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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

giovedì 26 dicembre 2013

In una custodia di violino

Non è esattamente quello che ho detto nella "lezione gratuita" di sabato 21 dicembre, ma quanto di più affine, e ordinato, sono riuscita a concepire sinora su questo argomento. Così, tra l'altro, potete farvi un'idea di quali distanze intercorrano fra concepire, scrivere, parlare e di come a determinare effetti comunicativi più o meno efficaci concorrano pensiero, immaginazione, creatività, istinto e, perché no, un pizzico di casualità. Unico problema: le parole scritte in greco risultano, nella trascrizione del post, trasformate in quadratini. Stupidità del sistema o insipienza mia.
 IN UNA CUSTODIA DI VIOLINO 
 “Cosa ci volete fare se avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti, all’improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste d’un tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi bruciasse dentro, spandendo una pioggerellina di scintille in ogni intima fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi?"(K. Mansfield, Racconti, Felicità
 In un racconto intitolato Felicità Katherine Mansfield attribuisce alla sua protagonista, la trentenne Bertha Young, la capacità di provare con intensità e in modo assoluto tale difficile (quanto alla possibilità di sperimentarlo, ma anche a quella di definirlo) sentimento. Un pezzo lucente di sole che brucia dentro, spandendo scintille in ogni fibra. Una possibilità, che la civiltà di solito nega, di uscire dall’astuccio in cui il corpo viene tenuto, come fosse un prezioso violino. Tutto il racconto si tesse intorno a questo sentimento delicato e violento al tempo stesso, che informa di sé la protagonista e ispira ogni suo gesto: “dentro di lei c’era ancora quell’ardente punto luminoso e quella pioggia di scintille che ne scaturiva. Era insopportabile. Quasi non osava respirare per timore di accrescerne la fiamma”. Così ella attende che da un momento all’altro accada qualche cosa di divino, presagio che però non è mai confermato dalla realtà, anzi. Dalla realtà provengono segnali opposti oppure motivi di fraintendimento: basti pensare a tutta la scena con la bambina nella nursery, alla telefonata con Harry, alla cena con gli amici e soprattutto all’intesa con Miss Fulton. Ma la felicità fatta di pezzi di sole è più forte di qualsiasi cosa. Nella sua infondatezza (“Sono assurda. Assurda! si dice Bertha quando cerca di spiegarsi perché si senta così felice, e conclude che forse è la primavera…) riesce a durare perfino a lungo, il tempo di sentirsi in un “cerchio di luce irreale, in un’intesa reciproca perfetta, creature di un altro mondo che si chiedevano cosa fare in questo, con tutto il tesoro di felicità che bruciava loro nel petto” proprio con la persona che sta spezzandole l’esistenza. Miss Fulton, infatti, Bertha lo scoprirà alla fine del racconto, è l’amante appagante e appagata di suo marito, di colui che lei, proprio a seguito del fatto di aver provato quell’assurda felicità, all’improvviso desidera ardentemente, dopo esser stata a lungo con lui frigida. Una felicità può essere profonda e inconsistente. Può non significare niente di là da se stessa. Può essere assurda, cioè inspiegabile e infondata. Nella novella di Pirandello Felicità (Novelle per un anno, Il viaggio) è narrata la storia di una ragazza, Elisabetta, che appartiene a una famiglia dell’alta nobiltà assai decaduta: suo padre, Don Gaspare Grisanti è duca di Rosàbia, marchese di Collemagno, barone di Fontana e di Gibella, nostalgicamente devoto al passato governo delle due Sicilie, ma è ormai giunto alla quasi totale consunzione del patrimonio e, con esso, dello spirito. Asserragliato nel palazzo di famiglia, dal quale esce sporadicamente e solo in una monumentale e obsoleta carrozza corredata di tre valletti in parrucca, egli tratta con malcelato disprezzo la moglie e la figlia, rea quest’ultima di volersi maritare con un comune maestro, precettore dei nipotini venuti a trascorrere un po’ di tempo presso i nonni e da Elisabetta teneramente amati. Elisabetta, in effetti, non si è innamorata del precettore, tal Fabrizio Pigniterra. A indurre lei, mai stata bella e ormai anche un poco attempata (è maggiore di sette anni dell’aspirante sposo), a cercare di “farsi sposare” è il desiderio dirompente, irrefrenabile, di avere un figlio. Esso la induce a insistere (attraverso la madre) presso l’austero padre, per avere il consenso e una dote anche se minima, consapevole del fatto che Fabrizio si è convinto a chiederla in sposa unicamente per interesse. Tollerando dunque non poche umiliazioni (lo sdegno del padre, che la costringe a sopportare severissime regole e divieti in cambio del suo consenso; la degnazione del marito, che la considera uno strumento per ottenere un po’ di danaro di cui farà pessimo uso), ella corona quello che è il suo scopo