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giovedì 2 giugno 2016

FILO ROSSO - AFFINITÀ ELETTIVE (APPUNTI)

IL  FILO ROSSO  e LE AFFINITÀ ELETTIVE
Basilarmente è  un termine derivante dal linguaggio marinaresco (il filo rosso che si usava per districare le gòmene, funi per attraccare le imbarcazioni). Tuttavia il suo significato più profondo lo ha espresso Goethe, nel romanzo del 1809 intitolato Le affinità elettive. Poi  fil rouge è stato ripreso da Freud per definire l’inconscio.
Nel romanzo di Goethe una coppia sposata, unita da un amore conquistato dopo il superamento di alcuni ostacoli (entrambi, pur essendo giovani, sono rimasti vedovi di matrimoni d’interesse), vive armonicamente sia dal punto di vista sentimentale che intellettuale in una grande tenuta. A un certo punto il marito, Eduardo, decide di invitare a stare da loro un carissimo amico, il Capitano, che sta vivendo un momento difficile. I tre una sera ragionano sugli elementi chimici in questi termini, pervenendo alla definizione basilare di affinità elettiva, ovvero di fil rouge da cui volevo partire.

I casi più complicati sono proprio i più interessanti. Solo studiando questi, si conoscono i gradi di affinità, le relazioni più prossime e vigorose, e le più lontane e deboli. Le affinità cominciano ad essere interessanti quando producono separazioni.» «Ma questa parola triste, che purtroppo ormai si ode così di frequente in società,» esclamò Carlotta, «vien fuori anche nelle scienze naturali?» «Certamente!» rispose Eduardo. «Era addirittura un titolo onorifico dei chimici, chiamarli separatori.» «Questo non si fa più, però, per fortuna!» replicò Carlotta. «Riunire è arte più grande, merito maggiore. In ogni disciplina un artista unificatore sarebbe dappertutto il benvenuto. Ma fatemi conoscere qualche caso del genere, visto che volete continuare!» «Allora,» disse il capitano, «torniamo a quello che già prima abbiamo menzionato e discusso. Per esempio, ciò che chiamiamo calcare, è una terra calcarea, più o meno pura, intimamente combinata con un acido leggero, che conosciamo solo allo stato gassoso. Se immergiamo un pezzo di calcare in acido solforico diluito, questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione, e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola affinità, perché sembra proprio che una relazione venga anteposta ad un'altra, che si faccia una scelta.» «Voglia perdonarmi,» disse Carlotta, «come io perdono al naturalista. Ma io qui non vedrei una scelta, piuttosto una necessità naturale, e neppur questa: giacché forse, in sostanza, non si tratta che dell'occasione. L'occasione genera le relazioni, così come fa ladro l'uomo. E quando parliamo di questi corpi naturali, mi pare che la scelta stia tutta nelle mani del chimico, che li combina. Ma una volta che sono insieme, be', Dio li benedica! Nel caso in questione mi dispiace soltanto che quel povero acido aeriforme debba tornare ad arrabattarsi per l'infinito.» «Non dipende che da lui,» rispose il capitano, «di combinarsi con l'acqua, di servire, come fonte minerale, al ristoro di ammalati e di sani.»
«Avreste voglia - chiese Carlotta - di spiegarmi che cosa veramente si intende qui con affinità?»
«In tutti gli esseri naturali a noi noti - incominciò il Capitano  la prima cosa che osserviamo è che hanno un rapporto con se stessi»
«Immaginati l’acqua, l’olio, il mercurio: troverai un’unità, una connessione di parti, e quest’unità tali sostanze non la perdono, se non per l’intervento di una forza, rimossa la quale le parti tornano subito assieme».
«Ma ogni essere – lo interruppe Carlotta - così come ha un rapporto con se stesso, deve avere anche una relazione con gli altri»
«E tale relazione sarà diversa a seconda della diversità degli esseri – continuò Edoardo con prontezza – Si incontreranno subito, come amici, quelli che legano in fretta, che si uniscono senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri invece, pur trovandosi vicini, continueranno a restare estranei e non ci sarà verso di legarli, nemmeno mescolandoli o strofinandoli con mezzi meccanici: si pensi all’olio e all’acqua che, appena si smette di sbatterli, si separano di nuovo».
«Tutte quelle sostanze – spiegò il Capitano – che incontrandosi immediatamente si compenetrano e si influenzano a vicenda le chiamiamo “affini”».
«Devo confessare – disse la bella Carlotta – che quando lei chiama “affini” le sue sostanze io me le immagino legate non tanto da un’affinità di sangue quanto piuttosto da una di spirito o di anima. Ed è in questo stesso modo che possono nascere tra le persone delle amicizie importanti: sono infatti le qualità opposte che rendono possibile un’unione più stretta».

