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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

martedì 31 marzo 2015

Dalle Metamorfosi di Ovidio: Orfeo canta la storia di Mirra (X, 298 e sgg.)

Proprio in quest'isola nacque colui che avrebbe potuto essere annoverato tra gli uomini felici se non avesse avuto figli: Cinira. Sto per cantare un fatto atroce: allontanatevi di qui, o figlie, allontanatevi, padri! Oppure, se i miei versi stuzzicheranno il vostro interesse, non prestate fede al loro contenuto e non pensate che corrisponda a verità! Nel caso che poi vogliate crederci, credete anche alla pena che seguì il misfatto. Se tuttavia la natura consente che si perpetri una tale mostruosità sotto gli occhi di tutti, allora mi congratulo con la gente dell'Ismaro, mi congratulo col nostro mondo, con questa parte di terra, perché è lontana da quelle regioni che produssero un obbrobrio tanto grande! Lasciamo alla terra Pancaia le sue ricchezze di amomo, di cannella, di incenso  che trasuda dagli alberi e di tanti altri fiori, purché si tenga anche la mirra! Non bisognava pagare un prezzo tanto alto per avere un albero fino ad allora sconosciuto! Perfino Cupido sostiene che non furono le sue frecce a ferirti, o Mirra, e rifiuta la responsabilità di aver scatenato codesto incendio criminoso. Fu una delle tre Furie che indirizzò verso di te il fumo di un tizzone Stigio e il fiato dei serpenti gonfi di veleno! Se è un delitto odiare il padre, questo tipo d'amore è delitto maggiore dell'odio.  Da ogni parte del mondo accorreva, speranzoso, il fior fiore della nobiltà; la gioventù di tutto l'Oriente gareggiava per averti in sposa. Bastava che tu, o Mirra, ne scegliessi uno fra tutti, purché fra tutti non fosse quell'uno! La fanciulla se ne rendeva conto e resisteva con orrore a quel turpe amore, dicendo a se stessa: "Dove mi trascina il mio pensiero? Che cosa sto meditando? Vi prego, o dei, e tu Pietà e voi, leggi sacre degli avi, impedite questo misfatto, opponetevi al delitto che voglio compiere, se di delitto si tratta! Ma non è vero che la Pietà condanni questo tipo d'amore, gli altri animali si congiungono senza commettere colpa e nessuno considera cosa turpe che una giovenca venga montata dal padre; il cavallo si accoppia con sua figlia, i capri penetrano le femmine del gregge che hanno generato e perfino le femmine degli uccelli concepiscono figli da quel maschio che le ha procreate. Beati loro a cui ciò è consentito! La mentalità scrupolosa degli uomini ha imposto leggi restrittive e sono esse a vietare con cattiveria quello che la natura concede. Eppure si dice che esistano dei popoli in cui è lecito al figlio unirsi con la madre e alla figlia col padre: la dedizione familiare cresce con questo doppio vincolo d'amore. Me infelice, che non sono nata in quelle terre e sono invece ostacolata dal luogo che mi è toccato in sorte! Ma perché mi crogiolo in questi pensieri? Allontanatevi, speranze proibite! Cinira è degno di essere amato, ma di esserlo come lo è un padre. Allora, se io non fossi la figlia di questo grande uomo, potrei essere la sua amante! Invece, dato che è già mio, non può essere mio, ed è proprio questo legame familiare che mi danneggia. Se appartenessi a un'altra stirpe, avrei maggiori possibilità. Mi piacerebbe andarmene lontano, abbandonare la terra patria, pur di evitare il delitto; ma sono soggetta a una perversa passione che mi trattiene qui per poter vedere Cinira da vicino, toccarlo, parlargli, baciarlo, se di più non mi è concesso... Hai per caso il coraggio di concepire speranze più audaci, empia fanciulla, e non ti accorgi di quanta confusione crei tra le leggi e tra gli appellativi consueti? Ti sentirai di diventare la rivale di tua madre e la concubina di tuo padre? Di esser chiamata