esistenziale: “voleva vivere, vivere: cioè esser madre, voleva: un figlio, voleva, suo, tutto suo; e non avrebbe potuto averlo altrimenti”. Questa “frenesia”, come la definisce l’autore, le era nata a seguito del contatto coi suoi nipotini, ch’ella avrebbe desiderato fossero carne sua. E per ottenere questo risultato, la felicità per lei, è disposta a soffrire qualunque dolore, qualunque umiliazione. Che non le vengono risparmiati: il marito la maltratta e poi la abbandona, il paese chiacchiera alle sue spalle e solo la madre cerca di restarle accanto il più possibile. Ma lei vive in una nube di felicità, a partire dal momento in cui scopre di essere incinta. Quando poi il bambino finalmente nasce, la novella si chiude su questa scena rivelatrice: alla madre che è venuta tutta dolente a dirle che il padre ancora rifiuta di accoglierla nel palazzo di famiglia, Elisabetta “in mezzo alla nuda, santa semplicità della casetta, levò in alto il suo bambino al sole che entrava festivamente, con la frescura degli orti, dai balconi spalancati”. Rispetto alla felicità dipinta dalla Mansfield nel racconto che reca il medesimo titolo, questa appare sentimento più sostanziale. Oggetto di una ricerca consapevole e profonda. Una ricerca che conduce alla radice della vita o, meglio forse, alla sua matrice. Elisabetta è una donna consapevole di ciò che può renderla completa: la maternità. In questa novella di Pirandello, dunque, l’idea di felicità è associata a quella di nascita e di maturazione, giacché Elisabetta annette all’essere madre un significato importante per se stessa: diventando madre dà un senso alla sua esistenza, un senso così completo che qualunque sofferenza e umiliazione sono valutate un costo sostenibile. Si tratta di una meta da raggiungere che richiede da parte sua una volontà ostinata, invincibile. A dimostrazione di ciò il fatto ch’ella sopporti volonterosamente lo sdegno e il disprezzo paterni. Il premio però è sommamente appagante: la felicità rende liberi. Questo si legge nel gesto con cui Elisabetta solleva il figlio all’aria e alla luce. La madre, che lei ha voluto imperiosamente essere, è una donna libera e felice. Libera dai legami parentali opprimenti, libera dalla costrizioni sociali. Un vero trionfo della vita, in cui si compendiano finalmente due delle chimere più ricercate dall’umanità. Si capisce, allora, che i due scrittori avevano in mente due idee di felicità profondamente diverse. Quella di Pirandello risale al cuore etimologico del termine, per cui felicità, dal latino felicitas , deriva dalla radice indoeuropea fe, indicante tutto ciò che ha a che fare con la fecondità: da fe vengono infatti fecundus, foemina, fetus e, attraverso una modificazione fonetica, filius. L’idea è legata a quella di generazione, espansione, sviluppo: partendo dall’etimologia, dunque, si può identificare la felicità con una illimitata espansione, anzi col sentimento di una illimitata espansione. Più precisamente, dovremmo intendere tale espansione illimitata come crescita costante, alla quale rimanga estraneo il senso della sazietà , da ritenersi un ostacolo per la crescita medesima. La scrittrice neozelandese evoca invece una felicità che sembra piuttosto equiparabile a uno stato di ebbrezza. Uno stato emotivo che affonda le sue radici nell’incoscienza. Chiave di volta di tale interpretazione è il termine “assurdo”: “Sono assurda. Assurda!, dichiara Bertha felice. E l’assurdità è riferita proprio, non casualmente, al tentativo della ragione di dare spiegazioni allo stato di ebbrezza: sarà che lei ha una bella famiglia, nessuna preoccupazione economica, una bella casa, una brava sarta… Allora questo forse non è un racconto sulla felicità, ma sulla gioia momentanea, sulla beatitudine momentanea, sull’estasi, persino, che in effetti etimologicamente deriva dal verbo greco , che significa metto fuori, faccio uscire [dalla mente]. Quell’estasi riempie di sé ogni spazio di noi, sicché è la nostra ragione a starsene fuori (ecco che riaffiora l’assurdo, ovvero ciò che contrasta con l’esperienza logica, con la mente). Tornando alla felicità della novella di Pirandello, allora, essa sembra evocare in modo quasi diretto il significato che a questo stato dello spirito assegnavano alcuni filosofi antichi. Nella concezione aristotelica (Ethica Nicomachea), per esempio, la natura stessa degli esseri umani li porta a cercare il bene, a cercare ciò che è loro utile e che non distrugge la loro personalità ma la arricchisce e le consente di svilupparsi, di continuare a vivere, di permanere nell’essere. All’inizio dell’Ethica Aristotele, poco dopo aver affermato che il bene è ciò che tutti gli uomini perseguono, afferma che quando si persegue il bene () si persegue la felicità (). In un altro passo dell’Ethica Aristotele cita un luogo della tragedia greca in cui si afferma che chi ha un buon daimon non ha bisogno di amici. Sembrerebbe dunque che in un primo tempo la felicità