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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

mercoledì 9 marzo 2016

BREVE COMMENTO ULTIMO VIAGGIO

PASCOLI – POEMI CONVIVIALI (L’ULTIMO VIAGGIO)
INTRODUZIONE
Tutte le poesie hanno un legame tra loro. È l’enfant du siècle che si è perduto nella notte dei secoli: sente voci  strane e terribili e ad ora ad ora una melodia di lire eolie. Tutto gli si vivifica attorno: le nuvole sembrano guerrieri, gli alberi sembrano dei. Le memorie del passato brulicano per dove passa e le ombre conversano con lui. Egli è oppresso da tanta vitalità esteriore e si lascia trascinare fuori dal presente: egli si trova tra un sogno e una visione, tra il passato e l’avvenire…”. Così si esprime un  Pascoli molto giovane (1876, 21 anni), con parole che ben si addicono però alla raccolta, di parecchi anni posteriore, dei Poemi conviviali (prima edizione, 1904), concepita e scritta in un arco di  tempo ampio (dal 1895 al 1904 appunto, trattandosi di componimenti che vennero presentati al pubblico dapprima singolarmente sulla rivista, diretta da Adolfo De Bosis, “Convito” , da cui il titolo della raccolta, e poi in edizione completa). Piccole sinfonie, i poemi sono un tessuto polifonico di citazioni, talora intrecciate tra loro secondo una tecnica contaminatoria che ricorda la maniera dei poeti alessandrini, con i quali Pascoli condivide anche il sentimento nostalgico del passato, al quale (proprio come i suoi antichi predecessori) associa un senso del Nulla profondamente venato di tristezza. Sarà questa la nota dominante del nostro discorso, che si concentrerà su uno dei poemi conviviali che ci sembra particolarmente adatto a esemplificare questo tema (del passato come nostalgia, come algos, dolore,  del nostos, ritorno): L’ultimo viaggio.
L’ULTIMO VIAGGIO
L’idea del poema conviviale (24 canti in endecasillabi sciolti) che reca questo titolo  ha un’evidente parentela con quella dantesca: l’Ulisse pascoliano, come quello della Commedia, non si appaga del ritorno ad Itaca né della prospettiva di una serena vecchiaia: la voce possente del mare riprende a chiamarlo (“e l’inquieto mare, / mare infinito, fragoroso mare / su la duna lassù lo riconobbe / col riso innumerevole dell’onde”, VIII, 47-50). I canti V e VI, per fornire qualche rimando testuale, descrivono un Ulisse cui la vecchiaia ha “rammollito le membra”, col “grigio capo tremante” (cfr. vv. V,5 e 40), seduto davanti al fuoco con l’altrettanto anziana Penelope, silenziosa nella sua indefessa operosità (VI, 10-12 e 41-42). Un quadro di vita apparentemente placida, dietro al quale si cela, però, l’intenso e costante travaglio dell’Eroe che agogna un Altrove: esso si palesa nei suoi sogni (quelli ad occhi aperti di cui si legge nel canto VII), è sempre vivo nella sua immaginazione ed assume una parte attiva nell’indurlo a ripartire da Itaca. Fondamentale, per la decisione, è però anche l’incontro con l’aedo Femio, il quale dichiara di aver gettato la cetra (proprio come Ulisse ha rinunciato al remo, piantandolo nella terra secondo un’immagine che già risale all’Odissea) ed essersi rassegnato al silenzio. Ulisse riconosce in lui un alter  ego,  condannato al silenzio della poesia come lui all’inattività, e pronuncia parole presaghe di quella che sarà la conclusione dell’ultimo viaggio: “sonno è la vita quando è già vissuta: / sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla.”(X, 30-31). L’Aedo e l’Eroe si dirigono insieme verso la nave, che li condurrà all’ultimo viaggio, e trovano sulla riva tutti i vecchi compagni di Ulisse, in attesa (da dieci anni!) della sua decisione di ripartire. L’”orazion picciola” in questo caso suona come espressione della volontà di Ulisse di ritrovare il proprio passato (“io vedo/ che ciò che feci è già minor del vero”, XII, 38-39)), di riconoscere che sia accaduto davvero, che non sia un sogno ma la vita vera di un uomo, anzi, di un Eroe. Alla seduzione del Vero nessuno sa resistere e tutti i compagni si affrettano ad allestire la nave, nella cui stiva si scopre a dormire, quando ormai la nave è salpata, il pitocco Iro, personaggio minore dell’Odissea, occasionalmente latore di messaggi (da cui il soprannome divenuto nome), chiamato qui a svolgere una funzione che fra breve diremo. La prima meta del viaggio nel passato è l’isola di Circe, dove l’Eroe cerca, portando con sé l’Aedo Femio e la sua muta cetra, la casa della Maga amante delle metamorfosi