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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

martedì 3 febbraio 2015

TESTO DI GOLDONI

Carlo Goldoni, Prefazione alle Commedie  pubblicate nel 1750 presso Bettinelli.

Finalmente ritornato in Venezia mia Patria, fui obbligato a darmi all'esercizio del Foro, per provvedere, man­cato di vita mio Padre, alla mia sussistenza, dopo, d'essere stato già in Padova onorato della laurea Dottorale, e di aver qualche tempo servito nelle assessorie di alcuni ragguardevoli Reggimenti di questa Serenissima Repubblica in Terraferma. Ma chiamavami al Teatro il mio Genio, e con ripugnanza penosa adempiva i doveri d'ogni altro, comecché onorevolissimo Uffizio. In fatti, se mai in altro tempo applicai con diletto e con osservazion diligente alle Drammatiche Composizioni che su que' famosi Teatri rappresentavansi, certamente fu in questo. Dimodoché, sebbene da' miei principi formar potessi un non infelice presagio dell'avvenire nella profession nobilissima dell'Avvocato in quel celebre Foro, pure rapito dalla violenta mia inclinazione, mi tolsi alla Patria, risoluto di abbandonarmi affatto a quella interna forza, che mi voleva tutto alla Drammatica Poesia. Scorse molte Italiane Città, intento ad apprendere i vari usi e costumi, che pur diversi fioriscono ne' vari Domini di questa nostra deliziosa parte d'Europa, fermatomi finalmente in Milano, colà principiai a compor di proposito per servigio degli Italiani Teatri.
Tutto ciò ho voluto riferir ingenuamente colla sola mira di far rilevare il vero e sodo stimolo ch'ebbi per darmi intieramente a questo genere di studio. Altro non fu esso certamente se non se la invincibil forza del Genio mio pel Teatro, alla quale non ho potuto far fronte. Non è perciò maraviglia se in tutti i miei viaggi, le mie dimore, in tutti gli accidenti della mia vita, in tutte le mie osservazioni, e fin ne' miei passatempi medesimi, tenendo sempre rivolto l'animo e fisso a questa sorta di applicazione, m'abbia fatta un'abbondante provvisione di materia atta a lavorarsi pel Teatro, la quale riconoscer debbo come una inesausta miniera d'argomenti per le Teatrali mie Composizioni; ed ecco come insensibilmente mi sono andato impegnando nella presente mia professione di Scrittor di Commedie. E per verità come mai lusingar alcuno, senza di questo particolar Genio dalla Natura stessa donato, di poter riuscire fecondo e felice Inventore e Scrittor di Commedie?«La cosa più essenziale della Commedia» scrive un valente Francese «è il ridicolo. Avvi un ridicolo nelle parole, ed un ridicolo nelle cose; un ridicolo onesto, e un ridicolo buffonesco. Egli è un puro dono della Natura il saper trovar il ridicolo d'ogni cosa. Ciò nasce puramente dal Genio. L'arte e la regola vi han poca parte, e quell'Aristotile, che sa così bene insegnar a far piangere gli uomini, non dà alcun formale precetto per fargli ridere.» Che cosa può dunque far mai chi non ha questo Genio della Natura? Potrà ben egli, quand'abbia formato collo studio un buon senso, rettamente giudicar forse delle opere altrui in questo genere medesimo, ma non produrne felicemente delle proprie. Potrà forse anche, dopo di aversi bene stillato il cervello sui libri degli egregi Maestri, che dell'Arte della Commedia diedero le ottime regole tratte dall'esempio de' bravi Poeti Comici, che ne' secoli andati fiorirono, potrà, dico, far delle regolatissime Opere, scriverà in purgatissima Lingua, ma avrà la disgrazia, che tuttavia non piacerà sul Teatro. Così non piacendo, non potrà nemmeno istruire, giacché l'istruzione vuole dalle Scene esser porta al popolo, addolcita dalle grazie e lepidezze poetiche, se l'Uditore che viene al Teatro col fin primario di ricrearsi, ha da indursi a gustarla.

 pueris absinthia taetra medentes. cum dare conantur, prius oras pocula circum ... liquore,. ut puerorum aetas improvida ludificetur. labrorum tenus,interea perpotet amarum. absinthi laticem deceptaque non capiatur,


