mette da parte Saffo, nessuna creatura le reca omaggio o anche solo ne accetta la presenza, ella è reietta e sola.
III Quale peccato, quale tanto  abominevole delitto mi macchiò prima che io nascessi, in ragione del quale mi fosse così ostile il volto del cielo e della sorte? Quale peccato commisi da bambina,  allorché la vita ignora il male, per cui poi l’oscuro filo della mia vita si avvolgesse al fuso della parca inflessibile  privato della giovinezza e sfiorito?  Pronunci parole incaute: un disegno misterioso guida il destino. Tutto è misterioso, tranne il dolore. Creature trascurate, siamo nati per piangere, e il motivo di questo è imperscrutabile. Oh desideri, oh speranze  dell’età giovanile! Giove concesse alla bellezza, solo alla bellezza esteriore dominio eterno fra gli uomini; invece non splende il valore di imprese grandiose, di imprese poetiche, se l’aspetto è sgradevole.
Risuona qui il grido di dolore della poetessa, variamente articolato: ha forse commesso qualche atroce delitto prima della nascita per meritarsi questa esclusione? O l’ha commesso da bambina?Le domande sono retoriche, non c’è bisogno di aver commesso qualcosa di male, giacché il destino procede per vie misteriose gli uomini tutti sono nati essenzialmente per soffrire. A essere risparmiata dall’esclusione dalle gioie del mondo è la sola bellezza fisica, unica a essere tenuta in pregio dagli uomini.
IV Giungerà la morte. Lasciato cadere a terra l’indegno corpo, l’anima fuggirà nuda nel regno dei morti e correggerà il crudele errore del cieco destino. E tu [Faone] al quale mi legarono  invano un lungo amore, una duratura fedeltà e un inutile, inappagato desiderio, vivi felice, se mai è  vissuto felice un mortale sulla terra. Dopo che perirono le illusioni e il sogno della mia fanciullezza, Giove, avaro del suo vaso,  non mi irrorò del liquore che dà felicità [l’ambrosia] . I giorni più lieti della nostra vita sono i primi a fuggire. Subentra la malattia, la vecchiaia, e l’ombra della gelida morte. Ecco, di tanti sperati riconoscimenti  e di tante piacevoli illusioni mi resta solo la morte; e la dea dei morti, la notte oscura e la riva silenziosa possiedono il mio nobile spirito.
La morte corregge ogni errore e cancella il male. Dopo un fugace accenno alla causa diretta dei suoi dolori, il bel barcaiolo Faone che ha ignorato il suo amore, Saffo canta i suoi ultimi pensieri: la giovinezza, lieta perché speranzosa, declina velocemente, e vecchiaia e morte subentrano quasi all’improvviso. Di tutte le illusioni coltivate in precedenza, a restare è solo la morte, e a lei la poetessa affida il suo spirito.
Commento
Composto nel 1822 da un Leopardi ventiquattrenne, l’Ultimo canto di Saffo sviluppa molte tematiche care al poeta per tutto l’arco dell’esistenza. Il soggetto è antico, essendo la canzone dedicata alla poetessa greca Saffo,  vissuta tra VII e VI secolo a. C., autrice di versi immortali  di cui a noi sono pervenuti pochi frammenti, in grado tuttavia di giustificare la straordinaria influenza esercitata sui poeti lirici di ogni epoca, a partire dai neoterici latini e da Catullo in particolare.  Leopardi tiene in parte conto dello spunto offerto dal una biografia pressoché leggendaria,  mitica, della poetessa, che la volle disperatamente innamorata di un bel pescatore di nome Faone, che la rifiutava in quanto ella sarebbe stata di aspetto poco avvenente; da tale ostinato rifiuto Saffo sarebbe stata indotta a suicidarsi gettandosi dalla rupe di Leucade. Leopardi la rende protagonista di un dramma universale, al quale, in quanto personaggio antico, nobile, circonfuso di gloria poetica e ingentilito anche  dal fatto di essere di sesso femminile, ella conferisce particolare forza emotiva: da una parte c’è una natura falsamente benevola, che fa mostra di possedere doni cospicui e apprezzabili, dispensati però con somma parsimonia, per non dire avarizia, così che pochissimi ne vengono chiamati a parte e, in ogni caso, a tempo determinato; dall’altra ci sono gli essere umani, pochi dei quali, appunto, ricevono le benemerenze della natura, del tutto inspiegabilmente ovvero senza che sia riconoscibile un meccanismo retributivo che colleghi, per esempio, un premio a un merito o una punizione a un fallo commesso. La visione è dunque antiprovvidenzialistica e atea: il cieco caso presiede alla distribuzione dei beni e dei mali, ovunque la natura si manifesta in parvenze che attingono al sublime, ma all’uomo è dato solo, al limite, di contemplarle con animo stupefatto per il poco tempo concessogli: il soggiorno terreno è breve e ciò, nella maggior parte dei casi, è l’unica fortuna. Riecheggia qui la terribile risposta del sileno a re Mida, in merito  a quella che si possa considerare la sorte preferibile per gli esseri umani: non essere mai nati, disse la creatura silvana, dopo aver contemplato come ipotesi meno preferibile ma già auspicabile, morire giovani.





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