Il primo rapporto, sostiene il Capitano, è con se stessi. L’integrità della sostanza è assicurata dai suoi stessi confini determinati, dall’interconnessione fra le parti. La complessità, la diversificazione, si originano a partire dalle relazioni con gli altri. Gli elementi che legano in fretta diventano amici, si uniscono senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri, invece, pur nella vicinanza, restano estranei, come l’acqua e l’olio. Allora affini sono le sostanze che, incontrandosi,  immediatamente si compenetrano. Ma il discorso non si ferma qua, ragionando sul tema, si capisce che per esempio con le affinità il sangue può non c’entrare nulla, mentre c’entrano sempre lo spirito o l’anima. Le amicizie importanti sono queste: quelle che creano avvicinamenti anche tra opposti, destinati a diventare, perfino per l’opposizione, strettissimi.
Filo rosso come legame, tra l’io e gli altri,  per via di un’attrazione dello spirito. Nella vita, se si impara ad ascoltare se stessi, difficilmente ci si inganna sulle affinità elettive. Non hanno niente a che vedere con delle superficiali attrazioni sensuali, almeno inizialmente. Poi certo, a seconda dei casi, possono anche colorarsi in questa direzione, ma non è una condizione ineludibile per il loro iniziale istituirsi e nemmeno per il loro mantenimento e approfondimento.  Le affinità elettive sono infatti costitutive per amicizie durature, per amicizie meravigliose, come quella che nella dimensione artistica ha trovato una sua espressione nel legame fra Virgilio e Dante:   
Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi  (Purgatorio, XXX, 50-51)

Un’amicizia-amore d’elezione è poi quella che lega Dante a Beatrice. Non si può  prescindere dalla lettura di Borges: Beatrice è la donna perduta nella vita, mai avuta, mai compresa. Beatrice è la trascendenza ottenuta come unico rimedio alla perdita. Eppure Dante, che non a caso ha interiorizzato Sant’Agostino, quella  sua peculiare volontà di ricondurre tutto all’interiorità, cerca il suo paradiso non ne vuole uno metafisicamente impostato: per Dante agens, il paradiso di cori angelici, di potenze, troni e dominazioni non è appagante: in cielo tutto è paradiso, scrive, ma poi  è il sorriso di Beatrice l’unico in grado di circoscrivere la sua felicità.

Così quel lume: ond'io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso (XV, 34-36)


Fili rossi, paradisi. Circolazioni felici di idee che  riescono a varcare le distanze temporali. Come accade a  Machiavelli con  tutti gli spiriti della cui parola si nutre nel suo studio, tornando alla sera dopo essere stato a uccellare, a rivoltarsi tra pidocchi e a ingaglioffarsi nella tenuta dell’Albergaccio,

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. (Lettera al Vettori, 1513)

Il punto è intendersi con gli altri, creare un terreno culturale comune. Nel mondo antico questa era la paideia: termine greco, il cui significato originario equivaleva a ‘educazione’ e che assunse poi il valore di ‘formazione umana’ per arrivare infine a indicare  la cultura  nel senso più elevato, non un  mezzo quanto piuttosto il fine stesso dell’educazione, l’ideale di perfezione morale, culturale e di civiltà cui l’uomo deve tendere. Secondo il modello ispiratore greco, che da Platone  al tardo ellenismo ha assunto varie sfumature, il raggiungimento della paideia è frutto di un processo continuo, mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, ma attraverso cui questi realizza pienamente sé stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé e in armonia col mondo. Affinità elettive allora, come condivisione di un’idea di formazione, come adesione a un ideale, che non accetta di essere sminuito, persino quando sia contraddetto dalla  prova dei fatti.
Il circolo degli Scipioni, il circolo di Mecenate, le corti rinascimentali sono certo stati anche luoghi di incontro di spiriti che riconoscevano fra loro affinità elettive. Così, dando mostra di intendersi dell’argomento, scrive Maria Bellonci nel suo romanzo Rinascimento privato, servendosi del personaggio (immaginario, nel contesto di una vicenda storicamente rievocata) di Robert de la Pole, funzionario del re d’Inghilterra che s’innamora di Isabella d’Este e le indirizza 12 lettere d’amore, tutte senza risposta.

