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TRADUZIONI DI LATINO: FEDRO, POSTILLA SULLA CONTRASTIVA, TACITO, SENECA, AGOSTINO (in fieri)

FEDRO Lupus et Agnus Ad rivum 1  eundem 2  lupus et agnus venerant 3 , siti compulsi 4 . Superior 5  stabat 6  lupus, longeque 7  infe...

lunedì 7 maggio 2018

MAESTRI SENZA LUCE




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MAESTRI SENZA LUCE



Farinella Notte







PVM E ANTICHI COGLIONI







Unde sapientia venit et quis est locus intelligentiae?
Spiritus ubi vult spirat, sed nescis unde veniat aut quo vadat.
Non voglio usare queste frasi come motto, metterle in esergo. Non mi piacciono le presentazioni ufficiali e  non mi piacciono le dediche. Odio ogni forma di pubblicità dell’anima (anche del corpo, è la stessa cosa, in culo a Platone e al cristianesimo).
 Vorrei scomparire, ma non prima di aver fatto qualcosa.
Sì, si fa continuamente qualcosa, anche solo alzandosi al mattino con l’alito cattivo, la voglia compressa di defecare, il mal di testa, il mal di gola, l’assenza di, l’astinenza da, voglia di masturbarsi e non avere un briciolo di forza nella mano. L’hai tenuta in posizione sbagliata e si è atrofizzata...sogno di impotenza.
No, non le metto in esergo, ma ve le sparo in bocca, perché possiate pomparvele ben bene, come musica oltre il sopportabile. Vedrete che bel profitto. Perché sia tanto, ve le traduco anche.
Da dove viene la sapienza e dove sta l’intelligenza?
Lo spirito spira dove vuole e non si sa da dove venga e dove vada.
Per ora vi deve bastare.

Oggi sono solo. No, adesso sono solo. Perché qualche momento fa non lo ero per niente. Mi stavo rotolando nel letto con una mia amica (poteva anche essere un mio amico, sono un convinto bisessuale), con cui ho fatto sesso estremo per due ore, dopo esserci pippati una striscia di coca condita con gin. Un abbinamento che consiglio: la coca ha un effetto afrodisiaco (su alcuni, su noi due di certo) e unita al gin permette di fare qualunque cosa. Anche se un’educazione cattolica originaria ti ha inibito (capita a pochi, naturalmente), anche se per sbaglio hai visto chiavare i tuoi genitori quando avevi quattro anni e hai creduto che tuo padre la volesse ammazzare, la mamma tua bella (quella che Ser Ciapparello bestemmiò), così che il sesso ti è andato in malora, anche se sei uno completamente bloccato persino con le seghe e i ditalini, anche in quel caso lì, sta’ certo che ti farai una fottutina coi fiocchi.
Però adesso sono solo, post coitum animal triste,  e tanto per cambiare mi è presa la voglia di parlare in latino, citando frasi nemmeno troppo a cazzo che ho imparato a scuola, o quel che è. Gli effetti della coca su di me sono sempre straordinari, inimmaginabili per un sacco di gente anche amica mia.
  Questa chiavata me la sono proprio goduta, come fosse l’ultima della mia vita, e adesso voglio dare corso all’impresa per la quale mi sono preparato in queste ultime settimane.
L’ho definito Progetto di Valorizzazione della Merda.
 PVM.
La scuola mi ha insegnato, oltre al latino (ah ah), l’importanza dei progetti e delle sigle. Così ve ne voglio ammannire un bel po’. E inoltre voglio stupirvi con la mia padronanza della lingua italiana, ma anche un po’ della francese e dell’inglese.
 Certo non per recare un omaggio all’istituzione di cui sopra, dio me ne scampi e liberi, bensì per oltraggiarla. Sì, vi tratto proprio come quelli ai quali occorre spiegare tutto, anche il tono con cui si sta parlando, le funzioni comunicative e quant’altro. Chissà che non arrivi a farvi il gesto delle virgolette come nei Simpsons (un gesto da e per fessi, anche questo andava spiegato).
Adesso però cerco di essere ordinato, espongo prima il mio progetto per punti, poi procedo all’esecuzione. Che la coca m’aiuti.
Pensano gli ignari, gli ingenui, i distratti e anche un po’ i coglioni (che c’entrano sempre), che d’estate in un edificio scolastico non possa  accadere granché. Sono giorni in cui  la segreteria è aperta solo dalle otto  alle dodici e trenta, così come l’ufficio di presidenza. Giorni in cui l’inferriata che protegge, isola, allontana dal reale, ingabbia l’edificio adibito a educare le giovani generazioni (virgolette con la mano) viene serrata intorno alle tredici e, all’interno, tutto tace fino al mattino seguente.
Tutto tace. Così almeno si sarebbe portati a pensare. Così si vorrebbe credere.  Perché viceversa, a chi accadesse, per qualche bizzarra ventura, o per volontà altrettanto bizzarra,  di rimanere rinchiuso nella scuola proprio nell’arco di tempo che si estende dalle tredici alle otto del mattino seguente, sono convinto  si rivelerebbe una verità difficilmente sopportabile dalla maggioranza delle persone.
 Nei locali, apparentemente  vuoti, accadono cose.
Il vuoto non è vuoto, l’assenza non è assenza, il silenzio non è silenzio.  
D’estate, a finestre chiuse, l’aria diventa rovente e irrespirabile.
D’estate. Quando a popolare le aule, e tutti gli ambienti della Scuola,  rimangono i pensieri discordanti, scordati, smodati, irriflessi e irriflessivi; rimangono pure i sentimenti,  che stagnano  e non riescono a manifestarsi, ma marciscono  e iniziano a puzzare.
 Mi sono convinto  che, se riuscirò a restare dentro alla scuola di notte, avrò la rivelazione definitiva di quanto durante l’anno, gli anni, trascorsi a putrefarmi lì dentro, ho solamente potuto intuire.
Per cominciare, potrò vedere e essere visto (virgolette con la mano). Non è così scontato, come potete pensare voi, che si veda e si venga visti. Così come non è scontato ascoltare e essere ascoltati. Passiamo il tempo insieme e non ci vediamo, non ci ascoltiamo davvero. Un tormentone, se volete, uno di quei discorsi che possono fare le ragazzine sculettanti sul tram.
“Ma tu mi ascolti, mi ascolti davvero?” “Cazzo, Samantah, certo che ti ascolto, sennò come farei a risponderti”.
A parte la facile ironia sulle ragazzine sculettanti (ma anche i maschi sculettano e dicono stronzate), il cui dizionario è così ridotto che riescono a parlare solo di funzioni basilari e a usare i cellulari con il loro corredo di abbreviazioni e faccine, conosco un sacco di gente che preferisce non porsi nemmeno il problema. Gente adulta e laureata (virgolette) che si sfiora appena, che non si penetra mai (non è un’allusione sessuale), che rifugge la profondità, non sa neanche cosa sia. Quello che ci resta sono occhi vuoti, orbite vuote, zombie che si aggirano di notte o di giorno (non sono ipersensibili alla luce, purtroppo, così ce li si trova tra le palle continuamente).
Sì, è facile da capire, sono un alienato, un alieno, uno straniero, non mi sento a mio agio da nessuna parte, sento di non appartenere a nessuna parte. Non di essere super partes - Dante mio caro, come hai fatto, con tutto quel sangue che ti scorreva intorno, con tutto quel senso di abbandono che hai provato, ad arrampicarti così in alto -, ma in mezzo a tutti eppure irreparabilmente lontano, quello che guarda sempre da, sempre  attraverso, Tonio Kröger fuori dalla finestra, mentre all’interno tutti festeggiano e danzano.
Mi sono convinto che, se riuscirò a stare dentro alla scuola di notte vedrò e ascolterò.
Vedrò  orrendi revenants,  larve ostili agli esseri umani, capaci di succhiare loro gli occhi e con essi ogni memoria. E poi, soprattutto, ascolterò, senza filtri protettivi, quello che nessun essere umano provvisto di ragione e sentimento è preparato a  sopportare. E chissà che,  anche voi che leggete, non lo facciate a vostro rischio e pericolo (questa è solo un’esibizione di stile horror e trash, modello insuperato:  Lovecraft).
Ma avevo detto che l’inizio deve essere ordinato.
Oggi è il 12 agosto 2015 e io ho deciso di compiere una profanazione a danno  della scuola che ho frequentato per cinque anni con pessimi risultati. Non parlo dei voti, ovviamente, dei quali non m’importa niente, ma della mia crescita personale. Che espressione ridicola, lo so, associata a un luogo del genere. Pomposa e vacua, come solo le espressioni pompose sanno essere. La verità è che per cinque anni ho perso tempo. Sono stato in attesa di vivere la vita vera. Chiuso a chiave in un’anticamera ammuffita e piena di ragnatele.
Liceo, osano definirlo,  altisonanti cazzoni. Liceo classico. Ma guarda, niente meno.
Una classica vaccata, tenuta insieme da un mucchio, non selvaggio ma fin troppo addomesticato,  di Antichi Coglioni (la maiuscola ve la concedo con piacere). Stupratori di intelletti malgré tout amanti del sapere, irregimentatori di spiriti creativi, dediti all’apprezzamento dei soggetti disposti alla posizione prona.
Confezionatori di cervelli proni, che siano ben predisposti all’inculata finale. E senza vaselina: il posto di lavoro.
 Non sono un amante del Giovane Holden, ma certo non disdegno alcune  pregnanti definizioni trovate da Salinger per il  mondo adulto responsabile del mio sprofondamento nella noia assoluta. E nell’odio, in sovrappiù.
Sì, non salvo nessuno. Anzi, i peggiori mi sono parsi, abbastanza originariamente, quelli che sembrano darsi maggiormente da fare per salvarmi.
I benintenzionati.
Da che cazzo mi volete salvare? Chiede il mio spirito (che spira dove vuole) primitivo, ancora sano (si fa per dire). Da me? Da voi? Dall’Europa unita? Dalla politica e dall’economia? Dalla religione e dal consumismo? Dal politicamente corretto? Dall’idea di un embrassons-nous (ora basta con le virgolette mimate, mi sono stufato) finale e ipocrita, come i funerali di stato e di famiglia, gran conclusione di rapporti-non rapporti, di assenza di verità in ogni minima comunicazione?
Mi volete salvare dalla multimedialità, dall'anarchia, dal disamore, dall'indisciplina, dalle droghe? Dai soldi, dalla vita, dal sesso facile e senza protezione?
 Guarda che elenco bislacco, senza coerenza interna, manca la coesione, l'inizio e la fine sono fra loro contraddittori. Così si esprimono gli Antichi Coglioni quando ti correggono un tema.
Ma non voglio perdere il filo, ora che sono appena all’inizio. Devo parlare della mia formazione. Ah ah, cos'ho appena scritto, la mia deformazione, casomai.
Torno ai benintenzionati, intenti a istruirmi perché anche io possa essere me stesso. Devo dire loro: avete capito che se c’è una cosa che vorrei, quanto a me stesso, è riconoscere la natura di stronzo, piombare  nel cesso e trovare un'anima buona che tiri l’acqua? Volete davvero  occuparvi di me?
Dimenticatemi, non ho bisogno di niente.
   Sì, ma ora ho anche deciso che non dovete, non potete, non è giusto che la passiate liscia. Devo fare qualcosa di concreto, che produca effetti collaterali penosi per tutti voi.
Allora, ecco il mio progetto: il qualcosa di concreto mi è sembrato a un certo punto lì, a portata di mano. Subito dopo l’ignobile farsa dell’Esame di Stato (dove vi ho visti svelati tutti, benevoli e malevoli), ho deciso di farmi rinchiudere  nella scuola di notte e ricoprirla di scritte.
Vi aspettavate “di merda”, eh, voi che ci ritenete solo in grado di produrre pensieri rozzi e, ammetterò, un po’ di vero c’è, ma non potete permettervi di sentenziarlo proprio voi: sappiamo verbalizzare egregiamente, alcuni di noi anche meglio di parecchi di voi.
 Voglio scrivere sui muri la mia rabbia, la mia angoscia, la mia riprovazione, il mio turbinoso scontento.  Ho intenzione di iniziare  con  uno di quei temi scassacazzo – il turpiloquio è prevedibile, ma si può farne un uso pirotecnico, Aristofane e Plauto docent -  tipologia B dell’esame di stato”, quelli nei quali devi scervellarti a discettare su questioni internazionali degne delle menti migliori della mia generazione.  Leggete Allen Ginsberg, Antichi Coglioni, che chissà di chi parla:  certo di nessuno di noi, ma    neanche di nessuno di voi,  falliti  esistenziali, proiettati lontano dall’intelligenza, lontano dal cuore,  lontano dalla comprensione vera, mentre voci fuori scena pronunciano amenità come queste.
  Un po’ di teatro. A dirle, immaginate una voce fessa e chioccia, a tratti declinante nella melensaggine:

“ci sono la globalizzazione, il mondo senza  frontiere, l’Europa unita, la duttilità, la disponibilità al cambiamento, l’apertura all’innovazione.  Scrivete sulle LIM POF, PTOF, PON, POMPON.”