Chi non avrà insomma questo Comico Genio non saprà dare ai suoi pensieri quel giro piacevole, quel brio giulivo, che sa sostenere la giocondità del proprio carattere senza cadere in freddezza, o pure in buffoneria; e non saprà finalmente innestare quella delicata barzelletta che, al detto del sovrallodato P. Rapin, è il fiore di un bell'ingegno, e quel talento che vuol la Commedia.
Ora fu in me questo Genio medesimo, che rendendomi osservator attentissimo delle Commedie, che sui vari Teatri d'Italia da diciotto o venti anni in qua rappresentavansi, me ne fece conoscere e compiangere il gusto corrotto, comprendendo nel tempo stesso, che non poco utile ne sarebbe potuto derivare al Pubblico, e non iscarsa lode a chi vi riuscisse, se qualche talento animato dallo spirito comico tentasse di rialzare l'abbattuto Teatro Italiano. Questa lusinga di gloria fini di determinarmi all'impresa.
Era in fatti corrotto a segno da più di un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, che si era reso abominevole oggetto di disprezzo alle Oltramontane Nazioni. Non correvano sulle pubbliche Scene se non sconce Arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole mal inventate, e peggio condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano strascinate dall'ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famigliuola innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato, giacché questi per verità erano quegli spettacoli da' quali Pudicitiam saepe fractam, semper impulsam vidimus... multae inde domum impudicae, plures ambiguae rediere: castior autem nulla[2]. Per la qual cosa Tertulliano a' Teatri sì fatti dà nome di Sacrari di Venere[3], ed il Grisostomo dice, che nelle Città furono edificati dal Diavolo, e che da essi diffondesi per ogni luogo la peste del mal costume[4]; quindi a ragione i Sacri Oratori fulminavano da' Pulpiti così corrotte Commedie, ch'erano in fatti oggetto ben giusto dell'abominazione de' Saggi.
Molti però negli ultimi tempi si sono ingegnati di regolar il Teatro, e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son provati di farlo col produrre in iscena Commedie dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia. I gusti delle Nazioni son differenti, come ne son differenti i costumi e i linguaggi. E perciò i mercenari Comici nostri, sentendo con lor pregiudizio l'effetto di questa verità, si diedero ad alterarle, e recitandole all'improvviso, le sfiguraron per modo, che più non si conobbero per Opere di que' celebri Poeti, come sono Lopez di Vegall e il Molière, che di là da' Monti, dove miglior gusto fioriva, le avevan felicemente composte. Lo stesso crudel governo hanno fatto delle Commedie di Plauto e di Terenzio; né la risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie ch'eran nate, o che andaran nascendo nell'Italia medesima, e specialmente a quelle della pulitissima Scuola Fiorentina, che andavan loro cadendo tra mano. Intanto i Dotti fremevano: il Popolo s'infastidiva: tutti d'accordo esclamavano contra le cattive Commedie, e la maggior parte non aveva idea delle buone.
Avvedutisi i Comici di questo universale scontento, andaron tentoni cercando il loro profitto nelle novità. Introdussero le macchine, le trasformazioni, le magnifiche decorazioni; ma oltre al riuscir cosa di troppo dispendio, il concorso del popolo ben presto diminuiva. Andate però in fumo le Macchine, hanno procurato di aiutar la Commedia cogl'Intermezzi in Musica; ottimo riuscì lo spediente per qualche tempo, ed io fui de' primi a contribuirvi con moltissimi Intermezzi, fra' quali mi ricordo aver fatta molta fortuna la Pupilla, la Birba, il Filosofo, l'Ippocondriaco, il Caffè, l'Amante Cabala, la Contessina, il Barcaiuolo. Ma i Comici non essendo Musici, non tardò l'Uditorio a sentire quanto poca relazione colla Commedia abbia la Musica. Le Tragedie in ultimo luogo, e i Drammi composti per la Musica, recitati dai Comici, han sostenuti i Teatri. In fatti si son recitate eccellenti Tragedie e bellissimi Drammi con lodevolissima forma da' nostri valenti Attori, che mirabilmente vi riuscirono. Qual incontro non ebbero i Drammi del celebre Signor Abate Metastasio, quelli dell'Illustre Signor Apostolo Zeno, le Tragedie del sapientissimo Patrizio Veneto Signor Abate Conti, la Merope dell'eruditissimo Signor Marchese Maffei, l'Elettra ed altre molte, o interamente composte, o eccellentemente dal Francese trasportate, dal peritissimo Signor Co. Gasparo Gozzi, non men che altre eziandio, così di antichi come di redenti valorosi Poeti, Italiani, Francesi ed Inglesi, i quali per brevità, non per mancanza di stima o di rispetto, tralascio di nominare: e mi sia lecito il dirlo, qual compatimento non ebbe anche alcuna delle mie Rappresentazioni? cioè il Bellisario, l'Errico, laRosmonda, il Don Giovanni Tenorio, il Giustino, il Rinaldo da Montalbano, tuttoché non ardisca dar loro il titolo di Tragedie, perché da me stesso conosciute difettose in molte lor parti. Ma codesti applausi stessi, che riscuotevano i Drammi e le Tragedie rappresentate da' Comici, erano appunto la maggior vergogna della Commedia, come la più convincente prova della estrema sua decadenza.