"Alla Illustrissima Signora Isabella Marchesana di Mantova. L'animo mio trema mentre la penna si abbassa sul foglio col più reverente degli inchini. Sono passati 5 anni da quella mia prima lettera, confusa ma veritiera e mille volte riletta nella mente e benedetta. Benedetta perché la vostra immagine ha resistito in me senza impallidire. Quando il mio pensiero si raccoglie in voi ho pace e guerra insieme e mi ricordo di essere poeta col rammarico di non esserlo abbastanza. Non ho ragione di parlarvi di me, non mi muove nessuna vanagloria. Non vi figurate con quanto timore e gioia ho appreso che Sua Santità ha destinato a voi, per il vostro viaggio a Roma, i deliziosissimi giardini del fu cardinale Sforza. Immaginare voi in quei giardini mi incanta. Ma non per questo vi scrivo. Tutto, qui a Roma, è movimento e novità continua. La città è percorsa da schiere armate che si recano ogni giorno nei prati di Castello; dal colle Vaticano si scorgono gli squadroni delle milizie sotto le bandiere battute dal vento e dal sole. E certo vi sarà già venuto all'orecchio il ritrovamento prodigioso di questi giorni, quel gruppo di statue del Laocoonte descritto da Plinio il Vecchio: grandissima meraviglia e presagio festevole che già sollecita correnti poetiche in ogni luogo. E sì, posso dirlo, divina era la mattina del giorno 8 marzo quando ci trovammo in piccolo gruppo, salendo a passo misurato nel luogo detto delle Terme di Tito. Davanti a tutti avanzavano, Michelangiolo e Giuliano da Sangallo. E dietro venivamo noi. In un luogo quasi serrato da muretti alti e bassi, stavano due guardie armate, messe lì dopo il primo avviso del ritrovamento. In fondo alla buca vasta e irregolare, biancheggiava fuori dalla terra bruna, un braccio piegato verso l'alto, quasi chiamasse. Fu dato ordine di scavare, una palata seguiva l'altra. Non so rappresentare il progredire dell'ansiosa opera di scavo, il silenzio che accompagnava i tonfi delle robuste palate di terra, la pazienza tesa di tutti noi e le poche parole di Michelangiolo. Il lucido rivelarsi del marmo bianco era la prova in terra dell'artista eterno, e ognuno di noi assaporava l'incomparabile sentore dei nomi greci di quei maestri antichi. Signora mia, quella mattina sembrava la prima alba di resurrezione dell'arte. Il sole si fece verticale ed entrò nella buca quasi con reverenza, scivolando sul marmo. Illustrissima Signora, dilungo il mio scrivere e questo faccio per illudermi di starmene a ragionare con voi. Mi muove un fuoco di settentrione e una certa libertà che diventa invocazione: sono tanto assetato di vedervi. Ma non c'è nessuno a Roma che possieda un vostro ritratto? Lo chiedo a me stesso, s'intende, confidando che una vostra risposta arrivi per soffio di spirito fino a me. il vostro schiavo, Robert de la Pole In Roma, al trenta d'aprile 1506


Consuonano le idee, echeggiano nel tempo. Non è imitazione. Non è emulazione. Non cerco di raggiungere un obiettivo prestabilito e nemmeno di superarlo. Voglio però aggiungere qualcosa di mio.  
Come Cesare Pavese e i suoi amici, di cui vi ho parlato qualche giorno or sono. Sotto la cappa di un regime opprimente per lo spirito e per la letteratura, promossero una circolazione di idee profonda e generosa, come testimoniano le lezioni regalate, i suggerimenti appassionati di scrivere o tradurre, i consigli di lettura e poi uno studio provvisto di senso in se stesso, non finalizzato al raggiungimento di obiettivi stabiliti o prefissati. 

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