PASCOLI
– POEMI CONVIVIALI (L’ULTIMO VIAGGIO)
INTRODUZIONE
“Tutte le poesie hanno un legame tra loro. È l’enfant du siècle che si è perduto nella notte dei secoli:
sente voci strane e terribili e ad ora
ad ora una melodia di lire eolie. Tutto gli si vivifica attorno: le nuvole
sembrano guerrieri, gli alberi sembrano dei. Le memorie del passato brulicano
per dove passa e le ombre conversano con lui. Egli è oppresso da tanta vitalità
esteriore e si lascia trascinare fuori dal presente: egli si trova tra un sogno
e una visione, tra il passato e l’avvenire…”. Così si esprime un Pascoli molto giovane (1876, 21 anni), con
parole che ben si addicono però alla raccolta, di parecchi anni posteriore, dei
Poemi conviviali (prima edizione,
1904), concepita e scritta in un arco di
tempo ampio (dal 1895 al 1904 appunto, trattandosi di componimenti che
vennero presentati al pubblico dapprima singolarmente sulla rivista, diretta da
Adolfo De Bosis, “Convito” , da cui il titolo della raccolta, e poi in
edizione completa). Piccole sinfonie, i poemi sono un tessuto polifonico di
citazioni, talora intrecciate tra loro secondo una tecnica contaminatoria che
ricorda la maniera dei poeti alessandrini, con i quali Pascoli condivide anche
il sentimento nostalgico del passato, al quale (proprio come i suoi antichi
predecessori) associa un senso del Nulla profondamente venato di tristezza.
Sarà questa la nota dominante del nostro discorso, che si concentrerà su uno
dei poemi conviviali che ci sembra particolarmente adatto a esemplificare
questo tema (del passato come nostalgia, come algos, dolore, del nostos,
ritorno): L’ultimo viaggio.
L’ULTIMO VIAGGIO
L’idea del poema
conviviale (24 canti in endecasillabi sciolti) che reca questo titolo ha un’evidente parentela con quella dantesca:
l’Ulisse pascoliano, come quello della Commedia,
non si appaga del ritorno ad Itaca né della prospettiva di una serena
vecchiaia: la voce possente del mare riprende a chiamarlo (“e l’inquieto mare, / mare infinito,
fragoroso mare / su la duna lassù lo riconobbe / col riso innumerevole
dell’onde”, VIII, 47-50). I canti V e VI, per fornire qualche rimando
testuale, descrivono un Ulisse cui la vecchiaia ha “rammollito le membra”, col
“grigio capo tremante” (cfr. vv. V,5 e 40), seduto davanti al fuoco con l’altrettanto
anziana Penelope, silenziosa nella sua indefessa operosità (VI, 10-12 e 41-42).
Un quadro di vita apparentemente placida, dietro al quale si cela, però,
l’intenso e costante travaglio dell’Eroe che agogna un Altrove: esso si palesa
nei suoi sogni (quelli ad occhi aperti di cui si legge nel canto VII), è sempre
vivo nella sua immaginazione ed assume una parte attiva nell’indurlo a
ripartire da Itaca. Fondamentale, per la decisione, è però anche l’incontro con
l’aedo Femio, il quale dichiara di aver gettato la cetra (proprio come Ulisse
ha rinunciato al remo, piantandolo nella terra secondo un’immagine che già
risale all’Odissea) ed essersi
rassegnato al silenzio. Ulisse riconosce in lui un alter ego, condannato al silenzio della poesia come lui
all’inattività, e pronuncia parole presaghe di quella che sarà la conclusione
dell’ultimo viaggio: “sonno è la vita
quando è già vissuta: / sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla.”(X,
30-31). L’Aedo e l’Eroe si dirigono insieme verso la nave, che li condurrà
all’ultimo viaggio, e trovano sulla riva tutti i vecchi compagni di Ulisse, in
attesa (da dieci anni!) della sua decisione di ripartire. L’”orazion picciola”
in questo caso suona come espressione della volontà di Ulisse di ritrovare il
proprio passato (“io vedo/ che ciò che
feci è già minor del vero”, XII, 38-39)), di riconoscere che sia accaduto
davvero, che non sia un sogno ma la vita vera di un uomo, anzi, di un Eroe. Alla
seduzione del Vero nessuno sa resistere e tutti i compagni si affrettano ad allestire
la nave, nella cui stiva si scopre a dormire, quando ormai la nave è salpata,
il pitocco Iro, personaggio minore dell’Odissea, occasionalmente latore di
messaggi (da cui il soprannome divenuto nome), chiamato qui a svolgere una
funzione che fra breve diremo. La prima meta del viaggio nel passato è l’isola
di Circe, dove l’Eroe cerca, portando con sé l’Aedo Femio e la sua muta cetra,
la casa della Maga amante delle metamorfosi ferine, ma soprattutto le memorie
del suo antico amore. Gli pare, a un certo punto, di sentire la voce della Dea,
