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La tempestosa vicenda d’amore con una
donna che Properzio chiama Cynthia (in realtà Ostia) occupa la maggior parte
dei suoi quattro libri di elegie. La
relazione sembra sia durata per cinque anni, ma non sappiamo se tale lasso di
tempo includa anche il periodo di separazione: forse gli anni furono dal 29 al
23; a un certo punto il poeta accenna a un nuovo legame con una donna che forse
diventerà sua moglie e a Cynthia non si fa più cenno.
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Nel I libro sfilano alcuni degli amici
del poeta, un giovane ricco votato alla carriera politica e altri poeti. Dopo
una relazione breve ma felice con una donna di nome Licinna, Properzio conosce
Cynthia: parla del suo sguardo fiammeggiante, dei capelli fulvi, delle lunghe
dita, della figura affascinante. Era colta, amava la musica, componeva versi.
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I carmi del libro I gli diedero la
celebrità e gli spalancarono le porte del palazzo di Mecenate e della corte.
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L’amore è per Properzio una forza
trascendente che conferisce un nuovo significato all’esistenza, nonché a tutti
i valori comunemente accettati: nobiltà, potere, ricchezza.
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L’irrazionale potenza dell’amore
travolge i valori del mos, così come
impone una nuova gerarchia all’interno della casa e della famiglia tradizionale.
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Liber I, Monòbiblos, dal carme I,
primi versi
Cynthia prima suis miserum me
cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor
pedibus,
donec me docuit castas
odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
Cinzia fu la prima, coi suoi
occhi, a sedurmi, sventurato,
ignaro di alcuna passione.
Allora Amore cancellò il permanente disprezzo dai miei occhi,
e calpestò il mio capo fino a
che,
sciagurato [attribuito ad Amore],
mi indusse a odiare ogni donna virtuosa
e a vivere dissennatamente.
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Dal carme
II, primi versi
Quid iuvat ornato procedere, vita,
capillo
et
tenuis Coa veste movere sinus,
aut quid Orontea crinis perfundere
murra,
teque peregrinis vendere muneribus
naturaeque decus mercato perdere
cultu,
nec sinere in propriis membra
nitere bonis?
A che ti giova, vita mia, venire
avanti coi capelli adorni,
muovere le tenui pieghe del
tessuto di Coo,
profondere la mirra siriana sulle
chiome,
venderti alle merci straniere,
i naturali tuoi doni dissipare in un trucco
acquistato,
e impedire che
splenda la tua vera bellezza?
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Dal Carme
XII
Mi neque amare aliam neque ab hac desistere fas est:
Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit.
Ma io da lei non posso
staccarmi, né amare un’altra:
alla fine e all’inizio di me
c’è Cinzia.
Carme VII
[…] Nam citius paterer caput hoc discedere collo
quam possem nuptae perdere more faces,
aut ego transirem tua limina clausa maritus,
respiciens udis prodita luminibus.
Vorrei prima staccarmi la testa
dal corpo
che perdere, obbedendo a una
moglie, il mio amore,
o passare, maritato con
un'altra, innanzi alla tua porta chiusa,
da me tradita, guardandola con
occhi madidi di pianto.
[Per Cinzia il poeta rinuncia
al matrimonio, alla famiglia, a una progenie (nullus de nostro sanguine miles erit, non si avranno soldati dal
mio sangue) e conclude:
Tu mihi sola placet: placeam tibi, Cynthia, solus: A me piaci solo tu,
Cinzia : che possa piacerti io solo :
hic erit et patrio nomine
pluris amor. questo
amore avrà più valore che l’amore paterno.]
Carme 13 b
Il poeta detta le proprie
disposizioni per il suo funerale: desidera esequie semplici, che vengano
portati sulla tomba i suoi “tres libelli”,
suo dono principale a Persefone, e che Cinzia segua il feretro straziandosi il
petto, invocando il nome del poeta; quando poi il suo corpo sarà stato cremato,
chiede che sulla tomba che contiene l’urna siano scolpiti i versi:
“...qui nunc iacet horrida pulvis “colui
che qui giace, orrida polvere,
unius hic quondam servus amoris erat” fu un tempo schiavo d’un solo
amore”.
Si compiace poi di immaginare
Cinzia, ormai canuta, ancora fedele alla sua memoria, intenta a recarsi a
rendere onore al sepolcro dell’amato Properzio: fas est praeteritos semper amare viros, è un dovere religioso amare
sempre i defunti. Conclude la fantasia funebre, immaginando che Cinzia
vanamente tenti un dialogo con “il cenere muto” [Catullo, Foscolo]: in questa
elegia, almeno nella parte finale, la morte separa i due amanti (la concezione
è materialista, epicurea):
Sed frustra mutos revocabis, Cynthia, Manis: Ma l’ombra muta invano chiamerai, Cinzia: come
nam mea quid poterunt ossa minuta loqui? potranno le mie ossa frantumate parlarti?
LIBER IV, carme VII
Sunt aliquid Manes: letum
non omnia finit,
luridaque evictos effugit
umbra rogos.
Esistono i Mani : la morte
non è fine di tutto,
un’ombra livida sfugge ai roghi, vittoriosa.
[Cinzia, appena morta, appare
in sogno al poeta, preda del dolore e del compianto; ella è vestita come nel
giorno delle esequie, ma reca vari segni del passaggio nell’aldilà: la veste
appare bruciata sul fianco, le labbra consumate dall’acqua del Lete; la donna
rimprovera aspramente l’amato, definito “perfido” perché in grado di
addormentarsi quando il lutto è tanto recente; passa quindi a rievocare una
serie di momenti felici dell’amore (gli incontri furtivi in vie malfamate, gli
amplessi a cielo aperto) e li accosta a “tradimenti della memoria” perpetrati
dal poeta: egli non è venuto a piangere abbastanza sulla tomba di Cinzia, non
ha asperso abbastanza il rogo di unguenti ed altro ancora. Infine dichiara di
essere stata sempre fedele a Properzio e gli chiede alcune, definitive, prove
del suo amore assoluto per lei:
Et quoscumque meo fecisti nomine versus, E tu, qualunque verso scrivesti nel mio nome,
ure mihi: laudes desine habere meas. brucialo: non serbare lodi di me.
Il poeta deve curarsi della
tomba di Cinzia, dare ascolto ai sogni che “provengono dalle porte dei Campi
Elisi” (sono, secondo la tradizione che accoglie anche Virgilio, i sogni
veritieri) e soprattutto disporsi a diventare, dopo la morte, “tutto di
Cinzia”:
Nunc te possideant aliae: mox sola tenebo:
mecum eris, et mixtis ossibus ossa teram”.
Haec postquam querula mecum sub lite peregit,
inter complexus excidit umbra meos.
Ora t’abbiano le altre, ma
presto t’avrò io sola.
E dopo aver pronunciato, con
dolente corruccio, queste parole,
nel mio abbraccio l’ombra
scomparve.
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