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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

martedì 21 ottobre 2014

Lezione completa III canto Purgatorio

III CANTO PURGATORIO
Le anime colombe sono state scacciate da un irato Catone, ritorna il tema della sollecitudine, con il verso 3 che riproduce,in una variatio rispetto all’”ire a farsi belle” e allo “scoglio” (II, 75, II, 122), l’atto di liberarsi dal peccato (monte ove ragion ne fruga, ovvero dove la giustizia divina ci tormenta). Dante vive un momento di debolezza psicologica: sente il bisogno di stringersi a Virgilio, senza il quale non potrebbe esser lì e nemmeno andare avanti. Dal canto suo Virgilio è assai turbato: la sua “dignitosa coscienza, e netta” prova vergogna per non essere stato all’altezza del compito di guida, per essersi dimostrato debole come il suo discepolo, mentre al maestro tocca sempre essere almeno un passo avanti a lui, tocca saper presagire, presentire, immaginare, prevenire. L’immagine che sceglie l’Auctor per rappresentare visivamente il tormento di Virgilio, qui maestro mancato, è eloquente: egli cammina troppo in fretta, l’andatura scomposta diminuisce la dignità degli atti (ricorda Brunetto). Successivamente il viator vive un momento di grande paura: dato che il sole proietta al suolo solo la sua ombra, e nulla accanto a lui, prova per un istante il timore che Virgilio lo abbia abbandonato, ma la sua voce vien subito a confortarlo: non deve diffidare, solo rendersi conto che il suo maestro non ha corpo, dato ch’esso è sepolto a Napoli, pur essendo morto a Brindisi nel 19 a. C., al ritorno da un viaggio in Grecia. Ribadisce quindi l’incorporeità dell’anima, che pure è disposta da Dio a percepire caldo e freddo (il riferimento è ai tormenti dell’inferno, v. 31), inoltre spiega che non bisogna interrogarsi su come ciò si verifichi, dato che la ragione deve fermarsi di fronte alle verità di fede, quali ad esempio la trinità (36): gli esseri umani dovrebbero appagarsi del quia, [nel latino scolastico è la proposizione oggettiva, che corrisponde all’esistenza, ma non all’essenza di Dio]: se infatti all’uomo fosse stata data la conoscenza assoluta, non ci sarebbe stato bisogno che nascesse Cristo da Maria. Per questo, soggiunge Virgilio, vedeste impegnarsi nel desiderio di verità degli uomini che se avessero avuto soddisfazione non dovrebbero ora per sempre affliggersi della sua mancanza (della verità e di Dio). Si riferisce ai suoi compagni di limbo, ad Aristotele e Platone, qui evocati appunto come esseri umani che hanno sommamente desiderato di raggiungere la verità, e sono ora puniti con la sua mancanza per sempre.
Prosegue quindi il cammino verso il monte, che risulta così aspro, disagevole e scabroso ben più che  i sentieri tra Lerice e Turbìa, ovvero Lerici, ai margini del golfo di La Spezia, e Turbia, borgo del territorio di Nizza: più impervio dunque, il territorio purgatoriale, della pur montuosa Liguria, qui evocata da Oriente a Occidente. Mentre i viaggiatori si chiedono come fare a proseguire, essendo sprovvisti di ali, vedono in lontananza giungere delle anime. Si muovono lente, unite, e Virgilio suggerisce di avvicinarsi a loro. Non sono ancora vicini, che già le anime si stringono le une alle altre, un po’ timorose, e Virgilio rivolge loro la parola per domandare come fare a salire. L’Auctor introduce quindi una similitudine tra le anime e le pecorelle (79 e sgg.): tutte vicine, timide, intente a seguire quel che fanno le altre, quiete, sono connotate positivamente come creature mansuete. Naturalmente si fermano appena si accorgono dell’ombra di Dante (anche quelle dietro, che non sanno perché quelle davanti lo facciano). Virgilio spiega che Dante è lì col corpo e che la sua presenza è permessa da Dio. Una delle anime allora inizia a parlare, chiedendo di essere riconosciuta dal viator. Egli si volge e lo guarda: è un uomo biondo, bello e d’aspetto gentile, v. 107, ma ha una grave ferita in volto, che gli recide uno dei sopraccigli. Il viator deve subito ammettere di non riconoscere l’anima, che allora si presenta come Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza [nonché figlio di Federico II, che non viene citato perché è all’inferno, mentre Costanza in Paradiso, canto III] e chiede subito di essere ricordato sulla terra alla figlia Costanza perché preghi per lui [tema della fratellanza universale; Costanza è madre di Giacomo d’Aragona e Federigo di Sicilia]. A Manfredi interessa che venga detta la verità su di lui sulla terra, dal momento che la chiesa lo aveva scomunicato e che questo avrebbe comportato di necessità la dannazione (Benevento, 1266, sconfitto da Carlo d’Angiò). Di qui l’epilogo del canto, che va in crescendo di pathos e intensità emotiva. Manfredi evoca infatti l’istante della sua morte, quando essendo stato colpito da due ferite di spada, all’occhio e al petto, rende l’anima, piangendo a Dio. I versi 121 e 122 contengono l’espressione di due estremi: da una parte l’orrore dei peccati che Manfredi sa di aver commesso [orribil furo li peccati miei], dall’altra l’immensità della bontà divina, provvista di braccia così grandi da poter accogliere chiunque si rivolga a lei. Ecco il Dio che è un grande generoso, rispetto al quale ben meschino appare l’atto di Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, inviato da papa Clemente IV presso Carlo d’Angiò per sostenerlo contro Manfredi. Questi in conclusione si duole del fatto che il suo corpo, che era stato seppellito come costume militare sotto un cumulo di pietre messe dai soldati (129), sia stato dissepolto per abbandonarlo alle intemperie fuori dal regno di Sicilia, oltre il Garigliano, il Verde del v. 131,  con una sorta di cerimonia funebre rovesciata, a lume spento (132)[questo è un episodio di cui non vi è traccia documentaria anteriore a Dante, che potrebbe però aver ascoltato in merito un racconto orale]. Per concludere il racconto, Manfredi aggiunge che comunque chi muore scomunicato deve aggirarsi per la spiaggia del purgatorio per trenta volte il tempo della scomunica, a meno le buone preghiere dei viventi non accorcino la pena. Raccomanda quindi ancora a Dante di raccontare alla figlia Costanza di averlo visto, dato che le anime del purgatorio si possono molto avvantaggiare delle preghiere dei vivi.




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