“Studiare
non significa sapere, volere non significa potere”. Lo scrive alla lavagna il
professore di tedesco, Robert Zupan, citando il più importante scrittore in
lingua slovena di fine Ottocento, Ivan Cankar. Di fronte a lui, inetti all’intendimento,
una ventina di ragazzi e ragazze quasi
completamente devastati dall’imperante e pervasiva stupidità che colonizza il
pianeta in questo periodo. Impossibile intendano la sua lingua, non solo perché
parla il tedesco che loro non padroneggiano per nulla, ma per la profondità delle idee che tenta di
trasmettere. La loro mente è appiattita su luoghi comuni dettati da un ribellismo senza costrutto, sostanzialmente
infondato, dal momento che quasi tutti loro sono protetti dalla famiglia, dal
sistema scolastico, dagli insegnanti, convergenti, con motivazioni diverse, nell’operare
in modo che nessuno mai riesca a pensare veramente a fondo a qualcosa, alle
relazioni umane, per esempio, alla loro ragion d’essere, al loro significato,
alle loro conseguenze.
Quasi
completamente devastati, ma non del tutto. Sabina, che pone la domanda, “allora
perché viviamo”, se è vero che “solo poche cose servono veramente a vivere”,
non è devastata dalla stupidità. Glielo riconosce, il professor Zupan, quando
la esorta a soffermarsi sul significato della parola “fallito”. La aiuta a
guardare il suo bivio, non le suggerisce una risposta, ed è lei che compie la
scelta che le detta il momento. Una scelta che le viene dal profondo, una
scelta definitiva e anche l’unica vera
per lei. Su quanto possa soffrire il professor Zupan per essere stato il clinàmen di Sabina, che si suicida, giustamente il regista decide di non
soffermarsi. Sarebbe una forma di indulgenza al facile sentimentalismo verso il
quale è manifesta la sua insofferenza. In compenso indugia a dettagliare tutte
le reazioni di giovani e adulti di fronte alla tragedia. A parte l’amica Mojca,
che non a caso tace a lungo, piange molto e poi scrive un tema in cui finalmente si
ascoltano parole vere, i suoi compagni riservano all’evento una partecipazione superficiale,
come superficiali e disattenti erano stati nei riguardi di Sabina finché lei
era viva. Gli adulti, a partire dalla preside della scuola, sono
preoccupati per l’immagine della scuola,
per il mantenimento di un status quo
che, quand’anche sia, o proprio perché è, profondamente ipocrita, non deve
essere modificato. La morte di Sabina consente ad esempio di palesare la
vacuità d’animo dell’insegnante Nuša,
che blandisce i ragazzi con un affetto superficiale, da loro respinto
quando, sia pur confusamente, avvertono come sia esteriore e autoassolutorio. D’altronde
tutti, in particolare nell’atto di scagliarsi contro il professor Zupan, mirano
all’autoassoluzione, in base alla banale e logicamente errata considerazione
secondo cui, se di un evento è responsabile un altro, non lo sono più io.
“La
morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive” ha scritto Thomas
Mann, l’autore al centro delle lezioni di Zupan. Impreparati ad accogliere il
senso profondo di un’affermazione siffatta, i ragazzi oppongono resistenza alla
riflessione, vorrebbero essere lasciati “in pace”, “andare al bar”, come non a
caso propone il collega di Robert debole e infingardo. Sfiora l’intendimento
solo Mojca, quando nel suo tema scrive che lei non si potrà più dimenticare di
Sabina, mentre Sabina certo non ha pensato a lei (né ai suoi genitori, né al
suo gatto, per quanto abbia potuto amarli tutti quanti) quando ha deciso di
morire. Sabina ha saputo scegliere, dice nel suo discorso conclusivo il
professor Zupan, mentre molti di voi non sanno neanche che vestito indossare al
mattino, non conoscono i loro desideri, le loro aspirazioni, non ne hanno, e si
abbandonano alla corrente del fiume come naufraghi che aspettano disperatamente
un tronco a cui aggrapparsi. Ma anche il tronco è in balia della corrente e il
fallimento è tutto racchiuso in quell’attesa di un aiuto esterno così misero e
inconsistente, mentre la forza per arrivare a riva deve essere trovata nell’interiorità.
“Ho cercato di rendervi persone, e voi avete avuto la vostra occasione di
crescere per via della tragedia che vi è capitata. Invece siete rimasti al
punto di partenza.” Sono parole dure,
di là dalle quali si coglie però una finale rivelazione sull’ermetica
personalità di Zupan: è un uomo capace di amare profondamente, perché capace di
capire profondamente. La prova che intelligenza e sentimento non possono essere
disgiunti, che il secondo senza la prima detta comportamenti incongruenti e
inconcludenti, istintivi e distruttivi. La prova che dell’intelligenza non si
può fare a meno in nessun momento della vita e che bisogna esercitarla
continuamente, con tutta la fatica che questo comporta, per non essere
umiliati, per cominciare, da se stessi. Il totalitarismo di nessuna matrice
potrà far breccia in noi se sapremo evitare di umiliarci.
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