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martedì 15 luglio 2014
Israele - Gaza (per ricordare: articolo del 2012) - Fatti odierni
DI LEILA FARSAKH *
«Mentre il popolo arabo afferma la propria aspirazione alla democrazia attraverso la “primavera araba”, è arrivato il momento per una primavera palestinese, l’ora dell’indipendenza», dichiarava Mahmoud Abbas davanti all’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu), il 23 settembre 2011, fra gli applausi scroscianti dei presenti. Un anno dopo, quando il presidente dell’Autorità palestinese torna davanti alla stessa assemblea (1), la guerra di Israele contro Gaza ha confermato la tenacia della resistenza dei palestinesi, il loro rifiuto di sparire dalla scena politica, ma anche i rapporti di forza che sembrano rendere inaccessibile il loro sogno di indipendenza, con gli Stati uniti e l’Unione europea che sostengono le posizioni del governo di Tel Aviv. Il bilancio dell’offensiva israeliana, che si è conclusa il 21 novembre grazie a un cessate il fuoco negoziato in particolare dal presidente egiziano Mohamed Morsi, proveniente dal movimento dei Fratelli musulmani, non è negativo per Hamas. Malgrado i numerosi morti civili, le centinaia di feriti, le distruzioni indiscriminate, l’organizzazione, rivale di Fatah e dell’Autorità palestinese, ne esce rafforzata. La sua popolarità a Gaza, che si era erosa a causa dei metodi di governo, si è consolidata: essa ha dato prova di capacità militari che molti palestinesi ritengono necessarie di fronte all’occupazione e ha ottenuto un alleggerimento del blocco che il presidente Abbas, come gli Stati uniti e l’Unione europea, reclamavano da anni ma non erano stati in grado di imporre. Infine, Hamas si è vista riconoscere come un interlocutore legittimo dal mondo arabo e dalla Turchia. A Gaza infatti si sono avvicendati il primo ministro egiziano, il ministro degli Esteri tunisino e una delegazione della Lega araba. Questa crisi israelo-palestinese, la prima dall’inizio della «primavera araba», non può tuttavia nascondere l’esigenza senza precedenti di democrazia che è emersa in Medioriente. Nel contesto palestinese, questa «primavera» ha incoraggiato la popolazione a reclamare con maggiore insistenza la fine del processo di Oslo nonché l’esame critico del regime che ne è risultato e del principio che ne è alla base: quello di due stati separati. Ha messo inoltre in luce il conflitto che oppone una gran parte dei palestinesi, in particolare i giovani, e la loro classe politica sul futuro della lotta per l’indipendenza e sul senso da darle. Dal febbraio 2011, i palestinesi erano scesi in piazza per manifestare il loro sostegno alla rivoluzione egiziana. A Ramallah, Gaza e Nablus, una folla di persone qualunque, di giovani, di personalità politiche indipendenti e di membri di organizzazioni non governative (Ong) coglieva l’occasione per reclamare la fine delle ostilità fratricide tra Fatah e Hamas, al potere rispettivamente in Cisgiordania e a Gaza dal 2007. I due rivali avevano reagito alla pressione popolare avviando, a partire dal maggio 2011, dei negoziati che sono sfociati nella firma di tre accordi di riconciliazione. Rimasti lettera morta, questi accordi hanno tuttavia consolidato la legittimità di Hamas nel sistema politico. Fallendo nel restaurare una parvenza di unità nazionale, i responsabili delle due parti non hanno fatto che esacerbare il malcontento della piazza. Abbandonare il «processo di pace» Dopo quel maggio 2011, si è affermata anche una mobilitazione nonviolenta, fondata sul lavoro di diverse organizzazioni, come Stop the Wall Campaign (contro il muro), il Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds), le Ong per la difesa dei diritti umani, le associazioni di donne, i collettivi di sostegno ai prigionieri politici, i sindacati, etc. Tra raduni sotto le finestre della Muqata, la sede dell’Autorità palestinese a Ramallah, manifestazioni a Kalandia, il villaggio check-point che sbarra la strada fra Ramallah e Gerusalemme, campagne d’informazione sui social network, scioperi contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, l’effervescenza sociale ha assunto varie forme, ma