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martedì 8 settembre 2015

"DAL FUOCO ALL'ACQUA" PER CECILIA E CAROLA

DAL FUOCO ALL’ACQUA  
Dedico questa I lezione all’acqua e al mare. Vi parlerò di sentimenti e di proponimenti,  perché sono convinta che non sia  più tempo di dichiarazioni, bensì di fattività: per questo incastonata al centro del mio discorso pensato per voi c’è una poesia. Con quanto di “fare”, poièin, è intrinsecamente (e un po’ contraddittoriamente) contenuto in questa attività dello spirito.

Se è vero, come ha scritto variamente Leopardi, che il mondo non basta al pensiero dell’uomo, che un insaziabile desiderio di infinito riempie l’anima di un numero elevato di soggetti che calcano le strade del mondo, allora è possibile che la poesia, l’arte,  ma anche la lettura e la visione o l’ascolto siano nati per sopperire a una mancanza, a un’inadeguatezza che i nostri sensi percepiscono all’indomani del superamento dell’infanzia. Questo perché  i bambini possiedono un istinto che li avvicina al cuore del mondo e li rende appagati,  hanno un modo di sentire l’esistente di cui molti artisti hanno cercato di riappropriarsi come di un bene originario perduto, come di una facoltà imprescindibile per poter a loro volta creare. Noi, intendo tutti quelli che hanno varcato l’età adulta, soffriamo dell’ansia di infinito. Il romanticismo non è solo un periodo della storia letteraria, è un momento della storia dello spirito collettivo e individuale. È una bellissima combinazione che l’ingresso nell’età adulta per voi coincida con un percorso di studio che vi fa sprofondare, non perdere, nei pensieri elaborati in modi molto differenti da compagni d’anima come gli scrittori romantici. Sono convinta che il romanticismo non sia ancora finito, che sia un’epoca dal lungo respiro, che forse ora se la deve vedere con un momento di sonnolenza, di torpore, di superficialità, ma non ha perso la forza della sua passione.
Sehnsucht, abbiamo visto insieme l’anno scorso, significa pressappoco nostalgia. Eppure le due parole non sono esattamente corrispondenti, a causa di quei piccoli abissi che crea il processo traduttivo anche praticato con scrupolo di coscienza. Di comune, fra i due termini, c’è una percezione dolorosa. Poi il secondo, di etimo greco, fa affiorare l’idea di un ritorno situato al confine fra il possibile e l’impossibile. Perché certo, è possibile ritornare, fisicamente, in un luogo che si è lasciato, ma è impossibile ritrovarlo esattamente com’era o com’è diventato nella memoria. L’algos dunque è senza fine, non è destinato a placarsi, la nostalgia non  ha termine nemmeno quando l’oggetto di essa viene nuovamente raggiunto. Ulisse che si aggira spaesato nella sua Itaca finalmente ritrovata incarna suggestivamente questa impossibilità di placare la nostalgia: non la riconosce, perché quella che la sua anima portava con sé da anni era un’altra isola. Quanto a sehnsucht, da sehnen che significa desiderare e sucht che significa brama,  si capisce l’insistenza sul desiderio di per sé, con o senza oggetto ci si può persino spingere a ipotizzare, trattandosi di qualcosa sostanzialmente irraggiungibile. Nel sehnsucht non è compreso un ritorno, foss’anche a qualcosa di così diverso da non essere riconosciuto come ciò che si cercava. Sehnsucht è dunque pura aspirazione a, pura tensione, un inabissarsi nell’io che non ha termine. Lì si trova l’infinito, forse, ma non come un approdo, bensì come una prosecuzione della vertigine che Leopardi, fra tutti, ha miracolosamente racchiuso nel suo idillio.
Non è però lui il poeta al quale voglio ora lasciare la parola, di lui ci occuperemo un’altra volta. Oggi recheremo omaggio all’acqua, come vi ho detto, al mare, alle scoperte immaginabili e possibili, ai varchi che bisogna inventare per poter uscire provvisoriamente dalla trappola del mondo.
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono uguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto svanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno. (
Montale, Ossi di seppia, Casa sul mare)

Due soli i rilievi da questa poesia, ricca di suggestioni e di idee: taluno sovverte ogni disegno, scrive il poeta, e in cuor suo ogni lettore spera di essere quello. Ognuno di noi spera di sovvertire, quando ne avverta il bisogno, spera di passare varchi, di riuscire a vederli, per cominciare, e quindi di ritrovarsi come si è voluto. Vertiginosi  intrichi prodotti dai  verbi servili: volere, potere, dovere. Posso quello che voglio, voglio quello che posso, ma non quello che devo, o devo soltanto e non posso volere? Chi vuole s’infinita. Ch’è come dire il desiderio, sensucht allo stato puro. E ancora, il poeta è in possesso di un’avara speranza, che potrebbe, forse, dare agio a qualcuno, a taluno, a me, a voi, di trovarsi a scampare, mentre  il soggetto attivo in questa  operazione salvifica è addirittura  il fato.  Noi ci siamo abituati a pensarlo,  questo fato, per percorsi culturali fatti insieme, inesorabile come il tempo che scorre, insondabile come un buco nero nell’universo; e la volontà individuale, debole o forte che sia, non può mutare i suoi corsi, le lettere in cui è scritto il destino non sopportano varianti e nemmeno libere interpretazioni. Ma in questa poesia l’ipotesi è un’altra: non ciascuno è artefice del proprio destino, ma il destino è una potenza benevola, che salva. Da cosa? Qui  si aprono le strade infinite dell’intendimento individuale: per me, che ho guardato e letto le onde del mare, occorre salvarsi dagli approdi troppo facili.  Non voglio approdare, se l’approdo è uno di quei luoghi cosiddetti sicuri,  dove l’anima si perde in cure meschine e s’inaridisce. Voglio un destino che m’incalzi, che mi nutra di desiderio infinito: se ci sarà da perdersi, che sia in questa distesa  sempre diversa e sempre uguale.
In una lezione introduttiva dell’anno scolastico non può mancare un riferimento ai maestri. Ebbene, se ci sono dei maestri a questo mondo, se c’è un alfabeto di segni che possiamo non solo decifrare, ma imparare a usare per sillabare verità vecchie e nuove, per tessere immaginazioni appaganti, questi sono gli elementi naturali, dai quali provengono tesori di similitudini, suggerimenti  su modi di stare al mondo, di guardare, vedere, ascoltare, trasmettere, disegnare. C’è un alfabeto del fuoco e un alfabeto dell’acqua. Finora mi sono  servita del primo, quest’anno ho deciso di scrivere le battute della nostra partitura con note d’acqua.



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