IL SENSO DEL LABIRINTO È LA POESIA
Se è vero che chi cerca trova, occorre preliminarmente sapere cosa si stia cercando. Nel labirinto dell’Orlando furioso ci è parso di capire che l’unico a sapere con certezza cosa sia una ricerca provvista di senso, è l’Autore, al quale peraltro abbiamo fin dall’inizio riconosciuto anche una sapiente leggerezza, un ironico distacco utile per rappresentare sulla scena del mondo personaggi sempre in balìa del fato, di propri ingannevoli desideri, possibili e impossibili, in una giostra costante in cui poca parte ha la riflessione, più gli istinti e, appunto, lo zampino della sorte.
Ripercorriamo qualche tappa, così da chiarirci, nel contempo, un po’ le idee sul cammino percorso.
Il I canto è interamente occupato da un vorticoso avvicendarsi di inseguimenti e ricerche all’interno di una intricata foresta. In essa, luogo per elezione di sentieri che si biforcano e, non di rado, tornano anche indietro, Angelica, Ferraù, Orlando, Rinaldo, Sacripante e persino un cavallo, Baiardo, cercano elmi, persone, vie di fuga, e trovano non di rado altra cosa da quella che stavano cercando oppure quella che cercavano in precedenza e che avevano ormai sostituita con altra o ancora non trovano nulla, ma si perdono e ritrovano al punto di partenza.
Ben due canti sono dedicati alle magie del mago Atlante, in particolare ai suoi castelli incantati: si tratta del IV e del XII. Nel IV canto il castello è sito fra le giogaie dei Pirenei, è d’acciaio lucente ed è luogo di piacere assoluto: s’è dissolto nel nulla in seguito alla richiesta di Bradamante, che ha combattuto e vinto, sino a un certo punto, il vecchio mago che ha posto fine alla magia. Nel XII il nuovo castello di Atlante si trova in una pianura non lontano dalla Manica, è di marmo e ha una porta d’oro, così almeno sembra a qualcuno dei cavalieri che ci si trova invischiato. Il fatto è che il castello è in grado di far vedere a ciascuno qualsiasi cosa, è una specie di vorticoso nulla che può diventare tutto, perché sono i cercatori a dare forma e sostanza a quel che c’è all’interno. Insomma: il palazzo è deserto, forse non ci sono nemmeno le mura, ma superato il recinto che delimita la sua magica esistenza ciascuno vede quello che lo ossessiona, sente le voci che lo chiamano e ne implorano la presenza, vede baluginare capelli biondi (è il caso di Orlando che vede Angelica) o bianchi elmi (Ruggiero che vede Bradamante). Tutti i cavalieri, cristiani e mori, prima o poi si trovano fagocitati dal castello, che come un buco nero risucchia con forza interi eserciti. Se qualcuno tenta di uscirne, ecco una voce si leva dalla finestra e lo richiama, e la ricerca continua. Unico a non restare irretito nel castello sarà Astolfo, al quale spetterà il compito, nel XXII canto, della dissoluzione del medesimo, ovvero di questa sorta di ragnatela di sogni e di desideri provvisoriamente evocata dall’incantesimo del mago. Vien da pensare che, dopo la sua scomparsa, essi non facciano altro che rientrare nella mente dei protagonisti.
Questo è tanto vero, che la vicenda della follia d’Orlando anche così può configurarsi: siamo ai canti XXIII e XXIV, nei quali si dipana il racconto della scoperta da parte di Orlando di quanto accaduto fra Angelica e Medoro nel XIV canto. La prima parte della narrazione si configura come un elaborato autoinganno: come se il castello di Atlante, quel vortice di nulla che può diventare tutto, abitasse la mente di Orlando, gli facesse trovare risposte fintamente razionali, corrispettivo di visioni ingannevoli, a inquietanti interrogativi posti dalla realtà. Orlando cerca di rimanere prigioniero del suo castello di fantasie, o meglio, come le abbiamo definite imbattendoci in esse, astruse menzogne utili a difendere il suo cuore e la sua mente dall’assalto della realtà, dalla rivelazione di una verità crudele, ormai immutabile. Ma le prigioni che ci si costruisce da soli si spalancano all’improvviso, senza bisogno di interventi magici, piuttosto per l’irruenza della realtà, che nel caso di Orlando ha la voce benevola d’un pastore che, ironia dell’Autore, gli racconta tutto, gli apre gli occhi e le orecchie, a fin di bene.
