IL FILO ROSSO
e LE AFFINITÀ ELETTIVE
Basilarmente
è un termine derivante dal linguaggio
marinaresco (il filo rosso che si usava per districare le gòmene, funi per
attraccare le imbarcazioni). Tuttavia il suo significato più profondo lo ha
espresso Goethe, nel romanzo del 1809 intitolato Le affinità elettive. Poi fil rouge è stato ripreso da Freud per
definire l’inconscio.
Nel
romanzo di Goethe una coppia sposata, unita da un amore conquistato dopo il
superamento di alcuni ostacoli (entrambi, pur essendo giovani, sono rimasti
vedovi di matrimoni d’interesse), vive armonicamente sia dal punto di vista
sentimentale che intellettuale in una grande tenuta. A un certo punto il
marito, Eduardo, decide di invitare a stare da loro un carissimo amico, il
Capitano, che sta vivendo un momento difficile. I tre una sera ragionano sugli
elementi chimici in questi termini, pervenendo alla definizione basilare di
affinità elettiva, ovvero di fil rouge
da cui volevo partire.
“I casi
più complicati sono proprio i più interessanti. Solo studiando questi, si
conoscono i gradi di affinità, le relazioni più prossime e vigorose, e le più
lontane e deboli. Le affinità cominciano ad essere interessanti quando
producono separazioni.» «Ma questa parola triste, che purtroppo ormai si ode
così di frequente in società,» esclamò Carlotta, «vien fuori anche nelle
scienze naturali?» «Certamente!» rispose Eduardo. «Era addirittura un titolo
onorifico dei chimici, chiamarli separatori.» «Questo non si fa più, però, per
fortuna!» replicò Carlotta. «Riunire è arte più grande, merito maggiore. In
ogni disciplina un artista unificatore sarebbe dappertutto il benvenuto. Ma
fatemi conoscere qualche caso del genere, visto che volete continuare!»
«Allora,» disse il capitano, «torniamo a quello che già prima abbiamo
menzionato e discusso. Per esempio, ciò che chiamiamo calcare, è una terra
calcarea, più o meno pura, intimamente combinata con un acido leggero, che
conosciamo solo allo stato gassoso. Se immergiamo un pezzo di calcare in acido
solforico diluito, questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre
quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una
separazione e una nuova combinazione, e ci si sente davvero autorizzati ad
impiegare la parola affinità, perché sembra proprio che una relazione venga
anteposta ad un'altra, che si faccia una scelta.» «Voglia perdonarmi,» disse
Carlotta, «come io perdono al naturalista. Ma io qui non vedrei una scelta,
piuttosto una necessità naturale, e neppur questa: giacché forse, in sostanza,
non si tratta che dell'occasione. L'occasione genera le relazioni, così come fa
ladro l'uomo. E quando parliamo di questi corpi naturali, mi pare che la scelta
stia tutta nelle mani del chimico, che li combina. Ma una volta che sono
insieme, be', Dio li benedica! Nel caso in questione mi dispiace soltanto che
quel povero acido aeriforme debba tornare ad arrabattarsi per l'infinito.» «Non
dipende che da lui,» rispose il capitano, «di combinarsi con l'acqua, di
servire, come fonte minerale, al ristoro di ammalati e di sani.»
«Avreste voglia -
chiese Carlotta - di spiegarmi che cosa veramente si intende qui con affinità?»
«In tutti gli esseri
naturali a noi noti - incominciò il Capitano la prima cosa che osserviamo è che hanno un
rapporto con se stessi»
«Immaginati l’acqua,
l’olio, il mercurio: troverai un’unità, una connessione di parti, e quest’unità
tali sostanze non la perdono, se non per l’intervento di una forza, rimossa la
quale le parti tornano subito assieme».
«Ma ogni essere – lo
interruppe Carlotta - così come ha un rapporto con se stesso, deve avere anche
una relazione con gli altri»
«E tale relazione
sarà diversa a seconda della diversità degli esseri – continuò Edoardo con
prontezza – Si incontreranno subito, come amici, quelli che legano in fretta,
che si uniscono senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con
l’acqua. Altri invece, pur trovandosi vicini, continueranno a restare estranei
e non ci sarà verso di legarli, nemmeno mescolandoli o strofinandoli con mezzi
meccanici: si pensi all’olio e all’acqua che, appena si smette di sbatterli, si
separano di nuovo».