sorella di tuo figlio e madre di tuo fratello? E non avrai paura delle tre sorelle chiomate di neri serpenti che i colpevoli vedono avventarsi contro i propri occhi e il proprio volto, armate di truci fiaccole? No! Non soffermarti a immaginare quell'oltraggio che il tuo corpo non ha ancora subito e non pensare a contaminare le leggi della potente natura, giacendo con colui che essa ti nega! E poi, prova pure a ostinarti: lo stato delle cose te lo vieta! Cinira è un uomo pio e rispettoso della morale a cui non verrebbe mai meno !... Oh ! se anche lui provasse una folle passione simile alla mia!". Questi erano i suoi pensieri. Cinira intanto, in dubbio sul pretendente da scegliere per la figlia, perché tutti erano meritevoli, decise di sentire il parere di lei e le sottopose un elenco di nomi, chiedendole chi volesse per marito. Ella in un primo momento restò in silenzio e contemplandolo fissamente avvampava, mentre calde lacrime le inumidivano gli occhi. Cinira, credendo che questi fossero i sintomi di una virginale timidezza, la esortò a non piangere, asciugandole le lacrime e baciandola. Mirra di quei baci godeva molto più di quanto avrebbe dovuto e alla richiesta di chi volesse per marito, rispose: "Uno che ti somigli!". Il padre, fraintendendo naturalmente il significato delle parole, le lodò commentando: "Resta sempre così devota a tuo padre!". Sentendo menzionare la devozione filiale, la fanciulla abbassò il capo, consapevole della sua colpa. Era notte fonda e il sonno aveva portato pace ai corpi e agli spiriti.  Ma la figlia di Cinira non riusciva a dormire, divorata da un fuoco indomabile. E continuava a riproporsi i suoi folli progetti, ora disperando di attuarli, ora smaniosa di tentare, trattenuta dal pudore ma in preda al desiderio, incapace comunque di prendere una decisione. Come  un grande tronco, ferito dalla scure, non permette di prevedere dove andrà a cadere prima che l'ultimo colpo gli venga inferto e perciò si sta in guardia da ogni parte, così l'animo, indebolito dalle molte ferite, oscilla senza controllo in qua e in là e rimbalza nelle opposte direzioni. Mirra non riesce a immaginare altro mezzo per placare l'amore se non la morte. Decide di morire. Si alza dal letto, risoluta a introdurre la gola in un cappio, e lega la cintura in cima a uno stipite, mormorando: "Addio, caro Cinira! Cerca di capire il motivo della mia morte!". E si appresta ad accostare il laccio al collo esangue. Il suono delle parole giunge, a quanto pare, all'orecchio della fida nutrice che custodisce la soglia della camera della fanciulla. La donna balza in piedi, spalanca la porta e non fa in tempo a vedere i preparativi di morte che si mette a urlare, a percuotersi, a strapparsi le vesti: intanto toglie dal collo di Mirra il laccio e lo fa a pezzi. Allora finalmente si concede di abbandonarsi al pianto, stringe a sé la fanciulla e le chiede il motivo della tentata impiccagione. Ma quella resta in silenzio, con lo sguardo a terra, e si rammarica di esser stata sorpresa e che il suo tentativo di morire sia fallito. La vecchia incalza e, scoprendosi i bianchi capelli e i seni vuoti, la prega di confidarle il suo tormento, qualunque esso sia, in ricordo del latte che le dava quando era in culla. Mirra si sottrae alle sue preghiere gemendo.. Ma la nutrice è decisa ad andare fino in fondo e non solo a limitarsi a promettere la sua assistenza leale. "Parla con me" la esorta "e lascia che ti aiuti. Ho molte risorse, anche se sono vecchia. Se sei in preda a una smania d'amore, conosco chi con formule ed erbe ti farà rinsavire; se sei vittima di qualche sortilegio, un rito magico lo esorcizzerà; se si tratta di ira degli dei, ebbene, questa si può placare. A che altro posso pensare? Non hai problemi di famiglia, perché siete ricchi e tutto