Sapete da dove mi proviene tutta questa sapienza (unde, unde venit)? Dalle circolari. Che straordinarie rivelazioni  le circolari e che esilarante e triste trovata al tempo stesso: continuamente ne arrivavano in classe, accompagnate dal bussare timido, nervoso o incurante dei bidelli (scusate, personale ATA) sovraccariche di sigle suggestive, da far invidia a Carroll e ai nomi dei suoi personaggi: Snark, Boojoom, Tweetheldoo e Tweetheldee.
E così,  tra una circolare,  un voto, un’annoiata lezione e, qua e là, qualche raro soprassalto di intelligenza vera, la trappola per deficienti, per inculati e soddisfatti,  precisa i suoi scopi. Non ci voglio cascare, nella vostra trappola, ed è per questo che ho coltivato il mio desiderio, il desiderio segreto che è alla base della mia iniziativa estiva.
PVM. Lasciare un segno, finalmente vero, nella scuola. Per cominciare, appunto, scrivere un tema, dopo essermi assegnato l’argomento: un argomento che sia adatto a contenere tutta la rivolta che tengo a fatica circoscritta nell’interiorità, con sforzi che mi fanno ogni tanto scoppiare la testa, mi nauseano, oppure mi portano ai confini di una condizione di pena dello spirito che, poi, devo superare (o nella quale voglio naufragare) facendomi canne a ripetizione, sniffando cocaina, bevendo litri di birra o di vino.
E intanto gli Antichi Coglioni organizzano sapienti corsi sulle dipendenze. L’unica che si dimenticano di trattare è la dipendenza dal cretino¸ che loro stessi incarnano, quasi senza eccezioni. Nello spazio del quasi, mi permetto di inserire un canuto professore, leggermente etilista, che insegnava storia dell’arte ed era considerato da tutti una nullità (intendi: refrattario all’appiattimento del pensiero). Da lui, che ho avuto solo per un anno, perché poi è andato in pensione, ho imparato un paio di verità che forse scriverò sul muro della presidenza, al culmine della mia operazione di autentico dileggio dell’esistente, profanazione e espressione d’amore assoluto.
Però ora mi sento solo, tediato, arrabbiato.
STA. La seconda sigla.
Ecco,  è meglio se inizio  così la mia operazione profanatoria, scrivendo a lettere cubitali STA nell’atrio della scuola. Rosso carminio, con qualche colatura qua e là, a simulare il sangue che deve  pur uscire da qualche parte, a rappresentare il sacrificio rituale di cui voglio essere sacerdote, novello Mizoguchi alla ricerca della Bellezza, anzi, Restauratore della Bellezza, proprio nel luogo dov’essa è offesa quotidianamente, annegata nel torpore della ripetizione meccanica o di una inconsistente innovazione. Mi viene in mente come ho appena utilizzato più volte incautamente il termine profanare. Bisognerebbe che da qualche parte ci fosse qualcosa di sacro. Ma forse, mettendomi d’impegno, lo troverò. A ognuno  il padiglione d’oro che si merita.
Oggi, comunque, è il grande giorno. All’alba i miei genitori sono partiti insieme a mia sorella per l’isola d’Elba, dove si trova una delle nostre case ereditate. Che bella cosa, dicono sempre loro, questo fatto di aver mantenuto intatti i beni di famiglia. Cari nonni, cari risparmiatori, che hanno coltivato i loro orticelli con in mente l’unico obiettivo di lasciare in eredità a noi le loro proprietà. Ecco, ora viene fuori l'altra mia ossessione, sulla quale ho intrattenuto il sapiente psicologo della scuola che mi hanno appioppato a un certo punto i benintenzionati, per aiutarmi come sanno fare loro. La famiglia.
Sportello psicologico (lo chiamano così, gli Antichi Coglioni). Iniziamo dalla tua famiglia,  dice lo psicologo, un ragazzo pressapoco della mia età con l'aria spiritata di uno che per svegliarsi al mattino si deve fare una canna (l'han scelto bene, gli Antichi, non avrei saputo fare di meglio).
Inizio.  Ho un padre, una madre e una sorella. Mio padre ci fotografa e ci filma. No, non fa il fotografo, è un avvocato rampante. Guadagna un sacco di soldi ed è un soggetto autistico. Almeno a livello familiare e nell'uso politicamente scorretto che faccio io del termine autistico, come variante di stronzo asociale (la giornata mondiale dell'autismo me la succhio). Dunque, mio padre, avvocato autistico e fotografo compulsivo, nutre ormai una profonda indifferenza per mia madre. Eppure scopa ancora con lei, che è anche una bella donna, ma la tradisce continuamente. L'ho visto farsi fare un pompino dalla donna di servizio, la serva per la precisione, così la chiamiamo tutti, ma non per dileggio, con ironia (siamo illuminati radical chic, noi). Mia madre è depressa, si sciroppa mix di xanax, davedax, edronax (che nome magnifico, fa pensare a un drone che ti plana sui neuroni e li trapana uno a uno) e quant'altro, che si fa prescrivere dal suo attuale amante, un medico rapper di dieci anni più giovane.
Questa del medico rapper non se la beve, per fortuna, così posso smettere di dire stronzate, mentre fino al pompino della serva non aveva battuto ciglio. Comunque è abbastanza chiaro che non sono collaborativo, non ho la minima intenzione di parlare a un chicchessia delle mie turbolenze familiari.
Il fatto è che io non sono uno che sappia incassare e non sono uno che si adatta. Il problema del mio  non essere (cazzo, Parmenide, cosa volevi dire di più e di meglio dell’ovvio? l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere) è tutto qui: come faccio a tornare indietro? Ad avere le spiegazioni che mi servivano allora non adesso, allora,  quando il mio sguardo bambino affondava in  abissi di non detto, e io di notte sognavo massi enormi che erano pulviscolo atmosferico, sognavo che si creassero nell’universo delle scritte in inchiostro indelebile che parlavano di me e di quello che non capivo.
Mi viene in mente una canzone che mia madre ascolta spesso.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato. 
Quante ore, quante ore che ho passato,
 
accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
 
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
 
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
 
mentre nessuno vedeva, mentre nessuno mi guardava.

 Non so chi la canti, un cantautore della sua giovinezza immagino, e nemmeno so perché lei la ascolti ossessivamente e pianga sempre un po', senza curarsi che io la veda. So che però capisco bene cosa voglia dire. Non riesco a provare amore per i miei genitori, sono totalmente frenato nel provare amore per loro. Li percepisco freddi, indifferenti. Da far rimpiangere i termosifoni.
Mio padre mi parla come se fossi un suo coetaneo, mi confida come partirebbe volentieri con un’altra donna perché in mia madre non trova più un’interlocutrice all’altezza delle sue aspettative (leggi: all’altezza del suo cazzo). Dice che lei è troppo silenziosa e troppo austera, non ha amiche e si è ritratta in un suo mondo dal quale non vuole uscire. Tutta dedita ai figli, trasformata in una perfetta donna di casa. Non è quella ragazza di cui mi sono innamorato, dice mio padre, e i suoi occhi mi guardano come se fossi io il responsabile. Sei invecchiato con lei¸dovrei dirgli, siete tutti e due diversi da com’eravate. Dovreste prendere a modello Filemone e Bauci (anche mio padre ha frequentato il liceo classico, posso prenderlo per il culo così).
 Io non ho un’idea, se non letteraria, dell’amore assoluto, ma credo che qualcuno sappia al mondo cosa sia. Alle volte mi commuovo quasi (senza aver bevuto) a vedere certe coppie di vecchi che si tengono per mano. Lo sguardo è vitreo, è vero, però si tengono per mano e evidentemente si... Non so cosa sia scritto nei puntini, ma certo qualcosa che non esiste per mio padre e per mia madre. Comunque sono sicuro che non abbia senso comunicare queste cose a mio padre, perché non è quello che vuol sentire lui, che  si allontana da lei, da noi, ogni giorno di più, e lascia affondare la vecchia ragazza  nel suo silenzio lancinante. Famiglia. Una madre che fissa nel vuoto e guarda altrove, anche se la tavola è sempre ben apparecchiata e i cibi ottimamente cucinati. Una madre che può stare a tavola con me che mi metto a parlare apposta di uno spacciatore amico mio, poi descrivo un inseguimento per le strade della città con me che lancio una piccola partita di coca dentro a un bidone, mentre pantere della polizia sgommano,  e quando ho esaurito tutte le carte lei commenta: una bella mattinata interessante, io a scuola mi annoiavo sempre.
Comunque, qualche via di scampo si trova. Per me è stata mia nonna. Una  capace di ascoltare, e anche, soprattutto, di stare zitta. Virtù in via di sparizione.  La maggior parte delle persone non conosce il valore del silenzio. Lo crede vuoto, nulla. In compenso non si accorge di quanta vacuità possano produrre le parole bistrattate e usate male. Mia nonna no. Mi vedo ancora, bambino, fanciullo, e fino all’anno scorso, poco prima che morisse, seduto  di fronte a lei nella sua stanza di lavoro, studio, d’amore, dove teneva libri, dischi, quadri, alcuni dipinti da lei in giovinezza, lavori di cucito, una  olivetti lettera 22 e poi quaderni, piccoli quaderni di svariati colori sui quali annotava la sua vita;  fotografie, album  che amava sfogliare in silenzio con me.
Anche da  mia nonna potrei prendere ispirazione, imbrattando il liceo. Potrei scrivere il suo motto preferito:
“nessuno può dare ordini al tuo desiderio”.