le rivendicazioni che esprimeva erano molto chiare. La prima riguardava il riconoscimento dei diritti nazionali del popolo palestinese che, agli occhi dei manifestanti, non si limitano all’esistenza di uno stato, ma includono il ritorno dei rifugiati e il pieno esercizio delle libertà politiche. Il 15 maggio 2011, giorno della commemorazione della Nakba (la «catastrofe» costituita dall’espulsione dei palestinesi nel 1948, dopo la creazione di Israele), un corteo che riuniva dei collettivi di giovani, i comitati popolari e varie Ong sfilava lungo il muro di separazione per riaffermare il carattere inalienabile del diritto al ritorno. In Israele, i residenti palestinesi si associavano all’iniziativa organizzando raduni commemorativi sui luoghi di diversi villaggi distrutti nel 1948. In secondo luogo, i manifestanti reclamavano il rilancio del processo democratico in seno alla società palestinese nel senso più ampio del termine, nei frammenti di territorio amministrati da Fatah e Hamas. Le organizzazioni all’avanguardia del movimento, come il Movimento indipendente della gioventù (al-Harak al-Shabab al-Mustaqil) e il gruppo Palestinesi per la dignità, non si accontentavano di chiedere nuove elezioni in Cisgiordania e Gaza, ma si spingevano fino a chiedere lo scioglimento del Consiglio nazionale palestinese (Cnp) e il suo rinnovo attraverso il voto. Organo legislativo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), il Cnp dovrebbe rappresentare l’insieme dei palestinesi, compresi i rifugiati, i membri della diaspora e gli arabi israeliani. Marginalizzato dagli accordi di pace di Oslo, non si è più riunito dal 1988. Sottolineando la loro volontà di rifondare questo parlamento fantasma, i giovani dei territori occupati si impossessavano di una rivendicazione a lungo reiterata dalle organizzazioni della diaspora, nella speranza di rimettere insieme i pezzi di un corpo politico nazionale sfasciato da Oslo (2). È precisamente sull’impasse di Oslo che verteva la terza richiesta. I manifestanti reclamavano l’abbandono di un «processo di pace» che di tale ha solo il nome, nonché la fine della politica di cooperazione con Israele. Agli inizi del 2012, il tentativo di «riannodare» ancora una volta il «dialogo» fra i leader israeliani e palestinesi ad Amman, in Giordania, è stato accolto da manifestazioni di collera nei territori occupati. Nello stesso periodo, incontri di pacifisti israeliani e palestinesi a Ramallah e a Gerusalemme suscitavano la disapprovazione di parecchi gruppi di giovani, che raccomandano caldamente la sospensione di ogni contatto con cittadini israeliani all’estero fin quando durerà l’occupazione. Dopo l’estate 2012, scioperi e manifestazioni si sono di nuovo moltiplicati, questa volta per denunciare le misure di austerità dell’Autorità palestinese e chiederne le dimissioni. Col favore della «primavera araba», i giovani militanti hanno trovato il coraggio di ridefinire la lotta per l’indipendenza in termini di diritti, e non di potere statale. In una logica analoga a quella della campagna Bds, lanciata nel 2005 da centosettanta organizzazioni internazionali, essi ritengono di doversi battere contro un regime di apartheid e di dover difendere tre principi fondamentali: la fine dell’occupazione, il diritto al ritorno e la garanzia che tutti gli abitanti d’Israele vengano trattati su un piano di uguaglianza. La decisione dell’Autorità di chiedere l’adesione della Palestina all’Onu mira a superare l’impasse nella quale si sono impantanati i negoziati con Israele, ma anche, e forse sopratutto, a gestire un’opinione pubblica massicciamente ostile agli accordi di Oslo e al dominio di Fatah e di Hamas. Il confronto fra il discorso all’Onu tenuto da Abbas nel 2012 e quello che aveva pronunciato un anno prima rivela fino a che punto l’Autorità si è sforzata di copiare il linguaggio dei manifestanti e di controllare o di manipolare il loro messaggio. Le due allocuzioni assimilano la «primavera palestinese» alla ricerca di uno stato e dell’indipendenza; entrambe esortano la «comunità internazionale» ad assumersi le proprie responsabilità. La differenza maggiore sta nel fatto che nel 2011 la richiesta presentata