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giovedì 17 dicembre 2015

IL COMPITO DI UN BUON INSEGNANTE E' INSEGNARE A ESSERE AUTODIDATTA

Sono convinto che i contenuti culturali solo per sbaglio, per accidente e per vie traverse e imprevedibili, vengano trasmessi genuinamente dall’insegnamento. Per questo dico spesso che il compito di un buon insegnante è insegnare a essere autodidatta. In fondo che la scuola sia difettosa, come è sempre stata, non mi preoccupa troppo. A condizione però che fuori ci sia qualcos’altro. Se fuori c’è solo il peggio, è un guaio. Una scuola difettosa ti offre qualcosa, qualcosa non te la offre e in questo gioco tu ti poni come individuo, in parte determinato e in parte libero. È quando la scuola pretende di essere tutto – tempo pieno, progetti, consulenza psicologica… – che nascono i problemi.
Se insegnassi ancora, cercherei di far capire agli studenti che i libri esistono davvero. Che non sono un’invenzione didattica, di cui, finiti gli anni dell’apprendimento obbligatorio, liberarsi definitivamente. Diminuirei la quantità di libri scolastici, cioè prodotti per la scuola, che si autodenigrano da sé, anche se sono bellissimi. L’insegnante dovrebbe usarli, ma farli vedere agli studenti il meno possibile. Far vedere loro, invece, i libri che si trovano in libreria o in biblioteca. Lì trovi che Catullo, Seneca, Petronio si possono comprare e sono stati perfino tradotti…
Ripetevo sempre due cose. Primo: se volete essere studenti di letteratura contemporanea dovete andare in libreria. O in biblioteca. Dovete andare e guardare i libri, leggere i titoli, l’autore, la quarta di copertina, sfogliarli, maneggiarli. Secondo: il vero studente è quello che continua a parlare di quello che ha studiato per l’esame dopo che ha fatto l’esame.
Dal punto di vista didattico, le strategie didattiche che ho praticato di più sono le analisi collettive di un testo poetico e le lezioni condotte dagli studenti. Nei miei corsi tenevo dieci lezioni introduttive e poi chiedevo a loro di mettersi insieme in piccoli gruppi, di due o tre, sulla base dell’interesse per uno degli argomenti del programma, da concordare con me, e su quello avrebbero tenuto una o due lezioni. Non erano obbligati, ma se lo facevano erano avvantaggiati per l’esame perché li avrei conosciuti meglio e non li avrei sentiti parlare all’esame per la prima volta. Quando toccava a loro insegnare, mi mettevo all’ultimo banco e intervenivo soltanto quando parlavano troppo difficile… Per loro diventava un’esperienza memorabile. Sono convinto che tutti ricorderanno quella lezione che tennero una volta.
E poi le poesie analizzate insieme. C’erano le vecchie lavagne. Io col gesso scrivevo una poesia o se era più lunga facevo un certo numero di fotocopie e le distribuivo. La lezione cominciava così: io leggevo la poesia, una volta, secondo il mio umore, lentamente o molto velocemente e poi, senza obbligarli, chiedevo a chiunque se la sentisse di rileggela. Si creava un’atmosfera particolare, per cui quel testo entrava realmente nelle loro teste. Ognuno, mentre aspettava, giudicava la lettura degli altri: qui ha letto male, io leggerei così, qui non farei una sosta… Era una cottura a fuoco lento. Alla fine quel testo era assolutamente presente a tutti. A quel punto, li provocavo dicendo: “potremmo anche non dire nulla, perché non si è tenuti a dire qualcosa dopo aver letto un bel testo poetico. Possiamo rimandare a domani le cose da dire”. A questo punto succedeva sempre che si accorgevano di avere qualcosa da dire o da chiedere.[...]
Educazione e democrazia
Nessun pessimismo sulla scuola può trascurare comunque due realtà. La prima è che a scuola ci sono i bambini e i giovani. È questo l’aspetto fondamentale e più positivo. Perché altrimenti non varrebbe nemmeno la pena di occuparsene. La seconda è che le nostre società sono, almeno nominalmente, regimi democratici. Fra queste due realtà, deve nascere una doverosa ipotesi di incontro.
Il punto è capire che cosa le democrazie – non solo come ideali ma come società reali – vogliono dai giovani e dalla tradizione culturale. L’insegnante si trova schiacciato fra questi due problemi: è l’ideale della democrazia che può entrare nella scuola o nella scuola entra di fatto ciò che le società democratiche occidentali sono realmente, ovvero masse dominate dal mercato? E dai giovani, che cosa vogliono queste democrazie? Che siano persone libere o che si adeguino?
Sono le due facce della nostra società. Tra democrazia e mercato non c’è armonia. La democrazia è un presupposto necessario al mercato, ma il mercato, soprattutto nella cultura, è antidemocratico. Perché? Perché la democrazia prevede individui dotati di coscienza critica, i votanti ideali, capaci di compiere scelte competenti e consapevoli. Il mercato culturale ha bisogno di vendere i suoi prodotti. E i prodotti che vende di più sono i prodotti culturalmente più volgari e banali. Come si fa con questo mercato culturale a formare individui criticamente consapevoli? Il mercato culturale, è un nemico della democrazia. Oggi poi che le tecnologie sono diventate l’assoluto “dover essere”, le cose si complicano ulteriormente. Alla Grande Macchina è molto difficile disubbidire…
Seconda questione: che cosa vogliono le società attuali dalla tradizione culturale? Quale quota di rispetto, di passione, di curiosità, di ammirazione hanno ancora per i vertici della cultura occidentale? Per l’insieme della cultura occidentale. Ce l’hanno ancora questa ammirazione? L’ammirazione che si manifesta nei musei, nelle grandi mostre, negli eventi culturali di che cosa è fatta? Come si fa a trasmettere la tradizione culturale?
Questi a mio avviso sono i termini del problema. Allora rassegnamoci al fatto che i migliori insegnanti dovranno vivere e convivere e operare in una situazione negativa, nuotando controcorrente, contro l’inerzia degli studenti, la stupidità, la volgarità o le ansie di successo dei genitori, le burocrazie di Stato che di fatto spingono gli studenti a studiare male. Il meglio dovrà operare nel peggio.
C’è un bell’aforisma di Adorno (questa potrebbe essere la mia conclusione) che diceva: “Non c’è vera vita nella falsa”. Se non c’è vera vita nella falsa, per la scuola non c’è niente da fare. Perché la vita nella scuola è falsa. Culturalmente falsa. Si autofalsifica a ogni ora di lezione. C’è però una magnifica risposta di Fortini ad Adorno. Per una volta Fortini batte Adorno. A quest’aforisma di Adorno, Fortini risponde: “Non c’è vera vita se non nella falsa”.
Se questo è vero – e io credo che sia vero, perché noi non vivremo mai in condizioni di vera vita – la verità sarà costretta a vivere in mezzo alla menzogna. Non ad accettarla, ma a viverle accanto. Chi desidera davvero fare l’insegnante può cercare di farlo, anche a livelli molto alti, perfino nelle peggiori condizioni.
(stralcio dall'articolo scritto da Alfonso Berardinelli pubblicato su Vivalascuola)
Ihttps://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/12/16/vivalascuola-gli-asini-29-asocialita-del-sociale/#more-84741

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