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Cacciata delle anime colombe da parte di
Catone, tema della sollecitudine (verso
3 che riproduce,in una variatio rispetto all’”ire a farsi belle” e allo “scoglio”,
II, 75, II, 122, l’atto di liberarsi dal peccato).
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Dante vive un momento di debolezza
psicologica: sente il bisogno di stringersi a Virgilio.
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Dal canto suo Virgilio è assai turbato: la sua
“dignitosa coscienza, e netta” prova vergogna per non essere stato all’altezza
del compito di guida (Virgilio cammina troppo in fretta, l’andatura scomposta
diminuisce la dignità degli atti)
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Il viator vive un momento di grande
paura: teme di essere stato abbandonaton da Virgilio.
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Tema del corpo lasciato sulla terra e
dell’incorporeità dell’anima.
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Spiegazione relativa al quia, ovvero,
nel latino scolastico, la proposizione oggettiva, che corrisponde all’esistenza,
ma non all’essenza di Dio.
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Se all’uomo fosse stata data la conoscenza
assoluta, non ci sarebbe stato bisogno che nascesse Cristo da Maria.
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Riferimento melanconico ai suoi compagni di limbo, ad Aristotele e
Platone, qui evocati come esseri umani che hanno sommamente desiderato di
raggiungere la verità, e sono ora puniti con la sua mancanza per sempre.
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Considerazioni sull’asprezza del cammino
verso il monte: paragone con la Liguria, da
Lerice a Turbìa, ovvero Lerici, ai margini del golfo di La Spezia, e
Turbia, borgo del territorio di Nizza.
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Mentre i viaggiatori si chiedono come
fare a proseguire, essendo sprovvisti di ali, vedono in lontananza giungere
delle anime, lente e unite: similitudine fra anime e pecorelle (79 e sgg).
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Una delle anime inizia a parlare, chiedendo
di essere riconosciuta dal viator: è un uomo biondo, bello e d’aspetto gentile,
v. 107, ma ha una grave ferita in volto, che gli recide uno dei sopraccigli.
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Il viator deve subito ammettere di non
riconoscere l’anima, che allora si presenta come Manfredi, nipote dell’imperatrice
Costanza [nonché figlio di Federico II, che non viene citato perché è all’inferno,
mentre Costanza in Paradiso, canto III] e chiede subito di essere ricordato
sulla terra alla figlia Costanza perché preghi per lui.
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Costanza è madre di Giacomo d’Aragona e
Federigo di Sicilia. A Manfredi interessa che venga detta la verità su di lui
sulla terra, dal momento che la chiesa lo aveva scomunicato e che questo
avrebbe comportato di necessità la dannazione (Benevento, 1266, sconfitto da
Carlo d’Angiò).
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Manfredi evoca l’istante della sua morte:
ha reso l’anima, piangendo a Dio.
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I versi 121 e 122 contengono l’espressione
di due estremi: da una parte l’orrore dei peccati che Manfredi sa di aver
commesso [orribil furo li peccati miei], dall’altra l’immensità della bontà
divina, provvista di braccia così grandi da poter accogliere chiunque si
rivolga a lei.
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Se
Dio è un grande generoso, ben meschino appare l’atto di Bartolomeo
Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, inviato da papa Clemente IV presso Carlo d’Angiò
per sostenerlo contro Manfredi.
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Ora il suo corpo, che era stato
seppellito come costume militare sotto un cumulo di pietre messe dai soldati
(129), è stato dissepolto per abbandonarlo alle intemperie fuori dal regno di
Sicilia, oltre il Garigliano, il Verde del v. 131, con una sorta di cerimonia funebre rovesciata,
a lume spento (132
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