Sì, queste son divagazioni. E poi quello della nonna è un tormentone infame, dalla Satrapi a Cappuccetto Rosso. Ma sono divagazioni, a loro modo, pertinenti. Si tratta di capire cosa stia succedendo a una generazione per colpa (responsabilità o che altro) di un’altra generazione. O altre generazioni, a seconda del valore assegnato alla memoria storica. Allora, tanto per capirci bene: noi siamo gli ultimi nati, quelli dell’ultimo lustro del Novecento. Abbiamo l’età che avevano i nostri padri quando hanno vissuto, non importa posizionati come, il Sessantotto. E da lì, mi viene da dire, hanno iniziato a romperci i coglioni. Il padre di un mio amico rappresenta, sotto questo profilo, la tipica incarnazione di quello che voglio dire con una rottura di coglioni pianificata e perseguita con straordinaria pertinacia.
 “Ragazzi miei, mi sembrate completamente addormentati. Perché non vi ribellate, non fate uno sciopero, non vi mettete a spaccare tutto? Vi rendete conto che vi stanno predisponendo all’accettazione di qualsiasi cosa, stanno smantellando i diritti acquisiti, vi stanno preparando alla schiavitù?”
La bontà dell’affermazione, dal mio punto di vista indiscutibile, è però messa completamente in crisi da una circostanza: il suddetto padre è perfettamente inserito nel sistema-pensiero che produce il nostro addormentamento, anzi, la necrosi del nostro spirito. Sostiene a spada tratta la meritocrazia, caldeggia le privatizzazioni, insomma è un tipico esponente di quella che sta diventando la sinistra (ci vorrebbe l’emotycon di uno che vomita)  al potere. E poi a noi chiedono come mai non ci occupiamo di politica. Magari è per evitare di diventare come loro. Cazzate, le une e le altre. Torno al filo conduttore.
 12 agosto 2015, ore dodici: entro a scuola e mi fermo a parlare con la bidella di cui sono amico. Inizio a stordirla con una serie di racconti, approfitto del fatto che le sono molto simpatico e le ho offerto un paio di caffè ascoltando i suoi lamenti di cinquantenne in crisi con un marito noioso e, forse, violento. Mi ascolta e mi guarda con occhi carezzevoli: sono il figlio che non ha mai avuto e del quale men che meno sarebbe stata capace di occuparsi. La sorte mi aiuta e fa in modo che lei  debba rispondere al telefono. La  saluto giovialmente con un cenno, ma invece di dirigermi alla porta e uscire, scantono veloce verso i locali della segreteria e mi nascondo nel bagno con la scritta “Riservato”. Confido nel fatto che, appiattendomi dietro alla porta, lei (l’ultima rimasta nell’edificio) si limiti ad aprirla per verificare non ci sia nessuno, la richiuda e se ne vada sprangando tutto. Le mie speranze si rivelano fondate: tempo un quarto d’ora, sento il rumore del portone che viene chiuso con la catena e ho la certezza che non ci sia più nessuno nel Liceo.
Per quanto riguarda le vernici e i pennelli di cui sono intenzionato a servirmi, ho seguito un piano ingegnoso: nel mese di luglio sono passato da scuola con due grandi sacchi, sostenendo  fossero pieni di libri da vendere al mercatino scolastico di settembre, organizzato dai rappresentanti del consiglio d’istituto. Sotto un po’ di libri messi a camuffare, nel caso in cui qualcuno avesse curiosato, ho posto un po’ di bombolette spray, una tanica di colore e pennelli. Ho ripetuto l’operazione ancora due volte, procurandomi una scorta notevole di materiale. Un bidello distratto, dopo avermi indicato la prima volta uno sgabuzzino al primo piano, mi ha lasciato la chiave perchè ne disponessi a piacere, portando tutti i libri che volevo... Alle tredici del 12 agosto, dunque, mi trovo a essere padrone della scuola, in possesso di vernice sufficiente per scrivere un saggio d’un centinaio di pagine e un piccolo poema in endecasillabi sulle sacrosante pareti dell’istituto.
Dedico un paio d’ore a ispezionare la scuola in santa pace. In portineria sono appesi svariati mazzi: sono  l’indiscusso signore delle chiavi, mi sento  come Adelaide Antici nel palazzo avito di Recanati.  Decido di rispettare le gerarchie, mi sembra opportuno, visto quello che mi appresto a fare, e parto dall’ufficio del dirigente scolastico, nel quale mi era capitato di entrare un paio di volte, ma che non avevo mai avuto occasione di esaminare con calma.
Avevo già notato che il dirigente è, del tutto incongruamente rispetto alla personalità da burocrate espressa  in ogni dettaglio, un appassionato di paesaggi esotici. Poster dozzinali di isole assolate, montagne azzurre, laghi dagli improbabili colori e qualche concessione al politically correct: un ospedale costruito con fondi di beneficenza in una missione africana. Sulla scrivania, una lampada con paralume rosso, che aveva catturato la mia attenzione la prima volta in cui la vidi: un abat-jour da bordello, così come me lo immagino io, naturalmente. Inizio ad aprire i cassetti e esaminarne i contenuti. I primi due a destra non contengono niente d’interessante, ma il primo di sinistra è un vero forziere, non credo ai miei occhi. Il nostro burocrate, il dirigente scolastico tutto d’un pezzo, quello il cui tic nervoso principale  consiste in un rientro compulsivo nel collo della giacca, ha qualche inatteso, inesplorato anfratto, nel quale s’annidano passioni, ossessioni, chissà che altro.
Non faccio in tempo a trionfare di questa scoperta e a esaminare da vicino quello che ho trovato, che sento un rumore sospetto provenire dal piano di sopra. Ormai sono quasi le tre del pomeriggio, nella scuola completamente chiusa non dovrebbe esserci nessuno. Dunque com’è possibile che io senta rumore di banchi smossi, senta  voci, il classico frastuono dei giorni qualunque in cui sono abituato a frequentare l’edificio? Percepisco un formicolio alla radice dei capelli, ho paura. Comunque  cerco di controllarmi e, dopo aver chiuso il cassetto della scrivania, mi dirigo lentamente verso la porta, mentre il rumore esterno si fa sempre più forte, come se una classe intera stesse spostando i banchi per un compito.  Eppure la scuola è sprangata, nell’atrio regna la penombra. Inizio a salire le scale, e il rumore non diminuisce, anzi, ora sembra che le classi intente a spostare i banchi siano due, tanto il rumore è forte. Quando arrivo al I piano, regna il silenzio assoluto. Tutte le porte delle aule sono chiuse, e io resto fermo in attesa per svariati minuti. Mi aspetto che accada qualcosa, il formicolio non è ancora cessato e mi tremano anche le gambe. Tuttavia  nulla accade e io ridivento padrone di  me. Devo essermi sbagliato. Il rumore magari proveniva da fuori e la situazione in cui mi trovo ha determinato l’inganno: in fondo sto commettendo una grave violazione, e probabilmente questo genera in me uno stato di debolezza psichica favorevole all’esasperazione delle percezioni. Mi calmo e scendo nuovamente nella presidenza, per riprendere l’ispezione interrotta.
Trovo il cassetto aperto: strano, penso, ero sicuro di averlo chiuso. Decido comunque di non dare peso a questa nuova incongruenza e ritrovo l’entusiasmo della scoperta iniziale.





























LA STAMPANTE MI PARLA







La stampante inizia a produrre un ronzio e emette un foglio sul quale leggo:

AIUTO. Non so più chi sono. Non so dove sono e nemmeno come ci sono arrivato. Non so nemmeno se sia un uomo o una donna, un ragazzo o una ragazza, un bambino o una bambina. Sento di avere pensieri multipli, di essere uno e contemporaneamente tanti. Provo a tastarmi, per capire qualcosa, ma le mani non obbediscono alla mia volontà: sento di averle, ma non so come dirigerle, così come tutte le altre parti del corpo. Eppure nella mente si formano pensieri, potrei provare a esprimerli ad alta voce, ma un istinto mi suggerisce di non farlo, come se potessi incorrere in qualche disastrosa, magari letale conseguenza. Com’è possibile che io mi figuri qualcosa di letale, quando nello stato in cui mi trovo mi sembra di essere morto? Il sospetto che ho è proprio questo: sono morto e ho perso già memoria completa di me, dell’io che mi teneva unito e strutturato finché ero in vita. Vita, morte. Se queste due idee sopravvivono e significano qualcosa, vuol dire che non sono morto e che sono io. Ma io chi? Questo è il problema.
Chi mi sta dicendo qualcosa? Chi vuole comunicare con me? Forse in questo luogo in cui l’intelligenza in forma umana ha smesso di operare, o opera a corrente alternata, ha preso forma un’altra forma di intelligenza, ectoplasmatica, che si manifesta attraverso l’elettronica? Sono aperto a qualsiasi rivelazione, tanto non ho niente da perdere. Ora però torno al cassetto, e al suo interessante contenuto: biancheria femminile in pizzo nero, calze autoreggenti, mutandine e top. La biancheria in  pizzo è, secondo me, quanto di più arrapante esista per chiunque, uomo o donna che sia nella sua interiorità. Una volta che mi sono fatto un bel po’ da solo (normalmente evito, perché volge sempre alla disperazione) ho provato a indossare le mutandine di mia sorella, per vedere se favorissero una masturbazione conturbante. Ho iniziato a accarezzarmi  i glutei, percorrendo piano la linea delle natiche. L’effetto è stato travolgente, ma non escludo ci fosse di mezzo lo stupefacente. La stampante però è entrata di nuovo in fase comunicativa...altro foglio da leggere per me.
Sono un uomo malato...sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente. Credo di essere malato di fegato. Del resto di questa mia malattia non ne capisco niente, e in verità non so nemmeno io di che cosa soffra. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene nutra il massimo rispetto per la medicina e per i dottori. Per giunta, sono anche estremamente superstizioso; o per lo meno lo sono abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto da non essere superstizioso, eppure lo sono ugualmente). No, io non voglio curarmi per cattiveria. Questo probabilmente voi, non lo capirete, ma io invece lo capisco. Naturalmente non sarei mai capace di spiegarvi a chi esattamente voglio far dispetto in questo caso con le mie ripicche; so benissimo che non sono assolutamente in grado di nuocere nemmeno ai dottori per il fatto che non vado a farmi curare da loro; anzi, so meglio di chicchessia che con ciò faccio del male unicamente a me stesso e a nessun altro. Ciononostante, se non mi  curo lo faccio proprio per cattiveria; il fegato mi duole, ebbene che mi faccia ancora più male!

Questa volta non ho dubbi sull’autore. Ho letto per l’estate dalla seconda alla terza I ricordi dal sottosuolo e questo è l’incipit, ma  mi interessa capire come mai il dirigente  trascriva (così mi viene da pensare, che sia scrittura sua) l’inizio di un romanzo che avrei giurato non avesse mai letto. Dostoevskij non si addice minimamente a uno spirito burocratico e ingegneresco, non si addice al codice amministrativo, non si può tradurre in capitolati, in richiami e in circolari.
Non riesco a trattenere un pensiero divagante. Una circolare concepita in stile dostoevskiano.

