purissimo celeste, o
in te del sangue
emendino il
difetto i compri onori
e le adunate in terra
o in mar ricchezze
Come ingannar questi
noiosi e lenti
giorni di vita, cui sì lungo
tedio
e fastidio
insoffribile accompagna,
or io t’insegnerò.
Quali al Mattino,
quai dopo il Mezzodì,
quali la Sera
esser debban tue
cure apprenderai,
se in mezzo a gli ozi
tuo ozio ti resta
Già l’are a Vener sacre
e al giocatore
devotamente hai
visitate, e porti
pur anco i segni del
tuo zelo impressi:
ora è tempo di posa.
In vano Marte
a sé t’invita; ché ben
folle è quegli
che a rischio de la
vita onor si merca,
Né i mesti de
la Dea Pallade studj
ti son meno odïosi:
avverso ad essi
ti feron troppo i
queruli ricinti
ove l’arti migliori e
le scïenze,
cangiate in mostri e
in vane orride larve,
fan le capaci volte
eccheggiar sempre
odi quali il Mattino a
te soavi
cure debba guidar con
facil mano.
Sorge il
Mattino in compagnia dell’Alba
su l’estremo orizzonte
a render lieti
gli animali e le
piante e i campi e l’onde.
Allora il buon
villan sorge dal caro
letto cui la fedel
moglie e i minori
va col bue lento
innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol
sentier da’ curvi rami
il rudagioso umor che,
quasi gemma,
i nascenti del Sol
raggi rifrange.
Allora sorge il
Fabbro, e la sonante
l’altro dì non
perfette, o se di chiave
ardua e ferrati
ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura,
o se d’argento
e d’oro incider vuol
gioielli e vasi
Ma che? Tu
inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente,
irti i capegli
al suon di mie parole?
Ah non è questo,
Signore, il tuo
mattin. Tu col cadente
come dannato è a far
l’umile vulgo.
A voi, celeste prole,
a voi, concilio
di Semidei terreni,
altro concesse
Giove benigno: e con
altr’arti e leggi
Tu tra le
veglie e le canore scene
precipitose rote e il
calpestio
di volanti corsier,
lunge agitasti
il queto aere notturno;
e le tenèbre
con fiaccole superbe
intorno apristi,
siccome allor che il
Siculo terreno
da l’uno a l’altro mar
rimbombar feo
le tede de
le Furie anguicrinite.
Così tornasti a
la magion; ma quivi
cui ricopríen pruriginosi cibi
e licor lieti di
Francesi colli
o d’Ispani, o di
Toschi, o l’Ongarese
concedette corona, e
disse: Siedi
ti sprimacciò le
morbide coltríci
di propria mano, ove,
te accolto, il fido
servo calò le seriche
cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire
altrui.
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