«Tutte quelle
sostanze – spiegò il Capitano – che incontrandosi immediatamente si
compenetrano e si influenzano a vicenda le chiamiamo “affini”».
«Devo confessare –
disse la bella Carlotta – che quando lei chiama “affini” le sue sostanze io me
le immagino legate non tanto da un’affinità di sangue quanto piuttosto da una
di spirito o di anima. Ed è in questo stesso modo che possono nascere tra le
persone delle amicizie importanti: sono infatti le qualità opposte che rendono
possibile un’unione più stretta».
Il primo rapporto, sostiene il Capitano, è
con se stessi. L’integrità della sostanza è assicurata dai suoi stessi confini
determinati, dall’interconnessione fra le parti. La complessità, la
diversificazione, si originano a partire dalle relazioni con gli altri. Gli
elementi che legano in fretta diventano amici, si uniscono senza modificarsi a
vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri, invece, pur nella
vicinanza, restano estranei, come l’acqua e l’olio. Allora affini sono le
sostanze che, incontrandosi, immediatamente si compenetrano. Ma il discorso
non si ferma qua, ragionando sul tema, si capisce che per esempio con le
affinità il sangue può non c’entrare nulla, mentre c’entrano sempre lo spirito
o l’anima. Le amicizie importanti sono queste: quelle che creano avvicinamenti
anche tra opposti, destinati a diventare, perfino per l’opposizione, strettissimi.
Filo rosso come legame, tra l’io e gli altri, per via di un’attrazione dello spirito. Nella
vita, se si impara ad ascoltare se stessi, difficilmente ci si inganna sulle
affinità elettive. Non hanno niente a che vedere con delle superficiali
attrazioni sensuali, almeno inizialmente. Poi certo, a seconda dei casi,
possono anche colorarsi in questa direzione, ma non è una condizione
ineludibile per il loro iniziale istituirsi e nemmeno per il loro mantenimento
e approfondimento. Le affinità elettive
sono infatti costitutive per amicizie durature, per amicizie meravigliose, come
quella che nella dimensione artistica ha trovato una sua espressione nel legame
fra Virgilio e Dante:
Virgilio dolcissimo
patre,
Virgilio a cui per mia
salute die’mi (Purgatorio, XXX, 50-51)
Un’amicizia-amore d’elezione è poi quella che lega Dante a Beatrice. Non si
può prescindere dalla lettura di Borges:
Beatrice è la donna perduta nella vita, mai avuta, mai compresa. Beatrice è la
trascendenza ottenuta come unico rimedio alla perdita. Eppure Dante, che non a
caso ha interiorizzato Sant’Agostino, quella sua peculiare volontà di ricondurre
tutto all’interiorità, cerca il suo
paradiso non ne vuole uno metafisicamente impostato: per Dante agens, il paradiso di cori angelici, di
potenze, troni e dominazioni non è appagante: in cielo tutto è paradiso,
scrive, ma poi è il sorriso di Beatrice l’unico in grado di circoscrivere la sua
felicità.
Così quel lume: ond'io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un
riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso (XV, 34-36)
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso (XV, 34-36)
Fili rossi, paradisi. Circolazioni felici di idee che riescono a varcare le
distanze temporali. Come accade a Machiavelli con tutti gli spiriti della cui parola si nutre
nel suo studio, tornando alla sera dopo essere stato a uccellare, a rivoltarsi
tra pidocchi e a ingaglioffarsi nella tenuta dell’Albergaccio,
Venuta
la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi
spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni
reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli
antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel
cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare
con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro
humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte:
tutto mi transferisco in loro. (Lettera al Vettori, 1513)
Il punto è intendersi con gli altri, creare un terreno
culturale comune. Nel mondo antico questa era la paideia: termine greco, il cui significato
originario equivaleva a ‘educazione’ e che assunse poi il valore di ‘formazione
umana’ per arrivare infine a indicare la cultura nel senso più elevato, non un mezzo quanto piuttosto il fine stesso
dell’educazione, l’ideale di perfezione morale, culturale e di civiltà cui
l’uomo deve tendere. Secondo il modello ispiratore greco, che da Platone al tardo ellenismo ha assunto varie
sfumature, il raggiungimento della paideia è frutto di un processo continuo,
mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, ma attraverso cui questi realizza
pienamente sé stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé e in armonia col
mondo. Affinità elettive allora, come condivisione di un’idea di formazione,
come adesione a un ideale, che non accetta di essere sminuito, persino quando
sia contraddetto dalla prova dei fatti.