Circolare numero 4566 (a rettifica, parziale, della precedente, che non è la 4565, ma la 4544).
Oggetto: casi di sofferenza interiore nell’Istituto.
Siamo tutti prigionieri in questa casa dei morti. Le notti bianche  ci aspettano: demoni, umiliati e offesi, idioti senza memorie del sottosuolo. Povera gente... né sosia né giocatori potranno mai salvarvi.
Il Dirigente scolastico
Anghelos Grekopchova

Immagino, a leggerla con seria circospezione, la mia isterica insegnante di matematica, una cinquantenne coi tratti somatici di un australopiteco: fronte bassa e sguardo obliquo, pronta a scrosciare in stridule, inattese e del tutto fuori luogo risate  cavalline, dedita allo stupro costante della lingua italiana per via di alcuni logori tormentoni espressivi, che lei evidentemente considera vezzi e manifestazioni della sua colta (coltivata?) personalità.
Posso dire,” la sento prorompere, “che questa circolare mi pare un po’ fuori luogo? Lo dico e poi mi taccio” (ahimè Dante, contrappasso per l’australopiteca: doverti leggere sul serio).
 Però pensare a lei mi tedia, la matematica è sempre stata una mia passione e sentire le sue spiegazioni mi ha causato non pochi tracolli. Buona insegnante alla fin fine, dicevano alcuni miei compagni amanti dell’ordine e della disciplina: sì,  per  chi della matematica pura se ne fotte e chiede solo di essere allenato al test del politecnico.  A me sentir dire che “prima di porsi delle domande bisogna aver imparato l’abc” (quello che secondo lei è l’abc) fa venire brividi di taedium, ennui e spleen allo stato puro. C’è qualcuno che mi ha insegnato qualcosa,  in questo antro maledetto, ma non ne voglio assolutamente parlare. Lo spazio deve essere riempito di invettive e di lamenti, poi, forse, lancerò il mio messaggio d’amore.
Comunque, adesso basta con la divagazione dostoevskiana, torno al mio cassetto dei segreti. Guarda guarda il nostro preside burocringegnerizzato col tic del rientro nella giacca...si tiene nel cassetto le foto delle tre grazie, tre erinni mai disposte a diventare eumenidi, di cui si è circondato. Le tre collaboratrici, rispettivamente un’insegnante di filosofia, una di italiano e una di matematica. La prima è una specie di duchessa di Windsor allampanata e rinsecchita, con un paio di improbabili enormi tette in degne condizioni, spesso visibili per una tendenza all’ostentazione che non sfugge  alla maggior parte degli studenti. Dotata di eloquio forbito e intercalare ricorrente (“è vero”, variato talora in “nevvero”), la Windsor gode nella scuola di discreta fama, è rispettata  e apprezzata, anche perché riesce a far risultate che le sue classi siano ottimamente preparate, riducendo al massimo i programmi  e procedendo a colpi di ricerche preconfezionate.
La seconda è un ossimoro vivente: labbra sensuali, chiappe da Venere callipigia, associate a una pettinatura castana conformata (come si dice delle feci non diarroiche)  e sempre identica (come se i capelli avessero trovato una volta per tutte una posizione, e da lì non si scostassero), a una gestualità contenuta e a un modo di parlare elegantissimo e, ça va sans dire, vuoto. Capace di discettare per un’ora intera su Leopardi senza dire assolutamente niente. L’ho ascoltata in un paio di occasioni pubbliche (dato che si picca di tenere lezioni pomeridiane allargate, pensando di essere una didatta eccezionale) e ho rischiato tre cadute dalla sedia per irrefrebabile sonnolenza.
La terza, la vicepreside in realtà, è una stridula e assatanata ninfomane più o meno occulta, che squadra i maschi della scuola con occhi vogliosi e prorompe (anche lei, è un contagio diffusosi nel dipartimento di matematica) in risate isteriche a ogni piè sospinto. Nata, cresciuta e putrefatta nell’edificio scolastico, ne è ormai una sorta di parte integrante (e intrigante), per cui quasi ho paura di vedere il suo spirito fuoriuscire dalle piastrelle e aggredirmi con una delle sue insane risate.
Ecco, è venuto fuori il problema delle piastrelle. A scuola ce n’è di varî tipi, ma quelle più interessanti si trovano in bagno. Il bagno è senza dubbio un luogo metafisico: è durante storiche pisciate e cagate, non di rado post sbronze  e sniffatine che ho elaborato le teorie più interessanti sulla vita e sulla morte. E naturalmente le ho annotate sui muri con piccoli graffiti.
A proposito di muri,  è il momento di  scrivere. Decido di andare nella classe che è stata la mia nell’infinito, penetrante, logorante,  intrusivo, invasivo  quinto anno, situata al quarto piano: un’aula esposta al sole e quindi caldissima, con due veneziane cadenti e pittata di azzurro violento. Una specie di gigantesco water, dove spesso mi trastullavo, per associazione d’idee, con  l’immaginazione del tuffo a capofitto nell’acqua merdosa, stile Trainspotting, ma senza nobili fini di ritrovamenti aurei per eroinomani estremi, solo così, per passare il tempo.





















PASSAGGI DI STATO





Mentre salgo per le scale introduco una divagazione utile a capire qualcosa di più di me: ascolto svariati tipi di musica. Bach è il mio compositore preferito. Corrisponde a Dante nel mio sistema estetico. Con le Variazioni Golberg (suonate solo da Glenn Gould)  leggo Dostoevskij, con le Cantate, in particolare l’Actus tragicus, che ho sentito per la prima volta nell’Accattone  di Pasolini, vivo quasi serenamente la mia insonnia da stupefacenti. Per la strada, in bici o a piedi, ascolto  Amy Winehouse, Jimy Hendrix e i Rolling Stones.
Ma la mia attuale passione è il rap. Mi piace la carne nuda, senza pelle. La scorrettezza allo stato puro, nel contenuto e nella forma, volutamente e non per épater les bourgeois  ma perché è proprio così.
Canto spesso, piano piano, durante le lezioni,

cani sciolti sotto il sole
quando fuori piove
quando tutto è fermo c'è qualcuno che si muove
sono il cane sciolto,
lo straniero nella mia nazione
e fuori dal recinto resta la mia posizione...

sperando che il logorroico di turno alla cattedra venga esorcizzato dal mio personale mantra, ma niente accade e la testa diventa pesantissima, gli occhi si svuotano, tutto mi sembra inutile, guardo un gatto che passeggia su un cornicione e mi immagino di essere al suo posto, mentre
 musi di pantere mi annusano il sedere
 e non c’è molto da sapere
se la vita è mia lascio che sia...
Non ho ancora molta esperienza nell’hip hop,  ma nei giorni immediatamente seguenti alla prima prova dell’esame di stato, mi sono dedicato a scrivere il tema che, se fossi stato coraggioso, avrei dato da correggere all’infame commissione (interni e esterni, nessuno escluso) capitatami. Sulle pareti, in vernice nera, riporterò solo il rap finale, ma il tema completo ce l’ho stampato nella mente. Non sarei mai riuscito a scrivere una cosa del genere senza le confidenze di qualcuno. Ma non posso proprio scoprire tutte le mie carte. Certo è che ho un infiltrato (o infiltrata) tra i Secondini della scuola, sicché mi è molto più facile concepire cose come queste, che vi lascio leggere mentre io riporto sul muro azzurro della mia vecchia classe solo il rap.
Se l’inferno esiste, ha pensato quell’inguaribile ateo che è in me, deve essere proprio così. Un’aula sudata,  in cui s’inscena eternamente la pantomima dell’esamedistato. Tutto attaccato evoca meglio dissesto, distanza, dissennatezza e quant’altro convergono nel produrre il turpe spettacolo. Ma voglio procedere con ordine, evocare con pennellate precise, fotografare senza particolare pathos, come si trattasse di scrivere un articolo di tipologia B2, ambito socio- economico, argomento
“La catastrofe educativa negli ultimi cento anni”.
Il documento numero uno, utile per sviluppare l’inquietante tema proposto (inimmaginabile che il proponente sia il ministero), è la circolare 1152 bis di una scuola della Repubblica italiana. Avverte una nota   a  piè di pagina che la 1152 non esiste: il fervore burocratico ha siffatte impennate, produce le bis nell’inesistenza della semel. La circolare, datata 20 giugno 2015 recita:
“Si comunica a tutti i docenti interessati che sono a disposizione i moduli da compilare per i desiderata, da consegnare improrogabilmente entro il 10 giugno. È possibile esprimere un’unica preferenza fra due opzioni proposte”.
Il discente impegnato nell’analisi del documento numero uno noterà subito la richiesta d’ottemperanza alla compilazione in  data antecedente alla comunicazione medesima, l’impropria declinazione plurale di quello che è evidentemente un singolare,  la pleonastica, o pedante, sottolineatura della possibilità di esprimere “un’unica preferenza” a fronte di due uniche opzioni e metterà da parte il documento per ricavarne qualche sapida battuta che potrebbe aiutare a concludere lo svolgimento. Magari, se gli viene un colpo di genio, gli suggerirà il fulmen in clausula.
Il documento numero due è uno stralcio del ddl noto come Buona scuola, di cui si è parlato e straparlato negli ultimi mesi, e che è stato definitivamente approvato il 10 luglio 2015.


                                     ”



Si noterà che lo stralcio è invisibile, ma la trovata (futurista) è da leggersi in chiave metaforica.
Il documento numero tre è una fotografia di un pacco contenente i lacerti dell’esame di stato medesimo. Un paccone bianco, confezionato con cordino ceralaccato, al cui interno si trovano tutte le prove, le griglie di valutazione, le schede dei candidati, le tesine, e poi firme, firme, firme, un delirio di firme dei commissari, impresse sul pacco medesimo, sui pezzi di nastro adesivo, su ogni scheda, ogni compito, ogni singola pagina di verbale stilata, un delirio di deforestazione, uno spreco di pezzi di carta in numero di almeno dieci per ogni candidato, una media di 250 fogli per classe. (senza l’inflitrato/a questo documento non sarei riuscito a inventarmelo...la realtà supera l’immaginazione)
Il documento numero quattro è una breve registrazione degli  scrutini, che seguono alle interrogazioni dei candidati. “Ha detto che verismo e naturalismo sono la stessa cosa.” “E ha sostenuto che in un campo elettrico gli elettroni si muovono alla velocità della luce.” “Di storia non sapeva niente di niente, le ho cambiato tre domande, alla fine ho chiesto il ’68 e neanche di quello ricordava qualcosa”. “Di quale punteggio ha bisogno per arrivare a 60?” “18”. “Allora diamole 18 e finiamola qui”. (anche per questo, ringrazio chi so io)
Il documento numero cinque è l’articolo 34 della Costituzione italiana: “La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

E ora lo svolgimento.

ARTICOLO DI GIORNALE
No, non lo pubblicherò su nessun giornale. Lo scriverò sui muri, piuttosto, o diventerà una graphic novel. Non obbedirò così alle vostre regole, dovete iniziare a conciliarvi con questa idea. Faccio quello che posso, non quello che devo. Faccio quello che voglio, consapevole della limitazione del volere da parte della realtà. Non immagino quello che volete voi, ma quello che posso io. Dicevate, voi, miei genitori, alcuni di voi almeno, una cinquantina di anni fa, che l’immaginazione sarebbe dovuta salire al potere. Ebbene, ora accadrà, e io magari andrò fuori tema, ma sarà esattamente quello che avrò voluto fare.

Il titolo però ve lo scrivo, mi sono sempre piaciuti i titoli, non è per guadagnarmi ½ punto sulla griglia di valutazione. Inoltre scrivo su una colonna, come richiesto dalle consegne ministeriali.