va bene. Tua madre e tuo padre sono in vita." All'udir pronunciare il nome del padre, Mirra trae un profondo sospiro che però la nutrice non interpreta ancora come la confessione di una turpe colpa, anche se intuisce che si tratta di una questione d'amore. Senza darle tregua insiste, supplicando la fanciulla di svelarle il suo segreto: la attira tutta in pianto sul suo vecchio seno e stringendola tra le sue deboli braccia le sussurra: "Ho capito: sei innamorata! Non temere! Mi darò da fare io per te, e tuo padre non si accorgerà mai di nulla!". Mirra balza su di scatto, liberandosi con insofferenza dall'abbraccio, si getta sul letto e premendovi contro il viso supplica: "Va' via! Abbi pietà del mio pudore e della mia infelicità!". E poiché quella insiste, aggiunge: "Vattene e smettila di chiedermi perché soffro! È un'infamia quella che vuoi conoscere!". La vecchia rabbrividisce: tendendo le mani tremanti per l'età e per l'angoscia si prosterna ai piedi della ragazza e si serve un po' delle tenerezze, un po' dei modi bruschi: minaccia di rivelare il tentativo di impiccagione se non sarà messa al corrente del segreto d'amore, promette il proprio aiuto se questo le verrà confidato. Mirra solleva il capo e, inondando di lacrime il petto della nutrice, tenta più volte di parlare e altrettante si trattiene; poi, coprendosi con la veste il viso pieno di vergogna, mormora: "Beata te, o madre, per lo sposo che hai!". E si interrompe gemendo. La nutrice finalmente capisce e un brivido di gelido terrore le penetra fin nelle ossa mentre i bianchi capelli le si rizzano in testa; poi pronuncia un diluvio di parole per tentare di dissuaderla dall'empia passione. La fanciulla riconosce che i suoi ammonimenti sono giusti, ma è decisa a morire se non otterrà l'oggetto dei suoi desideri. Allora la nutrice si risolve a dire: "Vivi e avrai tuo..." ma non osa pronunciare la parola "padre" e si arresta lì, avvalorando la promessa con un giuramento. [vv. 431-458] Le pie matrone celebravano la festa di Cerere, quella festa in cui, vestite di bianco, offrivano alla dea le primizie delle sue messi, cioè corone di spighe; e per nove notti consideravano proibiti i rapporti d'amore con gli uomini. In mezzo a quella folla c'è anche Cencreide, la moglie del re, intervenuta per celebrare i sacri misteri. Dunque, cogliendo con destrezza la malaugurata occasione in cui il letto regale è privo della sposa, la nutrice sorprende Cinira alterato dal vino e gli 7 rivela che una donna è innamorata di lui: dice la verità, ma mente sul nome della fanciulla di cui decanta la bellezza. Il re si informa sull'età di lei e riceve questa risposta: "Ha l'età di Mirra". Allora comanda che gliela si porti. La nutrice torna indietro e annuncia a Mirra: "Rallegrati, bambina mia! Abbiamo vinto!". L'infelice fanciulla non riesce a gioire completamente; il suo spirito è in preda a un angoscioso presagio, ma non può nemmeno sottrarsi al giubilo: tanto grande è la confusione dei suoi sentimenti. È venuto il momento in cui tutto tace e tra le stelle dell'orsa Boote, inclinando il timone, ha fatto virare il suo carro. Mirra si avvia a consumare il suo delitto.  La notte fonda e tenebrosa attenua la sua vergogna. Con la sinistra tiene la mano della nutrice, con la destra protesa esplora il cammino oscuro. Già è sulla soglia della camera da letto, già ne apre la porta, già vi si introduce. Ma in quel momento le tremano le ginocchia e le gambe le cedono, non ha più una goccia di sangue, non ha più colore e le manca il coraggio di andare avanti. Quanto più si avvicina al compimento del suo delitto, tanto più ne ha orrore e si pente della sua audacia e vorrebbe poter tornare indietro senza esser riconosciuta. Ma la mano della vecchia la sostiene nella sua esitazione e l'accompagna; facendola