Caro papà
La mia vita era tranquilla, forse anche monotona, ma
comunque tranquilla.
Come un cerchio all'interno del quale ogni cosa che
iniziava, finiva allo stesso modo, nello stesso luogo.
Come uno dei giochi che amavo ripetere quasi ogni giorno: girare, girare e
poi tornare al punto di partenza. E qui, ricevere un bel premio.
Al sorgere delle prime luci, la mattina, ero sempre il
primo ad alzarmi di tutta la famiglia e, affacciandomi al davanzale, osservavo
silenziosamente quel che accadeva intorno. I primi rumori dalle altre stanze
iniziavano a udirsi. Dopo poco arrivava mio padre e, come al solito, mi prendeva tra le sue grandi
braccia e mi portava a fare le mie passeggiate quotidiane, attaccandomi tanti fili con delle ventose in
ogni parte del corpo.
Il mio percorso non variava mai e questo mi faceva
sentire confinato e sicuro, al riparo da aggressioni. Quello era il mio mondo.
Finito di correre, il più delle volte aspettavo che mio padre mi
riaccompagnasse nella mia piccola stanza.
Mio padre era
proprio un caro genitore. Si prendeva cura di me tutto il giorno tutti i giorni
e passava ore a guardarmi. Di mia madre, invece, non avevo notizie. Non l'avevo
mai vista. Era sempre stato papà ad allevarmi, a darmi da mangiare, da bere, e
a curarmi da tutti i mali che mi prendevo, chissà perché.
Dopo l'esercizio fisico, la mia giornata proseguiva
con un pasto abbondante, sempre sotto gli occhi vigili di mio padre. Tutto il
resto della mia vita, la passavo a gironzolare per casa in cerca di
qualche spunto per fare qualcosa che non
fosse mangiare o correre.
Un'altra attività a cui mi dedicavo nei momenti più
noiosi era sognare: un mondo meno ordinato e prevedibile, dove non si sapesse
cosa sarebbe accaduto il giorno dopo. E questo, nonostante mi entusiasmasse,
allo stesso tempo mi impauriva a morte. Un mondo nel quale potesse
accadere altro, oltre al correre al
mangiare e al dormire, pensavo fosse al di fuori dalla mia portata, della mia capacità
di controllo.
Sognavo soprattutto, sogni complicati e colorati, dopo
che papà mi dava certe sue medicine, quando mi scioglieva tante pastiglie nell'acqua, o quando mi faceva con
le siringhe piccole iniezioni, che lui
definiva “a fin di bene”.
Ma venne un giorno in cui crollò il mio mondo.
Mio padre arrivò al mattino con un’espressione felice
sul volto. Pensai che avesse trovato il sistema per guarirmi da tutti i miei
strani mali. Mi convinsi che non mi avrebbe più dovuto curare con ventose,
pastiglie e siringhe. Per questo mi abbandonai alle sue braccia con fiducia e
gli diedi un piccolo bacio, che lui stranamente non contraccambiò.
Mi guardò, però, per alcuni lunghi istanti, poi
distolse lo sguardo e, diversamente dal solito, affidò a una signora tutta
vestita di bianco, che non avevo mai visto prima, il compito di iniettarmi
qualcosa con una siringa particolarmente grossa. Mi dimenai un poco, ma sono
sempre stato molto debole e non potei impedire che il liquido entrasse nel mio
corpo. Sentii un bruciore violento invadermi le membra e iniziai a zampettare
furiosamente nell’aria. Poi percepii con chiarezza che il mio pelo stava
cadendo, feci in tempo a sentirmi tutto nudo,
tanto inerme, dolorante in ogni fibra e infine, con un ultimo spasimo,
rimasi immobile. Proprio un attimo prima
di morire, sentii la voce di mio padre, fredda, senza inflessioni, pronunciare
la frase che suonò mio congedo dal mondo:
“Portalo pure via, abbiamo bisogno di un’altra cavia”.
Matteo Domenichelli
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