C’È CACCA PER TUTTI
Non ricordo dove l’abbia letto, ma qualcuno ha  scritto che oggi la scolarizzazione è amnesia pianificata. Ecco, già fin dall’inizio emerge con chiarezza il mio punto di vista. Non devo, dite voi che mi insegnate come scrivere, non devo far emergere così chiaramente fin dall’inizio il mio punto di vista. Deve essere un processo graduale, una dimostrazione che avvenga per via di logica induttiva, deduttiva, applicando il principio di non contraddizione. Sì? Davvero? Volessi pigliarvi per il culo (dio me ne guardi), dovrei inserire a questo punto una serie di emotycon, sui quali potreste intrattenervi e esercitare la vostra  logica (induttiva, deduttiva, aristotelica, kantiana). Guardate un po’: 
Allora che cosa capite? Attempati lettori, utenti di facebook, intenti a ringiovanire le facce e le voci (dell’anima vi siete dimenticati millenni fa, se mai l’avete avuta, con buona pace delle dispute su quella delle donne), cosa capite di queste faccine? “Vi prego di non fare smorfie inutili, di non guardarmi male, di piangere, d’incazzarvi un poco, e alla fine rimanere perplessi.”
  Bella parola, perplessi: vuol dire intricati, confusi,  con un che di indeterminato. Leopardi mi capirebbe subito, lo  so, senza tanti giri di parole. Come guardare di là dalla siepe e percepire interminati spazi, sovrumani silenzi. Sono i vostri, i sovrumani silenzi, che non dischiudono l’infinito, oh no, piuttosto dicono quanto siete vuoti, ipocriti, negletti, insipienti. E noi, che in voi ci specchiamo, non possiamo che riflettere il vuoto, l’assenza, il tedio. Senza riscatto, senza nobilitazione. Non è il taedium vitae, non è lo spleen, non è l’ennui. No, non c’è una traccia d’oro in questo crogiuolo, solo escrementi che non possono nemmeno ambire al privilegio di concimare un terreno in grado di fruttificare.  
Ce l’ho con voi. Sì, non è un gran segno di intuito da parte vostra averlo capito. Ce l’ho perché non capite niente. D’accordo, c’è cacca per tutti e cacca ovunque, ma non  è turandoci il naso e il cuore che possiamo liberarcene. Dovremmo, piuttosto, imparare a vederla anche dove si occulta, dove si maschera meglio, per esempio da progetti culturalmente vantaggiosi: ma sul serio? Per noi? Davvero? Non per caso per i soggetti che li propongono e li organizzano, non per caso per le associazioni profit-non profit che s’approfittano della latitanza dello stato, del pubblico allo sbaraglio, della svendita dei beni comuni?
 Ah sì, dobbiamo credervi  padri e madri benevolenti, come quelli di Hänsel e Gretel, di Pollicino:  fate sempre tutto per il nostro bene, volete che nel bosco noi troviamo la nostra strada, ma chissà, forse il sentiero che voi ci additate porta dritto dritto nella casa di una strega o in quella di un orco, e poi toccherà a noi, piccoli, indifesi, perplessi, trovare il  modo di uccidere qualcuno, cuocendolo al forno o facendolo sgozzare, indossare stivali delle sette leghe, racimolare qualche tesoro da portare a casa per donarlo a voi (che spreco) e poter continuare così stirpi e generazioni.
Quanto ce l’abbia con voi si capisce molto bene, ma non abbastanza quanto ce l’abbia con me stesso. Perché il testimone occorre saperlo passare, ma anche saperlo afferrare: le due abilità, è chiaro, sono complementari. E noi non vogliamo parlarci, riduciamo la comunicazione a messaggi stereotipati, per poi rinchiuderci ciascuno nel suo mondo e parlare male gli uni degli altri. Così  non ci libereremo della cacca. Perché lei, a differenza di noi, ha sviluppato una grande capacità di sopravvivenza, un grande potere pervasivo e anche possiede qualità mimetiche. Per esempio, parla alla perfezione il linguaggio della burocrazia (mi sto servendo, se non l’avete capito, del documento numero 1), poi anche quello delle leggi (documento numero due, criptico ed eloquente): il nulla che si autodefinisce bene. Autonomi, progettuali, collegati col mercato del lavoro, competitivi, in una parola UTILI. No, lo so, non dovrei usare le lettere cubitali, ma mi è venuto dal cuore, o da un’altra parte, non so, alle volte mi confondo e mi sembra che a parlare sia preferenzialmente un vuoto, un buco e…sì è proprio quello che vi state immaginando, credo che non potreste darmi la sufficienza per un tema del genere, probabilmente mi sto giocando l’esame di stato, che stupido, l’ultima cosa che dovrei fare, inutile e doloroso, come giocare a tirarsi freccette sul cazzo. Questa però mi sembra l’unica rivolta possibile. Contro il vostro circo Barnum che mira esclusivamente a piccoli vantaggi personali. Diventare sottilmente (si fa per dire) autolesionista, dire fino in fondo la verità.
Ora mi esibirò per voi: funambolicamente collegherò tutti i documenti proposti in  un  mio breve hip hop, tanto è chiaro che questo non è uno svolgimento di tipologia B, articolo di giornale, ma una produzione scritta che non rientra negli standard aziendali.
Così, tra l’altro, posso introdurre un nuovo titolo, variazione su tema del precedente, di chiara ispirazione surrealista (il discente sta utilizzando materiali culturali trasmessigli dall’istituzione, la griglia di valutazione potrebbe rilevarlo):

E NON È UNA MERDA

Sono privo di mezzi
mi mancano pezzi,
questa vita cittadina mi fa male alle palle,
ma  non ti giro le spalle,
lo so che non ti piace, vuoi essere obbedito,
ma se penso ai tuoi ordini mi sento tradito.

Eppure no, eppure no, sono capace di scegliere la via,
solo voglio che sia storta e soprattutto sia la mia.
E chi sei tu che vuoi dettare ordini,
e non conosci uno dei miei disordini,
con Mickey Mouse hai cercato topoline,
mentre io con Pippo mi faccio le pippine,
che più son piccole e più sono carine.

E quel senso di vuoto che mi dai,
quando guardi nei miei occhi e non lo sai,
perché tutto è uguale per quelli come voi,
che non conoscono che il regno del poi.

E se ti parlo di funcia non capisci,
fatti una sega ch’è possibile sparisci,
poi ci vediamo un altro giorno, un altro mondo,
e vediamo se giriamo in tondo.

No però con te non torno,
no che non ci torno.

Mi hai scalpellato il cazzo,
credevo fossi il jolly nero nel mio mazzo,
invece siete un gruppo numeroso,
il nome giusto per parlarne è merdoso.

E per sperare in qualcosa il tempo è poco,
farmi le canne non è più un gioco,
qui con la musica non c’è domani,
pistole dentro tascapani.

Borse di studio non ne  voglio avere,
e poi mi piace il formaggio con le pere.
Dammi la mano  che non so più che fare,
saliamo in moto e ti porto al mare,
non farmi ridere non farmi piangere
non sono una mucca da mungere,
voglio trovare il modo di sverginare tutto,
voglio qualcosa che abbia un costrutto.

E tu, smettila di voler capire:

questo è solo il mio modo di sentire.

Appena arrivo alla e di sentire, accade qualcosa che non mi aspetto e mi fa quasi precipitare dalla sedia dove sono salito per scrivere le parole più in alto. Qualcuno bussa alla porta. Mi invento di essermi sbagliato, ma il rumore si ripete, ed è indubitabile si tratti di qualcuno che chiede di entrare. Scendo dalla sedia e mi avvicino, per essere io a compiere il gesto fatale, ma  provo una strana sensazione, come se stessi per svenire, la vista si oscura un poco e poi...
“Guido non mi rompere, voglio ascoltare questa lezione: il puntinismo mi interessa e non ho voglia di sentire le tue lamentele su Claudia che non te la dà.” Sono in classe con i miei compagni ai loro posti (più o meno). Il chiasso è notevole, come sempre durante le lezioni di arte, benché la professoressa sia giovane e, a suo modo, intenzionata a  spiegare, per quanto usando prodotti preconfezionati che, per lo meno, si è data cura di guardare prima. Alla porta qualcuno sta bussando, ma nessuno sembra darsene per inteso, sicché io porto a compimento il gesto che mi ero ripromesso, vado ad aprire.
Quanto basta,  a giudicare dalle apparenze, perché ogni cosa (di qualunque cosa si trattasse) abbia fine. Il corridoio è vuoto e anche alle mie spalle è scomparso tutto. Nessun compagno, nessun’aula vociante. Seconda volta.
 E tutto sembra uguale ma qualcosa non va
canta ora con assoluta pertinenza la mia canzone preferita, mentre io sento che le gambe mi tremano un po’ troppo e decido di farmi una canna. Il mio fornitore personale è un intenditore: il charas è senza alcun dubbio l’hashish che preferisco. Gliene ho comprato un bel po’ e lo alterno a qualche sniffata. So benissimo che la coca è particolarmente merdosa, ma non ho intenzione di smettere. Ho la situazione sotto controllo: alterno l’uno e l’altra in modo da creare una specie di equilibrio. Quando con l’hashish divento troppo sonnolento, e qualche Antico Coglione se ne accorge, una sniffatina mi riporta al giusto tenore e sostengo impeccabili interrogazioni. Certo ho fatto sempre in modo di non farmi beccare a scuola, le mie operazioni chimiche le faccio tutte  in posti sicuri.
Dopo la canna sto meglio. Inizio a pensare di essermi immaginato tutto. Magari mi sono addormentato per un attimo. Poi comunque sono disposto anche a vivere un’avventura in un’altra dimensione. Magari le scuole sono Varchi Lovecraftiani o  da qualche parte in cantina c’è un Bevatrone come quello di Philip Dick nell’Occhio nel cielo, e io mi trovo in una realtà parallela inventata da me, dove accadono cose leggermente stupefacenti (essendo io uno che fa uso di stupefacenti, che ridere). In effetti quando fumo mi vengono idee stupide che mi fanno ridere un sacco, ma non sono proprio sicuro sia tutta responsabilità del fumo.
Dopo la fumatina decido di tornarmene al piano terra, intanto è ormai pomeriggio inoltrato, all’orologio sul piano sono segnate le 18:30, ma so che non devo fidarmi: una delle caratteristiche di questo non sacro recinto è che gli orologi segnano tutti ore diverse, non so se per  trascuratezza o vezzo del preside, che a questo punto inizio a considerare come un soggetto interessante e degno di essere approfondito.
Al piano terra risultano essere le 19:30, io mi fido del sole e decido che questa è l’ora giusta, d’altronde non me ne importa granché, procedo con l’esplorazione della presidenza.


