ferine, ma soprattutto le memorie del suo antico amore. Gli pare, a un certo punto, di sentire la voce della Dea, così come un lontano ruggito di leoni, sicché propone a Femio di dividersi nella ricerca e di chiamarsi (il cantore con la cetra, l’Eroe con un alalà guerriero) in caso di successo. Ma non è questo il destino, ovvero non è destino che Ulisse trovi l’amore antico: l’isola è vuota, se mai qualcuno (o Qualcuna) l’ha davvero abitata. Al calar delle tenebre decide dunque di riunirsi a Femio e gli pare di udire da lontano il suono della sua cetra: “l’udiva, / sempre più mesta, sempre più soave, / cantar l’amore che dormia nel cuore, / e che destato solo allor ti muore” (XVII, 31-34). La cetra che canta queste parole mestamente soavi è lo strumento di un aedo morto: l’isola (non ritrovata) di Circe diviene la tomba della poesia che non può più cantare. Divenuto più triste (così recita l’incipit  del XVIII canto), Ulisse riprende il viaggio, avendo come meta l’isola dei Ciclopi, ove si palesò la sua gloria di Eroe, capace di sconfiggere il mostro monocolo e antropofago. Questa volta, nella perlustrazione del passato, porta con sé il pitocco Iro, lasciando gli altri a custodire la nave. Nuovamente si tratta di una ricerca che porta a scoprire il Nulla o, variante non meno dolorosa, la vaporosità di un ricordo mitico: gli abitanti di quella terra selvaggia sono civilissimi allevatori, che vivono pacificamente un’esistenza familiare e conservano un lontanissimo ricordo di un tempo in cui un monte scagliava sassi nel mare. Alla domanda, speranzosamente posta da Ulisse,  se mai qualcuno avesse conficcato un palo nell’occhio del monte, la voce pacata del pastore interpellato risponde  con una parola gravida di ironia per l’inesausto cercatore di se stesso: “Nessuno” (XX, 44). Anche in questo caso, inoltre, la ricerca inutile implica la perdita di un compagno: Iro decide di fermarsi presso il pastore e diventarne il garzone. Sempre più triste, Ulisse riprende il viaggio, mentre l’idea che la sua vita sia stata solo un sogno si consolida nella sua mente: “Il mio sogno non era altro che sogno; /e vento e fumo. Ma sol buono è il vero” (XXI, 15-16). L’ultima tappa dunque è il Vero, identificato col canto delle Sirene incantatrici, che l’Eroe vuole sfidare senza l’ausilio delle funi, libero e ritto sulla sua nave. Quando esse appaiono in lontananza egli inizia a rivolgersi loro con  appelli alla memoria, presentandosi come colui che le ascoltò, senza potersi fermare. Poi, giunto nei pressi delle antiche creature, rivolge la domanda che racchiude evidentemente il senso del Viaggio, ma suona anche come l’appello disperato di un  cuore stanchissimo: “Chi sono?” (XXIII, 38). Ulisse vuole sapere dalle Sirene se la sua vita abbia avuto un senso, se sia stata davvero, se non sia un sogno vaporoso, troppo simile al nulla, e la risposta che ottiene è fragorosa ed eloquente: la nave si frantuma fra due alti scogli, le Sirene appunto, personificazione della Verità ricercata con accanimento, la quale altro non è che morte, fine, vita che si rapprende un’unica volta, quando si muore.
Ma nemmeno questa è la fine. Per l’epilogo occorre giungere all’isola della Solitaria Nasconditrice, l’amante che avrebbe regalato a Ulisse l’immortalità se costui non l’avesse alla fine rifiutata… In un’aria carica di presagi nefasti, la dea, che sembra riassumere in sé anche le fattezze di Penelope (si presenta con la spola in mano), raccoglie il corpo dell’Eroe restituitole, nudo come una creatura appena  nata, dal mare che sa essere, al tempo stesso, sterile e fecondo di morte. Mentre lo avvolge nella nube dei suoi capelli, pronuncia parole senza risonanza per nessuno, giacché nessuno più ascolta e anche la poesia è morta: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, /ma meno morte, che non esser più!” Pascoli ha qui riassunto uno degli approdi della ricerca sapienziale greca: la cosa in assoluto preferibile per l’uomo sarebbe non essere mai nato, unico modo per evitare la morte. Inoltre, con l’intera rappresentazione del viaggio di Ulisse, ha espresso la sua poetica del mito: esso è la dimensione perduta, il regno della poesia vivente (ovvero della poesia che si identificava con  la vita), al quale l’uomo del suo tempo può guardare con l’occhio nostalgico che si riserva all’infanzia, complice il fanciullino che vive pur sempre in qualcuno di noi.



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