Il
circolo degli Scipioni, il circolo di Mecenate, le corti rinascimentali sono
certo stati anche luoghi di incontro di spiriti che riconoscevano fra loro
affinità elettive. Così, dando mostra di intendersi dell’argomento, scrive
Maria Bellonci nel suo romanzo Rinascimento
privato, servendosi del personaggio (immaginario, nel contesto di una
vicenda storicamente rievocata) di Robert de la Pole, funzionario del re
d’Inghilterra che s’innamora di Isabella d’Este e le indirizza 12 lettere
d’amore, tutte senza risposta.
"Alla
Illustrissima Signora Isabella Marchesana di Mantova. L'animo mio trema mentre
la penna si abbassa sul foglio col più reverente degli inchini. Sono passati 5
anni da quella mia prima lettera, confusa ma veritiera e mille volte riletta
nella mente e benedetta. Benedetta perché la vostra immagine ha resistito in me
senza impallidire. Quando il mio pensiero si raccoglie in voi ho pace e guerra
insieme e mi ricordo di essere poeta col rammarico di non esserlo abbastanza.
Non ho ragione di parlarvi di me, non mi muove nessuna vanagloria. Non vi
figurate con quanto timore e gioia ho appreso che Sua Santità ha destinato a
voi, per il vostro viaggio a Roma, i deliziosissimi giardini del fu cardinale
Sforza. Immaginare voi in quei giardini mi incanta. Ma non per questo vi scrivo.
Tutto, qui a Roma, è movimento e novità continua. La città è percorsa da
schiere armate che si recano ogni giorno nei prati di Castello; dal colle
Vaticano si scorgono gli squadroni delle milizie sotto le bandiere battute dal
vento e dal sole. E certo vi sarà già venuto all'orecchio il ritrovamento
prodigioso di questi giorni, quel gruppo di statue del Laocoonte descritto da
Plinio il Vecchio: grandissima meraviglia e presagio festevole che già
sollecita correnti poetiche in ogni luogo. E sì, posso dirlo, divina era la
mattina del giorno 8 marzo quando ci trovammo in piccolo gruppo, salendo a
passo misurato nel luogo detto delle Terme di Tito. Davanti a tutti avanzavano,
Michelangiolo e Giuliano da Sangallo. E dietro venivamo noi. In un luogo quasi
serrato da muretti alti e bassi, stavano due guardie armate, messe lì dopo il
primo avviso del ritrovamento. In fondo alla buca vasta e irregolare,
biancheggiava fuori dalla terra bruna, un braccio piegato verso l'alto, quasi
chiamasse. Fu dato ordine di scavare, una palata seguiva l'altra. Non so
rappresentare il progredire dell'ansiosa opera di scavo, il silenzio che
accompagnava i tonfi delle robuste palate di terra, la pazienza tesa di tutti
noi e le poche parole di Michelangiolo. Il lucido rivelarsi del marmo bianco
era la prova in terra dell'artista eterno, e ognuno di noi assaporava
l'incomparabile sentore dei nomi greci di quei maestri antichi. Signora mia,
quella mattina sembrava la prima alba di resurrezione dell'arte. Il sole si
fece verticale ed entrò nella buca quasi con reverenza, scivolando sul marmo.
Illustrissima Signora, dilungo il mio scrivere e questo faccio per illudermi di
starmene a ragionare con voi. Mi muove un fuoco di settentrione e una certa
libertà che diventa invocazione: sono tanto assetato di vedervi. Ma non c'è
nessuno a Roma che possieda un vostro ritratto? Lo chiedo a me stesso,
s'intende, confidando che una vostra risposta arrivi per soffio di spirito fino
a me. il vostro schiavo, Robert de la Pole In Roma, al trenta d'aprile 1506
Consuonano
le idee, echeggiano nel tempo. Non è imitazione. Non è emulazione. Non cerco di
raggiungere un obiettivo prestabilito e nemmeno di superarlo. Voglio però aggiungere
qualcosa di mio.
Come Cesare Pavese e i suoi amici, di cui vi ho parlato qualche giorno or sono. Sotto la cappa di un regime opprimente per lo spirito e per la letteratura, promossero una circolazione di idee profonda e generosa, come testimoniano le lezioni regalate, i suggerimenti appassionati di scrivere o tradurre, i consigli di lettura e poi uno studio provvisto di senso in se stesso, non finalizzato al raggiungimento di obiettivi stabiliti o prefissati.
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