accostare al letto e presentandola, dice: "Prendila, o Cinira, è tua!" e favorisce l'unione maledetta dei due corpi. Il padre accoglie nel suo letto impuro il frutto delle sue viscere e rassicura e rincuora la fanciulla che manifesta un virginale timore. È probabile che in grazia dell'età l'abbia chiamata anche "figlia" e che lei gli abbia risposto "padre", perché, a sottolineare l'infamia, si aggiungano anche i nomi. Ingravidata dal padre, Mirra esce dalla camera e nel suo ventre corrotto porta l'empio seme, la creatura concepita nell'incesto. La notte seguente vede il ripetersi dello scellerato connubio e non è l'ultima. Infine Cinira, smanioso di vedere l'amante dopo essere giaciuto con lei tante volte, accosta al letto una lanterna e illumina contemporaneamente la sua infamia e sua figlia; la costernazione gli impedisce di parlare ma si slancia a strappare dal fodero, appeso lì vicino, la spada splendente. Mirra riesce a fuggire e con l'aiuto dell'oscurità della notte si sottrae alla morte. Vaga in lungo e in largo per la campagna, abbandonando i territori ricchi di palme degli Arabi e quelli della Pancaia, e continua il suo vagabondare per ben nove lune: finalmente sfinita si arresta in terra Sabea. Fa ormai fatica a portare il peso del ventre. A questo punto, non sapendo che cosa augurarsi, incerta tra la paura di morire e il disgusto di vivere, abbozza questa preghiera: "O numi, se qualcuno di voi è disposto ad ascoltare chi si pente, io lo faccio e non nego di aver meritato questo terribile supplizio. Ma perché io non contamini i vivi con la mia presenza e i defunti con la mia morte, scacciatemi dal regno degli uni e degli altri. Cambiate il mio aspetto e privatemi sia della vita che della morte!". C'è quel dio che ascolta i pentiti: certamente ci fu quello che ascoltò il suo ultimo desiderio. Mentre ancora sta parlando, la terra le ricopre le gambe, le unghie dei piedi si spezzano e attraverso esse spuntano oblique radici che si protendono a costituire la base di un alto tronco; alle ossa si sostituisce il legno che mantiene dentro di sé il midollo, mentre il sangue si trasforma in linfa; le braccia diventano grandi rami, le dita ramoscelli; la pelle si indurisce formando la corteccia. E ormai l'albero, crescendo, ha avviluppato il ventre gravido e coperto il petto e già sta per arrivare al collo: Mirra non sa aspettare e si accoccola dentro il legno che sale e immerge il volto nella corteccia. Perde, è vero, insieme al corpo la sensibilità di prima, ma continua a piangere e tiepidegocce trasudano dall'albero. Anche le lacrime hanno una loro dignità: la mirra che stilla dall'albero detiene il nome della fanciulla che l'ha portato e resterà famosa per sempre. Intanto la creatura concepita nel peccato era cresciuta sotto il legno e cercava una strada per districarsi e lasciare la madre. Il feto formava un rigonfiamento a metà dell'albero e opprimeva le viscere materne senza che il dolore potesse esprimersi con parole e Lucina essere invocata dalla partoriente. L'albero tuttavia si curvò, assumendo l'aspetto di chi fa uno sforzo, ed emise dei gemiti, stillando abbondanti lacrime. Allora Lucina pietosa si arrestò presso i rami contratti dal dolore e toccandoli pronunciò le parole che favoriscono il parto. La corteccia si spaccò e attraverso la fenditura fu emesso il bambino: era vivo e cominciò a vagire. Fu raccolto dalle Naiadi che lo deposero sul morbido prato e lo unsero con le lacrime della  madre. Era talmente bello che perfino l'Invidia ne avrebbe lodato l'aspetto. Sembrava uno di quegli Amorini nudi che si vedono dipinti sui quadri, salvo un'unica differenza, facile da eliminare: non aveva in dotazione la faretra che invece quelli sogliono portare [...].

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