Post in evidenza

TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

giovedì 2 febbraio 2017

PENSARE E SENTIRE, AMARE E DIFFIDARE

Susan Sontag. Nel campo del desiderio

Marco Belpoliti (Doppiozero)
Oggi [16 gennaio 2017]  Susan Sontag avrebbe compiuto ottantaquattro anni. E invece se n’è andata dodici anni fa, dopo una lunga malattia, un cancro, di cui ha anche scritto (Malattia come metafora, Einaudi): un altro capitolo della sua lotta contro il mondo, e prima di tutto contro se stessa, un altro esempio della sua moralità. Per la scrittrice, saggista e regista americana la “moralità” è stata prima di tutto un comportamento; meglio: “una forma di azione, non un particolare repertorio di scelte”. Ma Susan Sontag è stata attenta al tema dell’estetica: la forma. Ne ha fatto il centro della sua indagine. E per lei etica ed estetica sono sempre state collegate. Nove anni fa, quando è uscito postumo uno dei suoi libri più belli, Nello stesso tempo (Mondadori), avevo scritto che v’era antagonismo tra la forma di coscienza rivolta all’azione, che è poi la moralità, e “quel nutrimento della coscienza che è l’esperienza estetica”. Credo che sia proprio così.

Perché questo conflitto? Perché Susan Sontag è stata non solo una scrittrice ma prima di tutto una intellettuale nell’epoca in cui veniva decretata la scomparsa di questa figura. Lo è stata come Pasolini. Lo stile, da lei perseguito con costanza, è la sintesi di etica ed estetica. In Sullo stile, il titolo di uno dei suoi saggi più noti, scrive che l’arte è morale in quanto riavvicinamento alla nostra sensibilità e della nostra coscienza. Leggendo Nello stesso tempo mi ero reso conto ancora una volta che Susan Sontag è stata una scrittrice e saggista pratica. Nel saggio che dà il titolo a quella raccolta di testi, scrive una cosa che mi fa sempre  pensare: “I narratori seri pensano ai problemi morali in termini pratici”. Che significa: raccontano sempre storie in cui possiamo identificarci, anche quando le vite narrate sono molto lontane dalle nostre; stimolano così la nostra immaginazione e “educano la nostra capacità di giudizio morale”. Educare: un verbo che non è molto usato dagli scrittori, o almeno non in questo significato. Quando sento quel verbo – educare – mi viene sempre in mente il finale de I sommersi e i salvati di Primo Levi, là dove parla dei nazisti e dice che non erano dei mostri – neppure Eichmann probabilmente lo era –, ma che erano stati educati male. Per educare, ed educarci, ci vuole sia l’etica che l’estetica. E la bellezza, che le unisce. Anche se Susan Sontag ne diffida, ma non può fare a meno di evocarla, di cercarla, la bellezza dello scrivere, prima di tutto. Le belle frasi, che non significa frasi eleganti (uno scrittore non scrive bene, semplicemente scrive: questo esattamente è lo stile). Frasi efficaci, come dice Susan Sontag, e perciò morali. Senza dubbio è stata una formidabile scrittrice di frasi. Il suo modo di scrivere e raccontare procede per cerchi concentrici: si avvicina progressivamente al centro di quello che vuol dire, ma non lo raggiunge mai; in quel procedere aggiunge però qualcosa d’indispensabile: ci aiuta a comprendere il mondo che è complesso, inafferrabile; eppure è sempre lì, davanti a noi. Le sue frasi, spesso quasi degli aforismi, ce lo mostrano, ce lo fanno vedere. Per questo Susan Sontag ha sempre tenuto in sospetto la fotografia, su cui ha scritto uno dei libri più importanti degli ultimi cinquant’anni: Sulla fotografia (Einaudi), libro inimitabile. Le fotografie – parla spesso di fotografie al plurale – ci aiutano a vedere il mondo e al tempo stesso lo ottundono, “identificano gli eventi” e nel contempo li anestetizzano. Banalizzano tutto. Lo dice in Fotografia: una breve summa, compresa in Nello stesso tempo. Eppure lei stessa ha raccontato che è stato proprio vedendo delle fotografie negli anni Quaranta, subito dopo la guerra, in una libreria in California, che ha avuto il primo shock della sua vita, da adolescente. Erano le foto dei Lager nazisti, dei sopravissuti allo sterminio ritratti dai reporter americani al seguito delle truppe vincitrici: mucchi di cadaveri accatastati. Un rapporto complesso quello con la fotografia, lo stesso che ha avuto John Berger, anche lui autore inimitabile, suo amico e complice in questa sintesi pratica di moralità ed estetica. Amare la fotografia e al tempo stesso diffidarne. Bisognerebbe fare così con tutto? Anche con la letteratura? [...]

Nessun commento:

Posta un commento