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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

martedì 1 marzo 2016

PASCOLI - POEMI CONVIVIALI

Indice

  •  I La pala 100 percents.svg
  •  II L'ala 100 percents.svg
  •  III Le gru nocchiere 100 percents.svg
  •  IV Le gru guerriere 100 percents.svg
  •  V Il remo confitto 100 percents.svg
  •  VI Il fuso al fuoco 100 percents.svg
  •  VII La zattera 100 percents.svg
  •  VIII Le rondini 100 percents.svg
  •  IX Il pescatore 100 percents.svg
  •  X La conchiglia 100 percents.svg
  •  XI La nave in secco 100 percents.svg
  •  XII Il timone 100 percents.svg
  •  XIII La partenza 100 percents.svg
  •  XIV Il pitocco 100 percents.svg
  •  XV La procella 100 percents.svg
  •  XVI L'isola Eea 100 percents.svg
  •  XVII L'amore 100 percents.svg
  •  XVIII L'isola delle capre 100 percents.svg
  •  XIX Il ciclope 100 percents.svg
  •  XX La gloria 100 percents.svg
  •  XXI Le sirene 100 percents.svg
  •  XXII In cammino 100 percents.svg
  •  XXIII Il vero 100 percents.svg
  •  XXIV Calypso 100 percents.svg
  • XVIII

    l’isola delle capre

         Indi più lungi navigò, più triste,
    E corse i flutti nove dì la nave
    or col remeggio or con la bianca vela.
    E giunse alfine all’isola selvaggia
    ch’è senza genti e capre sole alleva.
    [p. 82 modifica]
    E qui vinti da sonno e da stanchezza
    dormian sul lido a cui batteva l’onda.
         Ma con la luce rosea dell’aurora
    vide Odisseo la terra dei Ciclopi,
    non presso o lungi, e gli sovvenne il vanto
    ch’ei riportò con la sua forza e il senno,
    del mangiatore d’uomini gigante.
    Ed oblioso egli cercò l’Aedo
    per dire a lui: Terpiade Femio, il sogno
    dolce e dimenticato io lo risogno:
    era la gloria... Ma il vocale Aedo
    dormia sotto le stridule aspre foglie,
    e la sua cetra là cantava al vento
    il dolce amore addormentato in cuore,
    che appena desto solo allor ti muore.
    E l’Eroe disse ai vecchi remiganti:
         Compagni, udite. Qui non son che capre;
    e qui potremmo d’infinita carne
    empirci, fino a che sparisca il sole.
    Ma no: le voglio prendere al pastore,
    pecore e capre; ch’è, così, ben meglio.
    È là, pari a un cocuzzolo silvestro,
    quel mio pastore. Io l’accecai. Ma il grande
    cuor non m’è pago. Egli implorò dal padre,
    ch’io perdessi al ritorno i miei compagni,
    e mal tornassi, e in nave d’altri, e tardi.
    Or sappia che ho compagni e che ritorno
    sopra nave ben mia dal mio ritorno.
    Andiamo: a mare troveremo un antro
    tutto coperto, io ben lo so, di lauro.
    Avessi ancora il mio divino Aedo!
    Vorrei che il canto d’Odisseo là dentro
    cantasse, e quegli nel tornare all’antro
    sostasse cieco ad ascoltar quel canto,
    [p. 83 modifica]
    coi greggi attorno, il mento sopra il pino.
    E io sedessi all’ombra sua, nel lido!
         Disse, e ai compagni longiremi ingiunse
    di salir essi e sciogliere gli ormeggi.
    Salirono essi, e in fila alle scalmiere
    facean coi remi biancheggiare il flutto.
    E giunti presso, videro sul mare,
    in una punta, l’antro, alto, coperto
    di molto lauro, e v’era intorno il chiuso
    di rozzi blocchi, e lunghi pini e quercie
    altochiomanti. E il vecchio Eroe parlava:
         Là prendiam terra, ch’egli dal remeggio
    non ci avvisti; ch’a gli orbi occhio è l’orecchio;
    e non ci avventi un masso, come quello
    che troncò in cima di quel picco nero,
    e ci scagliò. Rimbombò l’onda al colpo.
         Ed accennava un alto monte, tronco
    del capo, che sorgeva solitario.
 Le sirene
Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de’ Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l’alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
     Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
     E gli sovvenne delle due Sirene.
C’era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
     Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch’hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
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che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
     Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl’invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
     E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
Io voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
     Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l’acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d’orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.



il vero

     Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene;
e disse agli altri d’inalzare i remi:
     La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il divino Odisseo vide alla punta
dell’isola fiorita le Sirene
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
     Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il vecchio vide che le due Sirene,
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le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
     Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
     Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
     E tra i due scogli si spezzò la nave.

calypso

     E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d’ontani e d’odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
nè dio nè uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d’olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell’onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz’orma come il vento,
sui prati molli di viola e d’appio?
Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
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l’uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?
     Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell’antro,
tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell’uve.
     Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
     Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
— Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! —



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