FAITS DIVERS
La
realtà supera l’immaginazione. O meglio, le due sono da sempre coinvolte in una
competizione dalla quale alcuni di noi sono particolarmente attratti. Come è
maturata nella mente di Sofocle l’idea di far fuggire un uomo dal suo destino
incombente, trovandosi invece a eseguire punto per punto i suoi dettati
inesorabili, commettendo efferatezze, trasgressioni, atti contro gli uomini e
contro gli dei? Oltre ai miti già in parte cristallizzati nella memoria
collettiva (e anch’essi sicuramente già interpretati in vicende vissute e
grondanti di sangue) quale altro alimento trovò nella realtà del suo tempo,
nell’Atene dall’impalcatura impeccabile, culla d’una civiltà adulta e sapiente,
capace di ferocia e d’indulgenza?
Magari una storia simile a quella di Edipo
accadde al grande tragico di conoscere nella sua giovinezza, sussurrata dagli
adulti e ascoltata, senza capirla del tutto, dalle orecchie ancora vergini di
grandi misfatti e grandi travagli dell’anima.
Cosa
sapeva il fanciullo delle tentazioni della conoscenza, della seduzione del
potere su tutti, del timore ancestrale per quanto pare sia scritto e non possa essere letto da noi, ma con certezza interpretato fino in fondo,
come una parte d’attore imparata a memoria senza che ce ne possiamo accorgere. Cosa
poteva sapere il fanciullo dell’inferno oscuro dell’anima di chi,
esteriormente, cerca di presentarsi controllato e sicuro di sé, magari perché
esercita una funzione, detiene un incarico che pone nelle sue mani il destino
di tanti altri.
Ma
se quel fanciullo a sua volta ha un destino d’autore, se quel fanciullo è già
(sta scritto in quel luogo segreto dove le parche tessono la loro tela) il
grande tragico del V secolo avanti Cristo, e nulla potrà ostacolare questo
esito fatale, allora certo la storia udita per sbaglio nella casa avita
inizierà a germogliare, a ramificarsi, a crescere, fino a diventare quel testo
scritto che a distanza di millenni ci sgomenta e irretisce.
Faits
divers
li chiamavano i francesi nell’Ottocento, i romanzieri che cercavano
l’ispirazione nella vita per riprodurla così com’era. In italiano suona come
“fatti vari”, ovvero attualità, casi di cronaca, quanto sui giornali viene
ricostruito con oggettiva caparbietà da giornalisti che non amino
sovraccaricare il testo scritto con proprie interpretazioni e indebiti giudizi.
Stiamo dunque cercando di afferrare un concetto sottile, l’oggettività
assoluta, quella che si palesa in effetti come una possibilità mai in grado di
realizzarsi veramente, soprattutto non grazie alle parole.
Come
squadrare, una volta per tutte e in maniera appunto oggettiva, un evento
scaturito da un marasma di moti dell’anima, a sua volta plasmata da un insieme
di vicende (sguardi, battiti di ciglia, movimenti della mano, e poi parole
dette e non dette, atti compiuti e immaginati).
Come
poter sostenere di sapere qualcosa del mondo se non avendo precisa cognizione
del fatto che soggettivo e oggettivo sono definizioni imprecise, perché
pretendono di istituire un confine che non esiste, per nessun essere umano, a
partire dai primi istanti di vita e fino alla morte.
LETTO
DI MORTE
Tuo
o mio, non so.
Già
non capisco di cosa si stia parlando.
Sono io tua figlia e tu sei mia madre o è il contrario?
Non
ti riconosco più e sento che tu non mi stai riconoscendo.
Brancoli
tra nomi di altri, fissi lo sguardo su di me e quasi mi commuovo a percepire
una benevolenza (“sì, mamma, sì, sono io, la tua figlia minore, quella...) che
in un istante si muta in austerità, in lontananza, in rimprovero.
Cosa devo capire? Cosa mi stai domandando?
Ti
chiedo da mesi di morire (di chi è questa voce?) e tu sembri essere diventata
sorda.
Io?
No mamma, non sono io...
Mi
parli con voce squillante, mi poni sempre le stesse domande:
“come stai oggi?”.
Ma come vuoi che stia, figlia mia d’un tempo, che
domande ti vengono in mente, non vedi, non mi guardi, sul serio?
Le
mie braccia le mie gambe, il mio petto e la mia limgua. Non mi posso più
nascondere, ho bisogno di aiuto e non sopporto di essere aiutata.
E
intanto: cosa provo per questo mucchio di pelle e di ossa, cosa penso davvero
di me di te .
Vuoi
sapere che gusti mi sento in bocca, che cosa ne è dei liquidi organici che non
riesco più a controllare in alcun modo?
Vuoi che risponda davvero alla tua domanda, che non cerchi una volta di più di
risparmiarti dei dolori infliggendotene (a fin di bene) dei peggiori?
Prendi
quel cuscino che ho dietro alla schiena, e fagli svolgere l’unica funzione sana
e santa che posso riconoscergli in questo momento.
Tienlo
premuto sulla mia faccia per qualche minuto, lascia che la vita pretenda di
lottare quando invece dovrebbe quietamente arrendersi. E non avere sensi di colpa.
Figlia mia, lo sai che non sto scherzando, non
sorrido quasi più da nove anni, un numero che la memoria mi consente di
ricordare.
Cosa
è accaduto nove anni fa già non lo so, ma
non importa. Tante lacrime sono scese dai miei occhi nel frattempo.
Aiutami,
sono riuscita a sillabare pochi minuti fa, e ti ho guardata, ma ti ho vista
piangere, e non ho colto il guizzo della comprensione vera, quella che porterebbe
ad agire.
Non
c’è niente da fare anche con te. Allora potete continuare a credere che stia
guardando la madonna.
Non è vero, sto capendo tutto.
Lo so anche per quanto di te sta in me o
viceversa. No mamma, non ti preoccupare, non ti accarezzerò il viso, so che non
lo vuoi. Nemmeno continuerò a tenerti la mano, che blandamente si sottrae alla
mia.
C’è
una voce che sussurra (è la tua) di fare cose indicibili. No, non posso obbedire,
ma la ricorderò sempre.
Questo è il momento della perdita e del ritorno,
del riconoscimento di un’assenza e dell’inizio della fine di un’identificazione.
Sto per diventare la nuova madre, madre di me
stessa e libera di me. L’ultimo respiro che attendo con paura e desiderio
questo significa. Lo sguardo fisso su quella madonna che si specchia sopra il
letto questo può ribadire.
Ma
non vedo più niente, figlia mia.
Non
potrò che continuare a guardare.
I miei occhi saranno un
po’ anche i tuoi e il tuo letto di morte anche il mio.
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