Carlo Goldoni, Prefazione alle Commedie pubblicate
nel 1750 presso Bettinelli.
Finalmente ritornato in Venezia mia
Patria, fui obbligato a darmi all'esercizio del Foro, per provvedere, mancato
di vita mio Padre, alla mia sussistenza, dopo, d'essere stato già in Padova
onorato della laurea Dottorale, e di aver qualche tempo servito nelle
assessorie di alcuni ragguardevoli Reggimenti di questa Serenissima Repubblica
in Terraferma. Ma chiamavami al Teatro il mio Genio, e con ripugnanza penosa
adempiva i doveri d'ogni altro, comecché onorevolissimo Uffizio. In fatti, se
mai in altro tempo applicai con diletto e con osservazion diligente alle
Drammatiche Composizioni che su que' famosi Teatri rappresentavansi, certamente
fu in questo. Dimodoché, sebbene da' miei principi formar potessi un non
infelice presagio dell'avvenire nella profession nobilissima dell'Avvocato in
quel celebre Foro, pure rapito dalla violenta mia inclinazione, mi tolsi alla
Patria, risoluto di abbandonarmi affatto a quella interna forza, che mi voleva
tutto alla Drammatica Poesia. Scorse molte Italiane Città, intento ad
apprendere i vari usi e costumi, che pur diversi fioriscono ne' vari Domini di
questa nostra deliziosa parte d'Europa, fermatomi finalmente in Milano, colà
principiai a compor di proposito per servigio degli Italiani Teatri.
Tutto ciò ho voluto riferir ingenuamente
colla sola mira di far rilevare il vero e sodo stimolo ch'ebbi per darmi
intieramente a questo genere di studio. Altro non fu esso certamente se non se
la invincibil forza del Genio mio pel
Teatro, alla quale non ho potuto far fronte. Non è perciò maraviglia se in tutti i miei viaggi, le mie dimore, in
tutti gli accidenti della mia vita, in tutte le mie osservazioni, e fin ne'
miei passatempi medesimi, tenendo sempre rivolto l'animo e fisso a questa sorta
di applicazione, m'abbia fatta un'abbondante provvisione di materia atta a
lavorarsi pel Teatro, la quale riconoscer debbo come una inesausta miniera
d'argomenti per le Teatrali mie Composizioni; ed ecco come insensibilmente
mi sono andato impegnando nella presente mia professione di Scrittor di
Commedie. E per verità come mai lusingar alcuno, senza di questo particolar
Genio dalla Natura stessa donato, di poter riuscire fecondo e felice Inventore
e Scrittor di Commedie?«La cosa più
essenziale della Commedia» scrive un valente Francese «è il ridicolo. Avvi un
ridicolo nelle parole, ed un ridicolo nelle cose; un ridicolo onesto, e un
ridicolo buffonesco. Egli è un puro dono della Natura il saper trovar il
ridicolo d'ogni cosa. Ciò nasce puramente dal Genio. L'arte e la regola vi han poca parte, e quell'Aristotile, che sa così
bene insegnar a far piangere gli uomini, non dà alcun formale precetto per
fargli ridere.» Che cosa può dunque far mai chi non ha questo Genio della
Natura? Potrà ben egli, quand'abbia formato collo studio un buon senso,
rettamente giudicar forse delle opere altrui in questo genere medesimo, ma non
produrne felicemente delle proprie. Potrà forse anche, dopo di aversi bene
stillato il cervello sui libri degli egregi Maestri, che dell'Arte della Commedia
diedero le ottime regole tratte dall'esempio de' bravi Poeti Comici, che ne'
secoli andati fiorirono, potrà, dico, far delle regolatissime Opere, scriverà in purgatissima Lingua, ma avrà la
disgrazia, che tuttavia non piacerà sul Teatro. Così non piacendo, non potrà nemmeno istruire, giacché l'istruzione
vuole dalle Scene esser porta al popolo, addolcita dalle grazie e lepidezze
poetiche, se l'Uditore che viene al Teatro col fin primario di ricrearsi, ha da
indursi a gustarla.
pueris absinthia taetra medentes. cum dare conantur, prius oras pocula circum ... liquore,. ut puerorum aetas improvida ludificetur. labrorum tenus ,interea perpotet amarum. absinthi laticem deceptaque non capiatur,
Chi non avrà insomma questo Comico Genio
non saprà dare ai suoi pensieri quel giro piacevole, quel brio giulivo, che sa
sostenere la giocondità del proprio carattere senza cadere in freddezza, o pure
in buffoneria; e non saprà finalmente innestare quella delicata barzelletta
che, al detto del sovrallodato P. Rapin, è il fiore di un bell'ingegno, e quel
talento che vuol la Commedia.
Ora fu in me questo Genio medesimo, che
rendendomi osservator attentissimo delle
Commedie, che sui vari Teatri d'Italia da diciotto o venti anni in qua
rappresentavansi, me ne fece conoscere e compiangere il gusto corrotto,
comprendendo nel tempo stesso, che non poco utile ne sarebbe potuto derivare al
Pubblico, e non iscarsa lode a chi vi riuscisse, se qualche talento animato dallo
spirito comico tentasse di rialzare l'abbattuto Teatro Italiano. Questa lusinga
di gloria fini di determinarmi all'impresa.