Io frattanto ne piangea fra me stesso, ma non avea an­cora acquistati lumi sufficienti per tentarne il risorgimento. Aveva per verità di quando in quando osservato, che nelle stesse cattive Commedie eravi qualche cosa ch'ecci­tava l'applauso comune e l'approvazion de' migliori, e mi accorsi che ciò per lo più accadeva all'occasione d'alcuni gravi ragionamenti ed istruttivi, d'alcun dilicato scherzo, d'un accidente ben collocato, di una qualche viva pennel­lata, di alcun osservabil carattere, o di una dilicata critica di qualche moderno correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra del maraviglioso, la vince nel cuor dell'uomo il semplice e il naturale.
Al barlume di queste scoperte mi diedi immediate a comporre alcune Commedie. Ma prima di poter farne delle passabili o delle buone, anch'io ne feci delle cattive. Quando si studia sul libro della Natura e del Mondo, e su quello della sperienza, non si può per verità divenire Maestro tutto d'un colpo; ma egli è ben certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri.[…]
Ecco quanto ho io appreso da' miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente re­golate, o almeno ho creduto di regolarle, co' precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest'Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l'osserva. «Quanto si rappresenta sul Teatro» […] «non deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La Commedia allora è quale esser deve, quando ci pare di essere in una compagnia del vicinato, o in una familiar conversazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non vi si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel Mondo. […]
Io […] ho scritte le mie Commedie   […] a guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una salutevole medicina, applicandovi poi la ra­gione dell'Arte, la conosce regolare e metodica.
Non pensi alcuno però ch'io abbia la temerità di creder le mie Commedie esenti da ogni difetto. Tanto son io lon­tano da una tal presunzione, quanto mi vo ogni giorno affaticando per migliorar in esse il mio gusto. Parmi solamente di esser giunto a segno di non aver da vergognarmi d'averle fatte, e di poter arrischiarmi di darle alle stampe con isperanza di qualche compatimento.
Io le lascio correre candidamente quali esse furono dapprima scritte e rappresentate. Non voglio che si dica ch'io correggendole abbia cercato di accrescere il merito delle mie prime fatiche oltre alla verità; anzi desidero che il mon­do conosca nella differenza che si ravvisa tra le prime e le ultime, come gradatamente, a forza di osservazione e di sperienza, mi sono andato avanzando. A questo fine, stampandole nell'ordine stesso con cui furon composte, rinunzio anche al maggior credito che potrei procurar al mio libro, se io facessi preceder alle prime più deboli, le ultime a mio parere manco imperfette, e specialmente Il cavaliere e La dama, che superò le altre tutte in aver applauso, e nella quale veramente ho posto più studio e fatica.
Per altro, come io ho sempre, egualmente volentieri che gli stessi applausi, ascoltate le varie critiche che furon fatte alle mie Commedie, mentre si recitavano, poiché se quelli animavano a comporre, queste m'insegnavano a compor meglio; così senza cruccio son apparecchiato ad accogliere anche quelle che lor venissero fatte all'occasion ch'escon da' torchi, collo stesso unico oggetto di profittarmi de' buoni lumi che potessi indi trarne, ora per sempre disobbligandomi per altro dal far loro la minima risposta. Le composizioni di niun valore non sono nemmeno oggetto degno di critica. Che se alle mie Commedie ne sono state fatte, o se ne faran tuttavia in avvenire, io trarrò quindi un sicuro argomento che degne sieno di osservazione, e però fornite di qualche merito. In fatti, se quelli che o due o tre anni fa sofferivano sul Teatro improprietà, inezie, Arlicchinate da mover nausea agli stomachi più grossolani, son divenuti al presente così dilicati, che ogn'ombra d'inverisimile, ogni picciolo neo, ogni frase o parola men che toscana li turba e travaglia, io posso senza arroganza attribuirmi il merito d'aver il primo loro ispirata una tal dilicatezza col mezzo di quelle stesse Commedie che alcuni di essi indiscretamente, ingratamente, e fors'anche talvolta senza ragione si sono messi, o si metteranno a lacerare.
Quanto alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d'usar molte frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni idiotismi Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in Lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana.
Lo stile poi l'ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand'Arte del Comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti; conciossiaché, osserva a questo proposito il da me tante volte nominato Padre Rapin, «bisogna mettersi bene in capo, che i più grossolani tratti della natura piacciono sempre più che i più delicati fuori del naturale».
Io mi accorgo d'essere uscito dal mio primo proponimento, e di aver già fatta alle mie Commedie, senza avvedermene e senza volerlo, una Prefazione, se non erudita, certamente lunga. Finisco però senza più dilungarmi, pregando i miei Leggitori di volere ne' Tomi che seguiran questo primo, attendere Commedie meno imperfette, e ad usar verso di esse tanto maggior discretezza, quanto in loro coscienza si sentissero minor forza di farne delle migliori.




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