INCONTRI, RICONOSCIMENTI




Non faccio in tempo ad avvicinarmi al cassetto che la stampante logorroica emette un altro foglio.
L'aveva scelta con cura, tra tante che gli si erano offerte. Tutte erano degne di nota, per qualche dettaglio o, in certi casi, per la loro medesima essenza. Una si segnalava per la diligenza nell'eseguire i compiti assegnati, un'altra per l'istinto sicuro che le dettava in quali momenti lui sentisse la necessità di un sorriso, in quali di non essere nemmeno guardato fugacemente, in quali provasse la mancanza di una carezza, in quali rifuggisse il contatto anche occasionale di un braccio. Un'altra ancora sapeva intuire la fine delle frasi, che lui per noncuranza o presunzione preferiva non terminare nemmeno, un'altra conosceva l'arte della contraddizione condotta agli estremi limiti, per lui, dell'ira. C'era quella che non lo tediava mai, per la straordinaria varietà d'umori che sapeva esibire, simulare, magari provare davvero, quella che riusciva a placarne le ire subitanee e immotivate, quella che lo trafiggeva con uno sguardo d'odio  nei momenti del compiacimento intellettuale, quella che viceversa lo guardava con benevolenza persino se lui eccedeva in crudeltà o ingiustizia.
Tutte degne di nota, certo, ma lei era l'impareggiabile. Sapeva essere dolcemente fragile, intuitiva, rispettosa senza venir meno all'orgoglio, penetrante senza sconfinare nella presunzione; lo ascoltava sempre senza mostrare fastidio per le sue prolissità, col tempo divenute la norma, ricordando con precisione ogni particolare dei suoi interminabili discorsi; attendeva pazientemente che lui si calmasse quando all'improvviso si sentiva travolgere da ondate di tedio e desiderio di distruggere qualsiasi cosa avesse inventato, scritto, desiderato rappresentare o fare. L'aveva prescelta, ma non l'amava. Anzi, provava nei suoi confronti un profondo fastidio. Desiderava distruggerla, ma solo dopo averla portata al punto di credere d'essere stata scelta lei per puro amore. A tale scopo la messinscena doveva essere accurata, ma lui si sentiva in grado di reggerla. L'avrebbe discretamente corteggiata, alternando momenti d'attenzione a sconcertanti trascuratezze: sapeva quanto lei pensasse di capirlo in profondità, di possedere la chiave del suo cuore, e immaginava come avrebbe potuto ferirla palesandole all'improvviso l'irragionevole insipienza che viceversa lui sapeva la contraddistinguesse. Come poteva pensare di capirlo lei, che agiva animata dall'intento di brillare ai suoi occhi di una luce assoluta, e probabilmente non solo ai suoi ma anche a quelli di tutti gli altri che avrebbero dovuto invidiarla in quanto la prescelta.
“Bene, bene” sento dire ad alta voce, e sobbalzo per lo spavento, “vedo che stai scoprendo i segreti del nostro amato preside”.
Mi tiro su e  inquadro chi ha parlato, evidentemente entrando senza che me ne potessi accorgere, dato che  io sto seduto all’indiana dietro alla scrivania. Di primo acchito penso di essere entrato nel mio film preferito:   chi ha parlato è il Grande Lebowsky dei fratelli Coen in persona. Mi sorride e mi chiama per nome, così esco dalla mia allucinazione e mi rendo conto che si tratta di Angelo, il mio bidello preferito, effettivamente un po’, ma non così tanto, somigliante a Jeff Bridges.
Angelo è molto simpatico perché è vero. Non dovebbe essere una cosa così strana, ma in  un ambiente come la scuola in cui sono rimasto per cinque anni (ma forse nel mondo) è una rarità. Intanto è un vero maschio, un maschio col controcazzo e i controcoglioni. A una mia fidanzata volante di qualche tempo fa, espressioni come queste facevano saltare i nervi. Era una veterofemminista lesbico compulsiva (non so esattamente cosa voglia dire, ma è una definizione pregnante), straordinario per una di quindici anni nel 2013, che il femminismo non l’aveva nemmeno annusato, ma si giustificava col fatto che avesse un’avvenente  madre quarantenne radical chic,  intenta ad adocchiare la patta di noi amichetti di sua figlia per vedere se si gonfiava quando lei si faceva vedere seminuda con la scusa di essere appena uscita dalla doccia. La mia amichetta sosteneva che il linguaggio dovesse essere epurato di termini sessisti, adorava (insieme a sua madre) una sua insegnante di italiano che io avevo soprannominato lesbokitty (la cosa non richiede spiegazioni), particolarmente lanciata in questa direzione. Lesbokitty (che io so imitare alle perfezione anche in certi interessanti sculettamenti con cui accompagna il suo elegante eloquio)  riteneva fondamentale dire, e imporre ai suoi allievi e allievesse di dire,  “gli e le studenti”, facendosi chiamare “professora”. Impossibile ovviamente  farne oggetto di ludibrio con la mia fidanzata e con la madre. Però, quando io facevo notare, almeno alla prima, che mi pareva leggermente  in contraddizione il fatto che sua madre le dicesse “di non fermarsi alla prima stazione”, riferendosi al fatto di chiavare con me e essermi fedele, e professasse una feroce ostilità nei riguardi del linguaggio e dell’etica   sessista, lei rispondeva che non capivo niente.
 Le argomentazioni non erano il suo forte.
 Sento il bisogno di precisare una cosa. Non mi piace per niente dire e nemmeno pensare in termini di “chiavare” e “scopare”. Mi rendo conto che l’espressione più adeguata, a meno di scegliere la via dantesca dell’ineffabilità, sia “fare l’amore”. Ho tante volte sognato di “fare l’amore” con un soggetto che però non era reale, un soggetto esistente ma irraggiungibile, una donna impossibile (in questo caso a esprimersi è la mia parte etero), almeno per me e per svariati motivi. Con quel soggetto, sono sicuro, non dovrei usare la coca e neanche il gin. Con lei, di sicuro, se mai accadesse, farei l’amore. Con gli amici e amiche con cui sto, invece, scopo o chiavo, ma niente a che vedere con l’amore. Sesso allo stato puro, mica poco, da Ars amatoria perché tutti possano capire.
Intanto Angelo viene a sedersi accanto a me e mi chiede se ho un po’ di fumo anche per lui. Durante un’occupazione quattro anni fa mi ha aiutato a non incorrere in sanzioni disciplinari degli Antichi Coglioni (erano quasi riusciti a capire che io ero uno dei tre spacciatori della scuola), e da allora siamo amici di canna (quasi sempre sono io a offrire, ma non sto a sottilizzare). Dopo un paio di giri, mi dice:
“Di chi pensi sia la biancheria di pizzo?”
“Allora l’avevi già vista?” rispondo, dal momento che il cassetto in questo momento non la rivela, coperta com’è dai fogli che ho letto.
“No, l’ho vista insieme a te prima.”
“Ma se prima ero solo” faccio in tempo a dire io trasecolando, quando veniamo interrotti da una nuova entrata in scena.
So chi è ancora prima di vederla, dato che mi trovo sempre nella posizione a gambe incrociate dietro alla scrivania, e in più ho in corpo già un po’ di charas, quanto basta a farmi sentire un poco vaporoso e disponibile alla fraternità universale: è l’insegnante che non ho mai avuto. Dovrei stupirmi, mentre mi sembra tutto assolutamente normale. Mi viene comunque da chiedere a tutti e due, già che ci sono, come abbiano fatto a entrare (l’altra domanda dovrebbe essere perché siano entrati), ma non ricevo risposta. Angelo, che forse non regge tanto l’haschisch (e magari, a giudicare dal colore della faccia, ha anche già bevuto un bel po’), si sta mettendo in testa le mutandine di pizzo nero e intanto legge borbottando i fogli usciti dalla stampante logorroica. La  nuova entrata, invece, si siede accanto a noi nella stessa postura (sembriamo tre piccoli indiani) e del tutto inaspettatamente mi chiede se ho un po’ di fumo.
“Ma prof” mi sento dire “anche lei?”.