Certo un po’ catartica è, allora, per il lettore che si è immedesimato nel pianto senza fine del paladino, che ha provato la pena di chi sente d’esser morto in se stesso, per la scomparsa d’un altro sé che amava, la visione di Angelica a gambe all’aria nel canto XXIX: la seduttrice, la femme fatale, è diventata all’occhio pazzo di Orlando tutt’uno con la puledra che cavalca, e il paladino nudo e feroce come un animale le si scaraventa addosso per prendere dalla coda la cavalla, con quel che segue per colei che vi stava sopra. Una catarsi poco nobile ma sicuramente giocosa.
Con Astolfo sulla luna, nel XXXIV canto, la ricerca, che ha compreso tra i suoi oggetti anche il nulla, si fa provvidenziale, guidata, quindi destinata a sicuro successo. Astolfo è il cavaliere della provvidenza che deve restituire il senno a Orlando, ma anche a se stesso e ad altri paladini. Pure questa ricerca, però, porta a imbattersi in altro, per noi rivelatore: sulla luna, per una sorta di legge della conservazione dell’energia trasposta a qualsiasi cosa, si trova tutto quello che si crede perduto sulla terra. Fama, preghiere, voti, lacrime, sospiri, tempo dei giocatori, ozio degli ignoranti, progetti irrealizzati, desideri, regali fatti a re e principi avari, elemosine lasciate come testamento, la donazione di Costantino, la bellezza delle donne. Per offrirvi una nuova metafora, la luna è rappresentata da Ariosto come la soffitta di una famiglia di collezionisti matti. E poi la valle delle ampolle con il senno, tanto senno da far pensare che sulla terra, che comunque nella luna ha il suo specchio, regni solamente la pazzia. Ci siamo lasciati con l’immagine delle due parche che tessono la sorte dell’uomo. Ma è nel canto seguente, il XXXV, che forse il poeta ci mette in mano una chiave per comprendere anche questo suo enigma. L’attenzione si sposta sui poeti che fanno e contraffanno, raccontano e mistificano, rendono Augusto “santo e benigno” (a far questo è la “tuba di Virgilio”), rendono “una bagascia” Elissa, che “ebbe il cor tanto pudico”, così “se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso, tutta al contrario l’istoria converti: che i Greci rotti, e che Troia vittrice, e che Penelopea fu meretrice”. Come dire che, sulla terra, nel mondo vero, la verità poetica è rara quasi quanto il senno, ed è per questo che i labirinti non finiscono mai. Tutto si può dire, tutto si può trasformare, immagine vera e immagine specchiata si scambiano le parti, il rovescio e il diritto sono ambedue chimere.