Era
in fatti corrotto a segno da più di un secolo nella nostra Italia il Comico
Teatro, che si era reso abominevole oggetto di disprezzo alle Oltramontane
Nazioni. Non correvano sulle pubbliche Scene se non sconce Arlecchinate, laidi
e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole mal inventate, e peggio
condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come
pur è il primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano,
e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e
dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e
dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano
strascinate dall'ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famigliuola
innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato, giacché questi per verità
erano quegli spettacoli da' quali Pudicitiam
saepe fractam, semper impulsam vidimus... multae inde domum impudicae, plures
ambiguae rediere: castior autem nulla[2]. Per la qual cosa Tertulliano a' Teatri
sì fatti dà nome di Sacrari di Venere[3], ed il Grisostomo dice, che nelle Città
furono edificati dal Diavolo, e che da essi diffondesi per ogni luogo la peste
del mal costume[4]; quindi a ragione i Sacri Oratori
fulminavano da' Pulpiti così corrotte Commedie, ch'erano in fatti oggetto ben
giusto dell'abominazione de' Saggi.
Molti però negli ultimi tempi si sono
ingegnati di regolar il Teatro, e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son
provati di farlo col produrre in iscena Commedie dallo Spagnuolo o dal Francese
tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia. I gusti delle Nazioni son differenti, come
ne son differenti i costumi e i linguaggi. E perciò i mercenari Comici nostri,
sentendo con lor pregiudizio l'effetto di questa verità, si diedero ad
alterarle, e recitandole all'improvviso, le sfiguraron per modo, che più non si
conobbero per Opere di que' celebri Poeti, come sono Lopez di Vegall e il
Molière, che di là da' Monti, dove miglior gusto fioriva, le avevan felicemente
composte. Lo stesso crudel governo hanno fatto delle Commedie di Plauto e di
Terenzio; né la risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie
ch'eran nate, o che andaran nascendo nell'Italia medesima, e specialmente a
quelle della pulitissima Scuola Fiorentina, che andavan loro cadendo tra mano.
Intanto i Dotti fremevano: il Popolo s'infastidiva: tutti d'accordo esclamavano
contra le cattive Commedie, e la maggior parte non aveva idea delle buone.
Avvedutisi i Comici di questo universale
scontento, andaron tentoni cercando il loro profitto nelle novità. Introdussero
le macchine, le trasformazioni, le magnifiche decorazioni; ma oltre al riuscir
cosa di troppo dispendio, il concorso del popolo ben presto diminuiva. Andate
però in fumo le Macchine, hanno procurato di aiutar la Commedia cogl'Intermezzi
in Musica; ottimo riuscì lo spediente per qualche tempo, ed io fui de' primi a
contribuirvi con moltissimi Intermezzi, fra' quali mi ricordo aver fatta molta
fortuna la Pupilla, la Birba, il Filosofo, l'Ippocondriaco,
il Caffè, l'Amante
Cabala, la Contessina, il Barcaiuolo. Ma i Comici non essendo Musici,
non tardò l'Uditorio a sentire quanto poca relazione colla Commedia abbia la
Musica. Le Tragedie in ultimo luogo, e i Drammi composti per la Musica,
recitati dai Comici, han sostenuti i Teatri. In fatti si son recitate eccellenti
Tragedie e bellissimi Drammi con lodevolissima forma da' nostri valenti Attori,
che mirabilmente vi riuscirono. Qual incontro non ebbero i Drammi del celebre
Signor Abate Metastasio, quelli dell'Illustre Signor Apostolo Zeno, le Tragedie
del sapientissimo Patrizio Veneto Signor Abate Conti, la Merope dell'eruditissimo Signor Marchese
Maffei, l'Elettra ed altre molte, o interamente
composte, o eccellentemente dal Francese trasportate, dal peritissimo Signor
Co. Gasparo Gozzi, non men che altre eziandio, così di antichi come di redenti
valorosi Poeti, Italiani, Francesi ed Inglesi, i quali per brevità, non per
mancanza di stima o di rispetto, tralascio di nominare: e mi sia lecito il
dirlo, qual compatimento non ebbe anche alcuna delle mie Rappresentazioni? cioè
il Bellisario, l'Errico, laRosmonda, il Don Giovanni Tenorio, il Giustino, il Rinaldo da Montalbano, tuttoché non ardisca dar loro il
titolo di Tragedie, perché da me stesso conosciute difettose in molte lor
parti. Ma codesti applausi stessi, che riscuotevano i Drammi e le Tragedie
rappresentate da' Comici, erano appunto la maggior vergogna della Commedia,
come la più convincente prova della estrema sua decadenza.