da Abbas riguardava una piena adesione all’Onu. Ora, il presidente palestinese non è riuscito a mettere insieme la maggioranza necessaria a depositare la sua richiesta davanti al Consiglio di sicurezza, principalmente a causa dell’opposizione degli Stati uniti. Nel 2012, è dunque tornato a New York per sollecitare uno statuto – simile a quello del Vaticano – di stato non membro dell’Onu. Esso permetterebbe allo stato palestinese di diventare membro a pieno titolo della Corte penale internazionale (Icc), della Corte internazionale di giustizia (Icj), e di altre agenzie dell’Onu, cosa che darebbe ai palestinesi i mezzi legali per perseguire Israele per crimini di guerra o altre violazioni del diritto internazionale. Tuttavia non metterebbe fine necessariamente all’occupazione e non garantirebbe il diritto al ritorno, ben lungi da tutto ciò. Per l’Autorità, questo percorso del combattente davanti all’Onu costituisce l’unico mezzo per far riconoscere il diritto dei palestinesi a uno stato sovrano sul 22% della Palestina storica, che includa la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. La restituzione ai palestinesi del minimo indispensabile delle loro terre originarie riparerebbe in parte l’espulsione che hanno subito nel 1948, sostiene Abbas. Essa ristabilirebbe, insiste, il consenso internazionale sulla partizione della Palestina, stabilito nel 1947 con la risoluzione 181 delle Nazioni unite. Il leader dell’Autorità afferma che solo uno stato riconosciuto dalla «comunità internazionale» sarà in grado di proteggere i diritti del popolo, compreso il diritto al ritorno, alla dignità e alla prosperità economica. L’impopolarità della sua équipe costringe peraltro Abbas a sottolineare che è l’Olp, e non l’Autorità, ad aver firmato la richiesta di adesione presentata all’Onu (3). Nei suoi due discorsi, ha l’accortezza di invocare l’unione di tutti i palestinesi, siano essi rifugiati, cittadini di Israele, membri della diaspora o abitanti dei territori occupati. L’interesse della mossa sta nella volontà di internazionalizzare il conflitto israelo-palestinese. Rimettendosi alle Nazioni unite, il leader dell’Autorità spera di far vacillare il monopolio degli Stati uniti sulla vicenda. Tale strategia appariva chiaramente nel suo discorso del 23 settembre 2011: «La questione palestinese è inestricabilmente legata alle Nazioni unite attraverso le risoluzioni adottate dai suoi diversi organi e agenzie. (…) È nostra aspirazione che le Nazioni unite giochino un ruolo più importante e più efficace…» Mahmoud Abbas inasprisce i toni Un anno dopo, tuttavia, i toni si sono inaspriti. Nella sua allocuzione, Abbas si ispira direttamente al linguaggio utilizzato dai manifestanti palestinesi. Israele non viene più messo sotto accusa soltanto per i suoi «insediamenti coloniali», come era stato lo scorso anno, ma per la sua politica di «apartheid» e di «pulizia etnica» a Gerusalemme est e nei territori occupati – formulazioni che Abbas aveva accuratamente evitato fino a quel momento. Nel 2011, si sforzava ancora di «tendere la mano al governo e al popolo israeliano per fare la pace (…) su una base di parità e di equità fra due stati vicini: la Palestina e Israele». Oggi, non usa giri di parole per mettere sotto accusa il governo di Benjamin Netanyahu, accusato di sabotare la «soluzione dei due stati» e di «svuotare della loro sostanza gli accordi di Oslo». Cerca in questo modo di riconquistare la simpatia di una popolazione esasperata dal naufragio di Oslo e dagli sterili negoziati intrattenuti nonostante l’occupazione. L’inflessione della sua retorica rivela inoltre la frustrazione suscitata dall’intransigenza di Israele. Come ha fatto notare alle Nazioni unite nel settembre 2012, il territorio concesso ai palestinesi è un groviglio di «enclavi (…) dominate dall’occupazione coloniale e militare, ma presentate sotto nuove denominazioni, come prevede il piano unilaterale per un presunto stato all’interno di frontiere provvisorie». Non è illogico che il leader dell’Autorità rivolga alcune frecciate alla «comunità internazionale» e, più indirettamente, agli Stati uniti. Niente di simile invece nel suo discorso precedente, riflesso