così come un lontano ruggito di leoni, sicché propone a Femio di dividersi
nella ricerca e di chiamarsi (il cantore con la cetra, l’Eroe con un alalà
guerriero) in caso di successo. Ma non è questo il destino, ovvero non è
destino che Ulisse trovi l’amore antico: l’isola è vuota, se mai qualcuno (o
Qualcuna) l’ha davvero abitata. Al calar delle tenebre decide dunque di
riunirsi a Femio e gli pare di udire da lontano il suono della sua cetra: “l’udiva, / sempre più mesta, sempre più
soave, / cantar l’amore che dormia nel cuore, / e che destato solo allor ti
muore” (XVII, 31-34). La cetra che canta queste parole mestamente soavi è
lo strumento di un aedo morto: l’isola (non ritrovata) di Circe diviene la
tomba della poesia che non può più cantare. Divenuto più triste (così recita l’incipit del XVIII canto), Ulisse riprende il viaggio,
avendo come meta l’isola dei Ciclopi, ove si palesò la sua gloria di Eroe,
capace di sconfiggere il mostro monocolo e antropofago. Questa volta, nella
perlustrazione del passato, porta con sé il pitocco Iro, lasciando gli altri a
custodire la nave. Nuovamente si tratta di una ricerca che porta a scoprire il
Nulla o, variante non meno dolorosa, la vaporosità di un ricordo mitico: gli
abitanti di quella terra selvaggia sono civilissimi allevatori, che vivono
pacificamente un’esistenza familiare e conservano un lontanissimo ricordo di un
tempo in cui un monte scagliava sassi nel mare. Alla domanda, speranzosamente
posta da Ulisse, se mai qualcuno avesse
conficcato un palo nell’occhio del monte, la voce pacata del pastore
interpellato risponde con una parola
gravida di ironia per l’inesausto cercatore di se stesso: “Nessuno” (XX, 44). Anche in questo caso, inoltre, la ricerca
inutile implica la perdita di un compagno: Iro decide di fermarsi presso il
pastore e diventarne il garzone. Sempre più triste, Ulisse riprende il viaggio,
mentre l’idea che la sua vita sia stata solo un sogno si consolida nella sua
mente: “Il mio sogno non era altro che sogno;
/e vento e fumo. Ma sol buono è il vero” (XXI, 15-16). L’ultima tappa
dunque è il Vero, identificato col canto delle Sirene incantatrici, che l’Eroe
vuole sfidare senza l’ausilio delle funi, libero e ritto sulla sua nave. Quando
esse appaiono in lontananza egli inizia a rivolgersi loro con appelli alla memoria, presentandosi come
colui che le ascoltò, senza potersi fermare. Poi, giunto nei pressi delle
antiche creature, rivolge la domanda che racchiude evidentemente il senso del
Viaggio, ma suona anche come l’appello disperato di un cuore stanchissimo: “Chi sono?” (XXIII, 38). Ulisse vuole sapere dalle Sirene se la sua
vita abbia avuto un senso, se sia stata davvero, se non sia un sogno vaporoso,
troppo simile al nulla, e la risposta che ottiene è fragorosa ed eloquente: la
nave si frantuma fra due alti scogli, le Sirene appunto, personificazione della
Verità ricercata con accanimento, la quale altro non è che morte, fine, vita
che si rapprende un’unica volta, quando si muore.
Ma nemmeno questa è la
fine. Per l’epilogo occorre giungere all’isola della Solitaria Nasconditrice,
l’amante che avrebbe regalato a Ulisse l’immortalità se costui non l’avesse
alla fine rifiutata… In un’aria carica di presagi nefasti, la dea, che sembra
riassumere in sé anche le fattezze di Penelope (si presenta con la spola in
mano), raccoglie il corpo dell’Eroe restituitole, nudo come una creatura
appena nata, dal mare che sa essere, al
tempo stesso, sterile e fecondo di morte. Mentre lo avvolge nella nube dei suoi
capelli, pronuncia parole senza risonanza per nessuno, giacché nessuno più ascolta
e anche la poesia è morta: “Non esser
mai! Non esser mai! Più nulla, /ma meno morte, che non esser più!” Pascoli
ha qui riassunto uno degli approdi della ricerca sapienziale greca: la cosa in
assoluto preferibile per l’uomo sarebbe non essere mai nato, unico modo per
evitare la morte. Inoltre, con l’intera rappresentazione del viaggio di Ulisse,
ha espresso la sua poetica del mito: esso è la dimensione perduta, il regno
della poesia vivente (ovvero della poesia che si identificava con la vita), al quale l’uomo del suo tempo può
guardare con l’occhio nostalgico che si riserva all’infanzia, complice il
fanciullino che vive pur sempre in qualcuno di noi.
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