QUELLA CHE NON
È MAI ESISTITA







Questa mia infelice esclamazione richiede un commento. Intanto ho sempre trovato terribile chiamare “prof” un insegnante. Un po’ come dire “raga”, o”vecchio” o usare “porcodio” come intercalare. Sono allergico a questo come agli Antichi Coglioni che dicono “nevvero”, a quelli che usano “piuttosto che” per gli elenchi, o “in qualche modo” a ogni cambio di proposizione.  Pare però che siano  usi troppo diffusi per essere contrastati seriamente. Tante cose si diffondono con estrema facilità, senza che uno capisca esattamente come possa accadere, dato che sono molto irritanti e stupide. Ma è ovvio che si tratti di un punto di vista individuale.  Eppure alle volte capita che io interpelli qualcuno e chieda: “ma perché tutti chiamano gli insegnanti prof?”. Gli interlocutori di turno, quando hanno voglia di darmi retta, compiono lo sforzo di dirmi “boh” oppure, i più eloquenti,  “è più breve” o ancora, gli aggressivi,  “cosa te ne frega”. Non ho mai chiamato l’insegnante che non ho mai avuto “prof”. Nemmeno quando ho iniziato a provare una certa insofferenza nei suoi riguardi. Avrei voluto insultarla, è vero, a un certo punto, ma mai avrei scelto come mancanza di rispetto verso di lei quella del “prof”.
 L’insegnante che non ho mai avuto è saltata fuori dalle pagine di un libro che ho letto l’anno scorso.  S’intitola L’ora di lezione di Massimo Recalcati e racconta cosa potrebbe accadere in un’ora di lezione se. Dopo il se c’è la mia vita non vissuta. Il mio desiderio rimasto tale. L’erotica dell’insegnamento, in un’unica espressione, non fosse che nel buco nero di tutti i giorni non c’è spazio per cose come quelle che descrive lui. Così me la sono dovuta completamente inventare, la mia Giulia personale (il nome che riporta Recalcati è questo, e andava bene anche a me), ossia  l’insegnante che fa nascere nel cuore dello studente l’amore per la conoscenza. Prima, veramente, fa nascere l’amore per lei (conditio sine qua non,  pensa il cialtrone rincivilito che è in me, che sia almeno un po’ figa), poi per transfert, amore per la conoscenza. Insomma, io me la sono proprio dovuta inventare, visto il materiale umano a disposizione qui nell’Istituto, ma ho lavorato bene, con e senza stupefacenti, e il risultato ora è qui davanti agli occhi. Lei si chiama Valfré, La Valfré, com’è uso definire le professore, con l’articolo davanti (riprovevole maschilismo) ed è perlomeno graziosa (almeno secondo me che l’ho creata). Non sarà uno schianto, ma a me provoca sensazioni saffiche,  nel senso dei   brividi e sentori di febbre della famosa ode (vedete che non sono un maschilista). Poi ho un  po’ voglia di toccarle una mano, un po’ di ritrarmi, ma tanto non faccio né l’una né l’altra cosa, e la fisso con sguardo vagamente imbambolato. Per fortuna che c’è  Angelo a distrarre la mia attenzione:   continua a armeggiare con le mutande e a me viene da ridere, così riesco anche a parlare.
 “Davvero, professoressa, vuole fumare con noi?”. Lei mi dirige uno di quegli sguardi che possono irritarmi molto: mi guarda come se fossi una specie animale poco evoluta, alla quale si possono sì e no indirizzare ordini precisi, ma con cui è impossibile  intrattenere comunicazioni complesse (è il mio lato masochista che qui viene titillato). Poi però addolcisce lo sguardo e mi dice:
“Perché, ti sembra riprovevole?”. Riprovevole è una parola che lei usa pronunciandola in un  modo un po’ ironico. Dentro sono contenute una serie di precisazioni, inerenti al tema dell’ipocrisia e delle relazioni umane, che occorre intendere, altrimenti si passa sopra con leggerezza su quello che dice e si travisa. Il fatto è che proprio questo mi fa incazzare (notate come gestisco bene lo sdoppiamento): che richieda tutta questa attenzione per sé, richieda un’intensa concentrazione per qualsiasi minima frase pronunci. Come se fosse un testo in sanscrito da decrittare. Ma ne la sono inventata così e adesso me la devo tenere.
“Non mi sembra riprovevole” taglio corto, pronunciando la parola con leggero accento beffardo, e le passo cartine e quanto serve per farsi una canna, sperando che non ne sia capace. Io comunque non intendo occuparmente, mi ha già innervosito e ho voglia di andarmene. Infatti mi alzo  e mi accoccolo davanti ad altri cassetti della scrivania, quelli che si trovano sotto il computer. Proprio in quel momento la stampante si mette a parlare, e io leggo il suo messaggio ad alta voce.
"La Pizia, che aveva gli occhi spalancati, ascoltava distrattamente guardando attonita il mendicante dinanzi a lei, il quale si appoggiava alla figlia che era anche sua sorella, e dietro di lui c'erano le rupi, e i boschi, e più in giù il cantiere del teatro, e per finire il mare inesorabilmente turchino, e dietro tutto il cielo, il cielo di piombo, la superficie di quel nulla assoluto in cui gli uomini, per poter tirare avanti, proiettano ogni sorta di cose, divinità e destini di ogni genere, e quando il tutto cominciò a chiarirsi nella sua mente, quando riuscì a ricordare che pronunciando quell'oracolo lei aveva solo voluto fare uno scherzo mostruoso a quel giovane chiamato Edipo perché lui, una volta per tutte, si togliesse dalla testa la sua fede negli oracoli, allora tutt'a un tratto Pannychis XI scoppiò a ridere, e la sua risata diventò immensa, incommensurabile; dopo che il cieco se n'era andato zoppicando con la figlia Antigone già da un bel po', lei stava ancora ridendo. Eppure, come di colpo era scoppiata  a ridere, così di colpo la Pizia ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso."
Pannychis è una Pizia vecchissima, una delle  tante avvicendatesi nell'Antico, annoiata dal suo lavoro ripetitivo e pure dalla sua vecchiaia infinita, cinica e insoddisfatta, cicala che ripete cantilene senza tempo, sagace ancora, a volte, nel tessere le tele, ma anche nel capire quelle intessute da altri, i mefistofelici sacerdoti dei templi rivali, gli intriganti collaboratori con il potere costituito. E il cerchio di ferro del fato, il destino a spirale che stringe in un abbraccio mortale il mondo, è una presenza invisibile ma incombente, nessuno ne può prescindere, nessuno sa se quello che dice e che fa, o quello che fa fare agli altri, sia dettato da una ragione profonda, interiormente fondata, o frutto di impennate improvvise del pensiero, soprassalti di follia, divagazioni sentimentali, capricci, effetti d'ossessioni. Più labirintico di un giardino dai sentieri che si biforcano continuamente, il territorio mitico che Dürrenmatt evoca nella folgorante narrazione è un rompicapo senza soluzione, come la vita per molti di noi: quali  e quanti pensieri, gesti abbiamo concepito, quali e quante risoluzioni abbiamo preso, quali e quante scelte compiute in libertà dell'anima, per libertà dell'anima e approdando a un risultato non già prevedibile o previsto ma voluto davvero? Gli esseri umani amano immaginare di essere liberi in un mondo ordinato e regolato. Ma potrebbe anche essere che non esista nessuna regola, che siamo immersi in un vortice caotico simile a quello dal quale  miti narrano si sia originata la vita e che tutto debba ancora iniziare davvero. "La Pizia non rispose, tutt'a un tratto non c'era più, e anche Tiresia era scomparso, e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata". 
“Straordinario” dice la mia professoressa  ad alta voce, “come Pannychis mi somigli”.
Mi viene da replicare immediatamente, anche se subito dopo vorrei mangiarmi la lingua: “Pannychis è cinica, mentre lei non mi è mai sembrata tale”. Mi stupisco di aver avuto l’ardire di esprimere un giudizio così netto su di lei, dando prova, o comunque tentando di dar prova, di conoscerla bene. 
“Io sono molto cinica, ma certo con voi ragazzi mi trattengo. Non posso svelarmi completamente con voi.”
Occorre precisare che questa affermazione viene pronunciata con una certa  noncuranza da una che si è appena, con  destrezza devo ammettere, preparata una canna e la sta voluttuosamente fumando. Cerco di darmi un tono. Cerco di non guardarla troppo, perché la piega che i miei pensieri potrebbero prendere mi preoccupa. Il fatto è che lei ha un paio di decenni più di me (per renderla mia insegnante, non potevo far diversamente), e io mi sento davvero poco incline a essere un Ippolito refrattario a Fedra, ma mi sento anche poco incline all’incesto edipico. A dirla tutta, penso  sia insopportabile che lei in questo momento sia qui e decido di comunicarglielo  in tutta sincerità, come lei ha sempre insegnato che si debba fare.
Non faccio però in tempo, perché si verifica un nuovo evento.
Nell’ufficio di presidenza entra il preside in persona. Affonda nella giacca a ritmo di un parola/un affondo, segno di uno stato di nervosismo particolarmente accentuato, e dice “Buonasera  professoressa Valfré, buonasera Angelo, buonasera Guido. Vedo che siete molto indaffarati.”.
Straordinario. Si è ricordato i nomi di tutti noi. Un suo vezzo, se così si può definire, è notoriamente quello di non ricordare i nomi delle persone e scambiarli. L’esito potrebbe essere esilarante, non fosse che il soggetto vittima di scambismo nominalistico sente di essere sottilmente, si fa per dire, preso per il culo.
Comunque questa sera di agosto il nostro preside ricorda i nomi, ma quanto al compulsivo rientro nella giacca è del tutto uguale a se stesso.
Si avvicina alla mia postazione e sbircia nel cassetto in cui ho appena trovato il lacerto durrenmattiano. Non sembra particolarmente preoccupato dalle multiple violazioni che stiamo commettendo.
Nell’ordine.
Un’insegnante della scuola sta fumando uno spinello con un componente del personale ATA e con uno studente (da poco ex, per essere precisi).
Uno studente (ex) sta frugando nei cassetti della presidenza.
Un componente del personale ATA  ha in testa quelli che indubitabilmente sono slip da donna in pizzo nero, della cui origine è probabile il dirigente sia al corrente.
Si tratta di una serie di infrazioni che il nostro preside normalmente tratterebbe in un unico modo: componendo il numero delle forze dell’ordine e chiedendone l’immediato intervento. Poi, stilerebbe un verbale con tanto di elenco di suddette infrazioni enarrate in stile ingegneresco e burocratico. Altro che Doestoevskij e Dürrenmatt.
L’idea mi diverte molto, ma non faccio in tempo a dare corso a un’immaginazione in merito che accade ancora qualcosa di nuovo.
La Valfré si alza improvvisamente in piedi e io sono costretto a   guardarla. Dopo essersi alzata di colpo, si dirige verso un tavolo al fondo della presidenza e da lì, come se avesse deciso di creare uno spazio scenico, in ombra per noi che siamo più vicini alla finestra da cui traspare ancora la luce del tramonto, si mette a fare un discorso. Lo fa a braccio, evidentemente, ma sembra stia recitando un testo imparato a memoria.
“Incompresi, insoddisfatti, troppo comodi, da un lato,  dall’altro incalzati dal tempo, dall’incombere di scelte, da un bombardamento di aspettative multiple, che provengono da lontano, un generico “mondo” in attesa del vostro ingresso,  o da vicino, la famiglia, con la sua proiezione di riuscita o la sua giustificata preoccupazione in merito all’inserimento nel sistema, al sostentamento, alla sopravvivenza.
Poi  le persone intorno, i punti di riferimento, i genitori soprattutto,   che prendono decisioni condizionanti per il vostro destino, modificando irrevocabilmente assetti che si sarebbero desiderati stabili, che volentieri si sarebbero mantenuti se non per sempre, almeno ancora un po’.
E in aggiunta,  dagli altri, vicini e lontani, non di rado promanano  freddezza, ostilità, incomprensione,  sicché vi viene da ritrarvi tutti in  voi stessi, eleggendo come compagna la vostra paura, magari ridendo un po’ amaramente, con l’aria di uomini e donne (la crescita incalzante) che le hanno viste già un po’ tutte, non hanno più  niente da sperare, niente da desiderare, e si concentrano su se stessi, sul breve passato, sull’insondabile futuro, su colpe vere e presunte,  dimenticando l’unica cosa importante da fare, della quale comunque, spesso, voi avete un’idea precisa.
Il nemico è dentro di voi, siete voi stessi. Sdraiato sul divano, circondato di dolci e di patatine, incapace di proferire parole, privo della volontà di farlo, vagamente autocompiaciuto, emette rutti dalla bocca e dall’anima. E alimenta insoddisfazione. Non vi piace essere visti così, nemmeno da voi stessi, ma non abbastanza per smettere di farlo. E bisogna pure stare attenti a non manifestare troppa comprensione, in questo caso “condividere” è reato, soprattutto se si appartiene a un’altra generazione, ma anche in generale. Ci sono momenti in cui si desidera essere abbracciati, altri in cui persino un abbraccio è sbagliato.
Oggi voglio commettere due trasgressioni. La prima dicendo che comprendo tutto. Luce e amor d’un cerchio lui comprende, scrive Dante, e di questa natura è la mia comprensione, in cui ragione e sentimento si trovano congiunti.
Vi comprendo, ma non sono indulgente. L’io pigro, insoddisfatto, refrattario, oppresso dalla non volontà va scosso. E senza chiedersi con quale immediato vantaggio. Ve ne saranno, di vantaggi, ma non su quelli occorre concentrarsi, almeno inizialmente. Non aspettate l’appagamento immediato, perché questa è l’insidia della comodità che genera insoddisfazione: l’animale, legato a una catena che lui stesso si è infilato al collo, che aspetta un bocconcino. Mordete quella mano: vuole che siate polli da allevamento, galline che non riusciranno mai a fuggire.
Seconda trasgressione. Vi invito alla sfrenatezza. Siate sfrenati nel desiderio di vincervi. L’unica vittoria che vale la pena conseguire è quella su se stessi. Ed è in questo che il processo educativo può svolgere una funzione importante. Se non riuscite da soli, qualcuno vi deve aiutare, e non è con l’indulgenza che si ottengono risultati, anche se pure il suo opposto, l’inflessibilità, può produrre effetti controproducenti. Dunque, una volta di più, occorre trovare una terza via, ma che una via sia, non un vacuo brancolare nelle tenebre, in attesa di risposte che non si è disposti ad ascoltare.
La via che vi propongo non è quella facile e non dà  soddisfazioni immediate. Me la suggeriscono però due capisaldi della mia vita, che mi hanno dato tantissimo, sul lungo periodo. Autenticità e concentrazione. Non auto ingannarsi, non vivere su due livelli, ma cercare di essere profondi e intensi, di aderire a quello che si sta facendo, di non cercare ovunque il divertimento, perché ciò è nocivo all’essenza stessa del medesimo, contribuisce all’indeterminato, al senso di assenza di confini, di cui vi lamentate, per cui deperite intellettualmente e sentimentalmente.
A proposito di sentimenti, voglio commettere una terza trasgressione. Voglio dire a tutti voi quale sia il mio peggior nemico. Il mio peggior nemico è il vuoto. Il vuoto di sentimenti, per cominciare, e poi quello di idee. E  lo devo combattere ogni giorno, perché la tentazione di difendermi da un assalto che è sempre stato  intenso, ma oggi forse è aumentato, è molto forte. Ad assalire sono i dolori degli altri, i più vicini, i prossimi, i lontani, e la tentazione è quella di creare una bolla che isoli, che allontani, con la sua superficie trasparente, cangiante e affascinante tutto quell’assalto. Però, questo è sempre stato un mio principio, non voglio vivere anestetizzata. La gioia e il dolore sono componenti essenziali della vita, e non conosce gioia profonda chi non sa sentire il dolore profondo. Quanto al vuoto di idee, ammetto che anch’esso è una tentazione. La tentazione della facilità, che porta a collazionare idee preconfezionate. Le lezioni già fatte, persino le mie, non le voglio considerare. Anche perché non voglio ingannarvi con esperienze inautentiche in quanto non passate attraverso il mio io, oggi. La cultura è vita e può essere tramite di felicità, nel senso di pienezza dell’io. Ma perché ciò sia, deve essere intrisa di emozioni. Un insegnamento che non passi attraverso le emozioni non è tale, né per il docente né per il discente, di certo in base alla mia esperienza.
La strada, allora. Può anche esser storta, l’importante è sia la mia. Cioè quella da me vista e prescelta. Non per un colpo di fulmine, che pure è un evento che potrei augurare a tutti nella vita, ma per una scelta convinta, compiuta con adesione di tutti voi stessi. Smettetela di essere a metà, provate a essere tutti in un punto, non chiusi e circoscritti, ma aperti, ricettivi, vitali e partecipativi.
Guardate nell’abisso, senza paura che lui voglia contraccambiare guardando dentro di voi. Non c’è niente di peggio di una paura preventiva, che ostacoli qualsiasi agire. D’altronde, è anche possibile che, persino nei momenti di maggior ambasce, qualcosa di inatteso sopraggiunga a regalare sollievo a un animo disposto a sentirlo. Come nel racconto zen in cui un uomo, inseguito da una feroce tigre, cerca di sfuggirle calandosi in un aspro burrone. Resta attaccato a un cespuglio, mentre la belva dall’alto lo osserva e, dal basso, un’altra tigre si avvicina guardandolo con interesse. Sopraggiungono anche due topi che iniziano a rosicchiare il cespuglio al quale lui si sta fortunosamente tenendo. In questo frangente disperato, il suo sguardo si posa, a poca distanza, su una magnifica, succosa fragola appena maturata. Senza esitazioni, l’uomo distacca una mano dal cespuglio e la tende verso il frutto, per poi mangiarlo con assoluto godimento. Con assoluto godimento, fra tigri che ti attendono, topi che rosicchiano. E tu, tu, solo tu, che sai vedere la fragola cresciuta per te e trovi la forza di afferrarla e mangiarla.”
“Grazie professoressa, ha detto la sua.” Dice il preside mentre Angelo batte le mani forsennatamente, ha sempre le mutande in testa e sembra decisamente fatto. “Adesso tocca a me. “ E sfodera il Libro delle Rivelazioni (così decifro sul frontespizio). “Inizio da quella che, gerarchicamente, è di sicuro la principale responsabile delle infrazioni, ossia lei, professoressa Valfré. D’altronde l’ha ripetuto lei stessa, oggi voglio commettere due trasgressioni, insieme a quel Dante che non voglio ancora sapere chi sia, almeno per ora,  ma suppongo un individuo senza portfolio delle competenze e ignaro delle regole della nostra scuola, chiaramente indicate e condivise nel nostro POF  o PTOF, che dir si voglia. Certo, nel suo discorso sono risuonate alcune considerazioni interessanti, che però  non posso dire di aver capito. Che l’anima rutti, ad esempio, mi sembra insostenibile e l’invito a essere tutti in un punto non riesco a ritenerlo vantaggioso: si starebbe stretti e la Regione ci ridurrebbe i locali, sistemandoci in un sottoscala del condominio di fronte alla scuola. Insomma professoressa, ritengo che lei possa magari suggestionare quattro ragazzotti in classe con i suoi discorsi enfatici, ma da parte mia la ritengo un soggetto da sottoporre a test alcolemico. Il mio libro delle rivelazioni parla chiaro: "Il docente del XXI secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di qualità didattico-disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista che deve saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola autonoma, contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e impegnarsi nella manutenzione delle proprie competenze". Questo l’ha scritto la Fondazione Agnelli, non so se mi spiego, che ha perfettamente inquadrato il suo tipo: lei non è una professionista, non partecipa alla collegialità della scuola autonoma, e scommetto che non saprebbe assolutamente dire come si possa impegnarsi alla manutenzione delle proprie competenze. In sostanza lei va rieducata. Voglio essere concilante. Le propongo una settimana di flipmaster, che sicuramente capovolgerà la sua visione delle cose. Si tratta di rovesciare la sua prospettiva sulla scuola, che è evidentemente sbagliata. Inoltre le propongo un corso di digitalizzazione. Non si tratta di una pratica sessuale, ma di capire che i ragazzi vanno battuti sul loro terreno, conquistati con le loro stesse strumentazioni. Li faremo giocare al videogame col latino, la piattaforma ideale si chiama Alatin, spara al caso, metti il naso nel genere, usa la platform, il latino in un app, ludus in fabula e quant’altro.
Mi sembra decisamente alterato in questo suo esaltare la didattica innovativa, e sento il bisogno impellente di andare in bagno, così  esco dalla presidenza. Mi intrattengo un poco, circa cinque minuti, e quando torno mi attende una nuova sorpresa. La presidenza è vuota. Vuota in modo preoccupante, vuota in modo totale. Nel senso che non solo non ci sono Angelo, la Valfré, il preside, ma nemmeno i mobili. Una stanza vuota, senza mobili e senza poster o quadri alle pareti. Non dà l’impressione di essere stata un tempo adibita a qualche uso, sulle pareti non ci sono segni. Le pareti sono intatte, ma non come se fossero state appena imbiancate.
Mi sento svenire. E contemporaneamente inizio a avere delle visioni. Come quando ero bambino febbricitante e mi apparivano massi come pulviscolo atmosferico. Pesantezza e leggerezza fuse insieme, ossimori impietriti, volanti nell’aria, minacciosi e pregnanti. Cosa mi volevano dire quelle inanità massicce, cosa mi vogliono dire, ora, queste stranezze che stanno accadendo nella scuola dove ho perso tempo per cinque anni.
Perso tempo.
Mentre sto scivolando lentamente a terra sento che mi si sta per rivelare qualcosa di nuovo. Sento di essere vicino a qualcosa. Mi abbandono a attendo, quietamente, che il mio destino si realizzi.


