fosse considerata indipendente dalla volontà dell’uomo e legata a altre forze, altri esseri (il daimon), i quali liberamene e gratuitamente potevano decidere di elargirla. Chiaro che questa ideologia è determinata dalla constatazione - originaria - che vi sia chi ha poco e chi ha molto e che in generale i beni siano scarsi. Nel corso della storia della filosofia greca questa idea è mutata: si è cominciato a ritenere la felicità qualcosa di conseguibile attraverso un opportuno impiego delle risorse umane. Essa ha smesso di essere uno stato passivo, per diventare un processo, una lotta, una tensione, un percorso, un progresso verso una struttura, un adeguamento dell’io al mondo circostante. La felicità, per questa via, entra poi in rapporto con le possibilità offerte da una società nella quale tutti gli elementi che la compongono collaborano a un progetto comune. La felicità del soggetto si trova perciò a essere condizionata se non determinata dalla felicità altrui. Seneca, nelle Epistulae ad Lucilium scrive che la sola cosa in grado di dare la felicità è “disprezzare e calpestare” i “beni che vengono dal di fuori” per gioire esclusivamente di ciò che è davvero nostro ovvero “noi stessi e la parte migliore di noi”. In particolare “il vero bene […] nasce dalla buona coscienza, dai pensieri onesti e dal retto operare, dal disprezzo degli avvenimenti fortuiti, dal sereno e costante sviluppo di un’esistenza che batte sempre la stessa via. Infatti coloro che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno trascinare da una qualunque circostanza sempre incerti e vaganti, come possono avere una condotta sicura e stabile?” *** Una volta che la felicità da esperienza in atto diviene esperienza vissuta, allora si trasforma in desiderio ossia in ricerca di realizzazione di se medesima. Sotto questo profilo anche oggi si può considerare la felicità tema della virtù (nel senso che ricercarla può diventare un’esperienza virtuosa). Ma vorrei ora dare un’altra svolta al discorso, per recuperare un nuovo luogo narrativo riconducibile al nostro tema centrale. A tale scopo mi servo di un aforisma di Kierkegaard, parte dei . In esso si legge che l’autore, rapito al settimo cielo presso gli dei e invitato a esprimere un desiderio (“vuoi la giovinezza, la bellezza, la forza…”) sceglie “di avere il riso sempre dalla [sua] parte”, ovvero, ci par di capire, una specie di felicità che potremmo ricondurre alla gioia perpetua dei mistici (raffigurata da Dante nel “ridere e felice” di Beatrice nell’Empireo) così come (consapevoli dell’opposizione) a uno stato dionisiaco di ebbrezza quale raffigura Hesse nel suo romanzo Il lupo della steppa. Il protagonista di esso, il cinico e disperato intellettuale Harry Haller, viene sottoposto a una sorta di “corso di formazione alla felicità” da una misteriosa e bella fanciulla di nome Erminia, che lo coinvolge in un gioco amoroso pieno di ambiguità (giacché, oltre a Harry, vi partecipano un’altra donna e un altro uomo e i ruoli sono interscambiabili), nel quale si mescolano richiami al piacere, vissuto in tutte le sue possibili manifestazioni, e alla morte. Motivo conduttore di questa singolare ricerca della felicità è, oltre al sogno, anche il riso. In particolare il riso degli immortali, come Mozart, che compare quale ironico, talora sarcastico, interlocutore dell’intellettuale, che egli richiama - par di comprendere - soprattutto alla leggerezza, tant’è vero che, nel teatrino di sogno con la cui evocazione si conclude il romanzo, evoca per lui le anime di Wagner e di Brahms, la cui punizione ultraterrena (se così la si può definire) consiste nell’essere trascinati da migliaia di uomini nerovestiti i quali altro non sono che gli esecutori di voci e note giudicate da Dio “sovrabbondanti” o inutili nelle loro partiture. La supposta “pesantezza” dei due musicisti si contrappone facilmente alla cosiddetta leggerezza mozartiana, così come nella “vita reale” di Harry la sua pesante serietà viene travolta dalla sensualità felice di Erminia e dei suoi amici. In questo romanzo, insomma, la felicità coincide col riso degli immortali, ovvero con con la capacità (che Hesse di sicuro mutua dalle filosofie orientali e particolarmente dal buddismo, a lui molto congeniale) di sollevare il velo delle illusioni dietro al quale si cela la realtà: per capire cos’essa sia, occorre entrare nel teatrino immaginifico di Erminia e compagni. Un luogo non luogo dove tutto ciò che è vero è falso e dove occorre saper giocare e ridere. Harry, che non sa fare né l’una né l’altra cosa, interpreta le visioni come realtà (com’è proprio di chi non sa nulla del velo di Maia) e commette perfino un atto criminale: uccide Erminia per un soprassalto di gelosia. Per questo si merita una feroce condanna: essere deriso da un coro di immortali e continuare il suo faticoso cammino di apprendista della felicità di vivere.

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