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domenica 14 ottobre 2012

scrittura creativa straniamento


Caro papà

La mia vita era tranquilla, forse anche monotona, ma comunque  tranquilla.
Come un cerchio all'interno del quale ogni cosa che iniziava, finiva allo stesso modo, nello stesso luogo.
Come uno dei giochi che amavo  ripetere quasi ogni giorno: girare, girare e poi tornare al punto di partenza. E qui, ricevere un bel premio.
Al sorgere delle prime luci, la mattina, ero sempre il primo ad alzarmi di tutta la famiglia e, affacciandomi al davanzale, osservavo silenziosamente quel che accadeva intorno. I primi rumori dalle altre stanze iniziavano a udirsi. Dopo poco arrivava mio padre e,  come al solito, mi prendeva tra le sue grandi braccia e mi portava a fare le mie passeggiate quotidiane,  attaccandomi tanti fili con delle ventose in ogni parte del corpo.
Il mio percorso non variava mai e questo mi faceva sentire confinato e sicuro, al riparo da aggressioni. Quello era il mio mondo. Finito di correre, il più delle volte aspettavo che mio padre mi riaccompagnasse nella mia piccola stanza.
Mio padre  era proprio un caro genitore. Si prendeva cura di me tutto il giorno tutti i giorni e passava ore a guardarmi. Di mia madre, invece, non avevo notizie. Non l'avevo mai vista. Era sempre stato papà ad allevarmi, a darmi da mangiare, da bere, e a curarmi da tutti i mali che mi prendevo, chissà perché.
Dopo l'esercizio fisico, la mia giornata proseguiva con un pasto abbondante, sempre sotto gli occhi vigili di mio padre. Tutto il resto della mia vita, la passavo a gironzolare per casa in cerca di qualche  spunto per fare qualcosa che non fosse mangiare o correre.
Un'altra attività a cui mi dedicavo nei momenti più noiosi era sognare: un mondo meno ordinato e prevedibile, dove non si sapesse cosa sarebbe accaduto il giorno dopo. E questo, nonostante mi entusiasmasse, allo stesso tempo mi impauriva a morte. Un mondo nel quale potesse accadere  altro, oltre al correre al mangiare e al dormire, pensavo fosse al di fuori dalla mia portata, della mia capacità di controllo.
Sognavo soprattutto, sogni complicati e colorati, dopo che papà mi dava certe sue medicine, quando mi scioglieva tante  pastiglie nell'acqua, o quando mi faceva con le siringhe piccole iniezioni,  che lui definiva “a fin di bene”. 
Ma venne un giorno in cui crollò il mio mondo.
Mio padre arrivò al mattino con un’espressione felice sul volto. Pensai che avesse trovato il sistema per guarirmi da tutti i miei strani mali. Mi convinsi che non mi avrebbe più dovuto curare con ventose, pastiglie e siringhe. Per questo mi abbandonai alle sue braccia con fiducia e gli diedi un piccolo bacio, che lui stranamente non contraccambiò.
Mi guardò, però, per alcuni lunghi istanti, poi distolse lo sguardo e, diversamente dal solito, affidò a una signora tutta vestita di bianco, che non avevo mai visto prima, il compito di iniettarmi qualcosa con una siringa particolarmente grossa. Mi dimenai un poco, ma sono sempre stato molto debole e non potei impedire che il liquido entrasse nel mio corpo. Sentii un bruciore violento invadermi le membra e iniziai a zampettare furiosamente nell’aria. Poi percepii con chiarezza che il mio pelo stava cadendo, feci in tempo a sentirmi tutto nudo,  tanto inerme, dolorante in ogni fibra e infine, con un ultimo spasimo, rimasi immobile.  Proprio un attimo prima di morire, sentii la voce di mio padre, fredda, senza inflessioni, pronunciare la frase che suonò mio congedo dal mondo:  
“Portalo pure via, abbiamo bisogno di un’altra cavia”.
Matteo Domenichelli

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