Io
frattanto ne piangea fra me stesso, ma non avea ancora acquistati lumi
sufficienti per tentarne il risorgimento. Aveva per verità di quando in quando
osservato, che nelle stesse cattive Commedie eravi qualche cosa ch'eccitava
l'applauso comune e l'approvazion de' migliori, e mi accorsi che ciò per lo più
accadeva all'occasione d'alcuni gravi ragionamenti ed istruttivi, d'alcun
dilicato scherzo, d'un accidente ben collocato, di una qualche viva pennellata,
di alcun osservabil carattere, o di una dilicata critica di qualche moderno
correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra del maraviglioso,
la vince nel cuor dell'uomo il semplice e il naturale.
Al barlume di queste scoperte mi diedi immediate a comporre
alcune Commedie. Ma prima di poter farne delle passabili o delle buone, anch'io
ne feci delle cattive. Quando si studia
sul libro della Natura e del Mondo, e su quello della sperienza, non si può per
verità divenire Maestro tutto d'un colpo; ma egli è ben certo che non vi si
diviene giammai, se non si studiano codesti libri.[…]
Ecco quanto ho io appreso da' miei due
gran libri, Mondo e Teatro.
Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di
regolarle, co' precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per
altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal
genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di
quest'Arte. La natura è una universale e
sicura maestra a chi l'osserva. «Quanto si rappresenta sul Teatro» […] «non
deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La Commedia allora è
quale esser deve, quando ci pare di essere in una compagnia del vicinato, o in
una familiar conversazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non vi
si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel Mondo. […]
Io […] ho scritte le mie Commedie […] a
guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una
salutevole medicina, applicandovi poi la ragione dell'Arte, la conosce
regolare e metodica.
Non pensi alcuno però ch'io abbia la temerità
di creder le mie Commedie esenti da ogni difetto. Tanto son io lontano da una
tal presunzione, quanto mi vo ogni giorno affaticando per migliorar in esse il
mio gusto. Parmi solamente di esser giunto a segno di non aver da vergognarmi
d'averle fatte, e di poter arrischiarmi di darle alle stampe con isperanza di
qualche compatimento.
Io le lascio correre candidamente quali
esse furono dapprima scritte e rappresentate. Non voglio che si dica ch'io
correggendole abbia cercato di accrescere il merito delle mie prime fatiche
oltre alla verità; anzi desidero che il mondo conosca nella differenza che si
ravvisa tra le prime e le ultime, come gradatamente, a forza di osservazione e
di sperienza, mi sono andato avanzando. A questo fine, stampandole nell'ordine
stesso con cui furon composte, rinunzio anche al maggior credito che potrei
procurar al mio libro, se io facessi preceder alle prime più deboli, le ultime
a mio parere manco imperfette, e specialmente Il cavaliere e La dama, che superò le altre tutte in aver
applauso, e nella quale veramente ho posto più studio e fatica.
Per altro, come io ho
sempre, egualmente volentieri che gli stessi applausi, ascoltate le varie
critiche che furon fatte alle mie Commedie, mentre si recitavano, poiché se
quelli animavano a comporre, queste m'insegnavano a compor meglio; così senza cruccio son apparecchiato ad
accogliere anche quelle che lor venissero fatte all'occasion ch'escon da'
torchi, collo stesso unico oggetto di profittarmi de' buoni lumi che potessi
indi trarne, ora per sempre disobbligandomi per altro dal far loro la minima
risposta. Le composizioni di niun valore non sono nemmeno oggetto degno di
critica. Che se alle mie Commedie ne sono state fatte, o se ne faran tuttavia
in avvenire, io trarrò quindi un sicuro argomento che degne sieno di
osservazione, e però fornite di qualche merito. In fatti, se quelli che o due o
tre anni fa sofferivano sul Teatro improprietà, inezie, Arlicchinate da mover
nausea agli stomachi più grossolani, son divenuti al presente così dilicati,
che ogn'ombra d'inverisimile, ogni picciolo neo, ogni frase o parola men che
toscana li turba e travaglia, io posso senza arroganza attribuirmi il merito
d'aver il primo loro ispirata una tal dilicatezza col mezzo di quelle stesse
Commedie che alcuni di essi indiscretamente, ingratamente, e fors'anche
talvolta senza ragione si sono messi, o si metteranno a lacerare.
Quanto
alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d'usar molte frasi e voci
Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre,
principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad
alcuni idiotismi Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per
Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far
sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il
Dottore che recitando parla in Lingua Bolognese, parla qui nella volgare
Italiana.
Lo
stile poi l'ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice,
naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand'Arte del Comico Poeta,
di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti
debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di
tutti; conciossiaché, osserva a questo proposito il da me tante volte nominato
Padre Rapin, «bisogna mettersi bene in capo, che i più grossolani tratti della
natura piacciono sempre più che i più delicati fuori del naturale».
Io mi accorgo d'essere uscito dal mio primo proponimento, e di
aver già fatta alle mie Commedie, senza avvedermene e senza volerlo, una Prefazione,
se non erudita, certamente lunga. Finisco però senza più dilungarmi, pregando i
miei Leggitori di volere ne' Tomi che seguiran questo primo, attendere Commedie
meno imperfette, e ad usar verso di esse tanto maggior discretezza, quanto in
loro coscienza si sentissero minor forza di farne delle migliori.
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