Alla fine dobbiamo arrivare, tutte le storie finiscono, in un modo o nell’altro. L’epilogo dell’Orlando furioso, apparentemente già predisposto dal momento in cui Orlando rinsavisce, Carlo ha vinto la guerra, Ruggiero si è convertito e son pronte le nozze con Bradamante concessagli dal fratello Rinaldo, sembra prossimo, e invece si interpongono ancora eventi, prima della conclusione al XLVI canto. Il padre di Bradamante, infatti, no sapendo niente di Ruggiero, ha promesso la figlia in sposa a Leone, figlio dell’imperatore di Grecia Costantino. Ruggiero riesce solo a far rimandare il matrimonio con Leone e a partire per la Grecia per spodestare Costantino e Leone. In incognito Ruggero combatte dalla parte dei Bulgari, in guerra con i Greci, e dà tali prove di valore che gli offrono la corona di Bulgaria. Leone, vedendolo combattere, inizia ad ammirarlo visceralmente. Costantino, invece, riesce a catturare e imprigionare Ruggero, sottoponendolo a tortura, da nemico pericoloso quale lo riconosce. Leone però, che appunto lo idolatra (senza sapere chi sia) lo libera, conquistandosi eterna riconoscenza. DI nuovo Ruggiero si trova in un dilemma terribile (come quando era diviso fra Atlante e Bradamante, poi Atlante muore dal dispiacere di non essere riuscito, dopo la distruzione del secondo castello, a proteggerlo), dato che il debito di gratitudine per il rivale gli strazia la coscienza. Bradamante intanto ha convinto re Carlo a indire un torneo: concederà la sua mano al cavaliere che riuscirà a resisterle dall’alba al tramonto. E’ sicura che le sarà facile vincere Leone, mentre Ruggiero le resisterà e lei potrà sposarlo. La poverina non sa che il suo amato ha stretto un patto di fedeltà con Leone e che Leone si farà sostituire da lui in combattimento: dunque Ruggiero, per lealtà, deve combattere con la donna amata, resisterle e permettere che sposi il suo rivale. Viene quindi creduto vincitore Leone, ma la sorella di Ruggiero, marfisa, riesce ancora a imporre una prova: visto che suo fratello ha chiesto per primo la mano di Bradamante, che si attenda il suo ritorno perché Leone si batta con lui. Leone accetta, pensando di far combattere per lui il cavaliere sconosciuto, ossia Ruggiero. A questo punto deve proprio risolversi il conflitto interiore di Ruggiero, dato che non può combattere con se stesso. Alla fine trionfa la magnanimità generale (il crescendo di generosità ce lo faceva supporre): Leone rinuncia a Bradamante e Ruggiero, re di Bulgaria, finalmente può sposare Bradamante. Dopo nove giorni di banchetto, spunta fuori dagli anfratti del poema quello che potremo definire l’ultimo eroe: lo spavaldo, sfortunato, smodato Rodomonte, re d’Algieri, al seguito di re Agramante, protagonista di alcune avventure guerresche che mettono in luce appunto la sua sfrenata natura. Rodomonte arriva al banchetto di nozze come con l’intento di impedire che la vicenda si compia: sfida a duello Ruggiero con la motivazione che egli, convertendosi al cristianesimo, avrebbe tradito il suo re Agramante. La battaglia e aspra, i due contendenti sono molto forti, ma alla fine l’anima sdegnosa di Rodomonte, bestemmiando, si scioglie dal corpo, ed egli scende nell’Averno.
Così si congeda da noi il Poeta, con una discesa nell’Averno dell’incarnazione del principio di sfrenatezza, della smodata ferocia, della baldanza inconsulta. E’ un congedo alla fine repentino e malinconico, con l’immagine finale d’un cavaliere pieno di forza che viene assorbito nel gorgo d’Acheronte. Tutto finisce, anche l’energia guerriera, anche i duelli ad armi pari e, probabilmente, anche un’epoca intera, di per sé nostalgica e fiduciosamente affidata alla contemplazione del tempo che fu.
Il senso del labirinto, dunque, va ricercato nella poesia medesima. Lei garantisce l’unità, presiede come principio ordinatore all’intrico delle vicende, sceglie i soggetti, le storie da raccontare, affida alla memoria quel tessuto cangiante di verità e menzogna mescolate insieme, che costituiscono la forza vitale della narrazione. La poesia vive di sé, s’alimenta del proprio immaginario e altro ne attiva, in un gioco continuo di corrispondenze con il presente, con il passato e con il futuro. Il suo è un universo senza confini, in cui sapersi perdere e poi ritrovarsi è un requisito fondamentale del viaggiatore avventuroso. Senza di esso, infatti, non si può decidere di partire ma, forse, nemmeno di vivere davvero.
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