dell’ottimismo nato dalla «primavera araba». Mentre lo scorso anno invitava le grandi potenze a operare per il rilancio del processo di pace, oggi il leader palestinese si limita a una constatazione amara: si permette a Israele di «non rendere conto dei suoi atti» e di restare nell’«impunità»; si dà «ogni licenza all’occupante per continuare la sua politica di esproprio (…) e infliggere il suo sistema di apartheid al popolo palestinese». Il presidente dell’Autorità si permette un’audacia persino inconcepibile un anno prima: afferma per la prima volta pubblicamente che non può esserci pace senza il riconoscimento del fatto che «la colonizzazione razziale deve essere condannata, punita e boicottata in vista della sua completa eliminazione». Sembra che la campagna Bds abbia trovato un’eco in seno all’Olp. La questione resta quella di sapere quale margine di manovra politica l’Autorità palestinese potrà ricavare dalla sua mossa all’Onu, e quale strategia conta di mettere in atto per portare quest’ultimo ad adottare sanzioni contro Israele. Nel frattempo, i palestinesi di Cisgiordania non sembrano più aspettarsi molto dai loro leader. Le elezioni municipali del 20 ottobre 2012, segnate dalla vittoria di diversi candidati indipendenti a Nablus, Ramallah e Jenin, hanno confermato la perdita di influenza di Fatah. La forte partecipazione al voto indica tuttavia che i palestinesi restano determinati a difendere il loro diritto alla libertà e alla dignità, che si profili o meno all’orizzonte uno stato.
note:
* Professore associato di scienze politiche all’Università del Massachusetts, Boston. È autrice in particolare di Palestinian Labour Migration to Israel: Labour, Land and Occupation, Routledge, Londra e New York, 2005.
(1) L'articolo è stato scritto prima del 29 novembre, giorno del voto all'assemblea generale dell'Onu sullo status di paese osservatore della Palestina.
(2) Cfr. Karma Nabulsi, «The single demand that can unite the Palestinian people», The Guardian, Londra, 28 marzo 2011; «Youth gather for global meet on Plo elections», 9 gennaio 2012, www.maannews.net
(2) È l’Olp infatti ad avere firmato gli accordi di Oslo e a godere, presso i palestinesi, soprattutto quelli in esilio, di una legittimità maggiore rispetto a quella dell’Autorità, che rappresenta invece solo quelli all’interno dei Territori. (Traduzione di O. S.)
FATTI ODIERNI
Gerusalemme, 14 lug. (LaPresse/AP) - Il governo egiziano ha proposto un cessate il fuoco tra Israele e gruppi palestinesi nella Striscia di Gaza secondo il quale le due parti dovrebbero cessare le ostilità alle 9 di mattina (ora locale) di domani, le otto in Italia. Lo rende noto il Jerusalem Post. La proposta afferma che Israele terminerà tutte "le ostilità nella Striscia di Gaza da terra, aria e mare e si asterrà dal lanciare un'offensiva di terra che prenda di mira civili". Secondo la proposta, le fazioni palestinesi cesserebbero tutte le "ostilità" provenienti dalla Striscia di Gaza contro Israele. La proposta prevede di ricevere rappresentanti del governo israeliano e delle fazioni palestinesi al Cairo entro 48 ore dall'inizio del cessate il fuoco per discutere "misure di costruzione della fiducia" tra le due parti. Gli egiziani, secondo il piano, terrebbero colloqui separati con israeliani e palestinesi al Cairo.
Intanto il bilancio delle tensioni in Medioriente sale di ora in ora: sono 185 le vittime di una settimana di offensiva di Israele nella Striscia di Gaza, tra cui decine di civili e almeno 29 bambini di meno di 16 anni, secondo l'ultimo bilancio fornito da fonti locali.
Più di 1.100 i feriti. Nessuna vittima invece tra gli israeliani, per i razzi lanciati dalla Striscia contro il Paese. L’Onu fa sapere che sono 17mila i palestinesi fuggiti dalle proprie case e rifugiati nelle scuole-rifugio dell'Unrwa. Molti razzi sparati dai militanti palestinesi sono stati individuati dal sistema di difesa Iron Dome. Israele ha dato il via martedì scorso all'operazione Bordo di protezione e da allora ha fatto sapere di avere condotto più di 1.300 attacchi aerei, in quella che definisce la risposta ai lanci di razzi da Gaza
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