EFFETTI FUTURISTICI






Quando il bambino era bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino era bambino, | non sapeva d'essere un bambino, | per lui tutto aveva un'anima | e tutte le anime eran tutt'uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente aveva un'opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, | e di colpo sgusciava via, | aveva un vortice tra i capelli | e non faceva facce da fotografo.

Il film di Wim Wenders in cui risuonano questi versi di  Handke l’avevo visto circa tre volte. La prima volta avevo pianto. Avevo otto anni, ed era stata mia nonna a farmelo vedere. Nella sua stanza dei ricordi, dei sogni e dei manufatti c’erano anche un lettore dvd e un computer. Mia nonna sapeva utilizzare entrambi senza difficoltà e amava farmi vedere film. Truffaut, Kieslovsky, Malle, Hitchkock, Tim Burton, Herzog, Wenders  li ho conosciuti tutti grazie a lei. I giorni del cinema erano quelli in cui si capiva che non aveva voglia di parlare. Le succedeva, ogni tanto, un poco più negli ultimi anni. Una bella torta alla marijuana, mi diceva negli ultimi anni. Preparami una bella torta alla marijuana. Così muoio senza accorgermene, senza soffrire e far soffrire: tu ti fai una canna e io me la mangio tutta, la mia torta, ci teniamo per mano e  ci salutiamo così. Come se stessimo traducendo insieme Boezio o scendendo a rotta di collo da una montagna facendo scialpinismo. Ecco, mia nonna com’era.
Dunque Wim Wenders mi voleva dire qualcosa. Perché il deliquio in cui caddi verso le nove di sera del 12 agosto 2015 era esattamente la parte introduttiva del Cielo sopra Berlino. E io ero un Angelo. Anzi, ero Angelo. Perché evidentemente si era prodotta una sintesi fra me e il mio bidello preferito, nonché tra me e il grande Lebovsky dei fratelli Coen. La faccenda si faceva complessa e sembrava esserci lo zampino di uno scambista di nomi. Insomma, che parentela poteva esserci fra me, Guido Coppi, studente del Regio Liceo Classico Blablabla di Qualsivoglialuogo, il bidello Angelo Barti, assunto a tempo indeterminato presso il medesimo Liceo, l’interprete già citato dei fratelli Coen e Bruno Ganz, l’angelo Daniele del film di Wenders?
A rispondere alla mia domanda, i fotogrammi che iniziarono a diventare sempre più chiari nella mia mente, finché venne quello che intitolerò























IL TEMPO DELLE VISIONI

Rumore di sedie e di chiacchiere. L’aria è troppo chiara per una sera d’estate, dev’essere un altro momento, un’altra stagione, forse un altro luogo. In effetti, quella che ora percepisco, uscendo da una sorta di torpore,  è una sala grande, con finestre ampie che guardano verso un parco. Alberi alti e montagne in lontananza. Intorno a me, che come al solito non so chi sono, tante persone che chiacchierano. Mi metto in ascolto e cerco di capire.
“Sono stati insopportabili tutta la mattina, non so come faccia la Valfré a dire che siano simpatici. Sono i suoi cocchetti, d’accordo, ma a me sembra che anche con lei facciano un casino della madonna”. “Sì, ma lei non lo ammetterà mai, ha un rapporto sentimentale, è la loro rovina”. “Sì, è vero, è dalla seconda che praticamente non permette che nessuno venga bocciato: con due materie come le sue, il peso si fa sentire”. “E i genitori sono tutti dalla sua parte, naturalmente, ascoltano solo lei, come peraltro i ragazzi: è comodo avere un’insegnante così”.
“Iniziamo il collegio, adesso passerà il foglio firme”.
“Primo punto all’ordine del giorno: il piano dell’offerta formativa del nostro liceo. Il Pof che d’ora in poi dovrà essere denominato Ptof, piano triennale dell’offerta formativa. La professoressa Cavicchioli ci presenterà il lavoro prodotto dalla commissione Ptof, già Pof, che ha lavorato intensamente per tre mesi al fine di produrre quello che ora anche voi potrete vedere. Poi spero che si apra una proficua discussione in merito.”
La professoressa Cavicchioli  si avvicina al tavolo della presidenza e impugna il microfono con aria decisa. 
Quel che segue è un insopportabile sproloquio, con tanto di prolissa illustrazione d’un power point di 89 slides, il cui contenuto effettivo si potrebbe riassumere in un rutto e in una scorreggia, ma per obbedire a impellenti urgenze di verbalizzazioni si può onorevolmente così  sintetizzare (l’Uso delle Maiuscole, da Questo Momento in poi obbedisce a URGENZE FUTURISTE, così pure la spaziatura, la sintassi e quant’altro di GRAMMATICALE e di TIPOGRAFICO  vi sia sulla carta).

Il Regio Liceo Classico Blablabla ha quale motore propulsivo
.ocittadid oppulivs e acrecir id oppurG ourgnoc nU
Si propone, come attività qualificanti di

PREDISPORRE oiggarotinom id inoiza volte a evidenziare necessità e criticità.

Qui viene il bellissimo, il discorso si fa profondo [è una voce fuori scena, non si sa da dove venga, ma questa è una visione di Guido Coppi che si è fatto un bel po’ di canne e non sa neanche bene dove sia e chi sia, quindi tutto può essere accettato]

Obiettivi trasversali cognitivi Competenze, eznecsonoc e abilità che si intendono perseguire a ollevil di ogni singolo Consiglio di classe (come da normativa sul biennio: competenze per gli assi culturali).
Competenze: acquisizione di una progressiva autonomia di lavoro.
Abilità:  capacità sia orale sia scritta di esporre correttamente i contenuti utilizzando il linguaggio specifico delle diverse discipline; potenziamento delle capacità logiche e creative.
Conoscenze:  acquisizione di un corpo di conoscenze sistematiche nelle diverse discipline e in interazione tra loro.
Arrivato al punto delle conoscenze, a sentire parlare di un corpo  e di interazioni, inizio ad avere delle esperienze psichedeliche. Penso che il mio pusher preferito questa volta mi abbia rifilato qualcosa di trattato, ma mi sembra un buon trip (che parola del cazzo) e mi lascio andare. Sento alcuni titoli di progetti:

- Scivolare non significa cadere. Modulo di tre-quattro incontri sulla pista di pattinaggio su ghiaccio, durante le ore curriculari di Scienze Motorie; uscita di una giornata in montagna per verificare il trasferimento delle abilità in situazione naturale: pattinaggio sul lago ghiacciato e sci di fondo.
 - Remare a scuola. Modulo di tre sedute di canottaggio presso il circolo Canottieri Lucilia, durante le ore di Scienze Motorie, per test al remoergometro e uscite su imbarcazioni di punta e di coppia a quattro e partecipazione libera ad attività pomeridiana con gara finale; uscite in canoa canadese e kayak presso il circolo Amici dell’acqua,  attività di rafting su acque vive.

Quando sento remare a scuola mi viene una crisi di riso. Tanto sembra che nessuno si accorga di me e posso persino buttarmi a terra e rotolarmi, nessuno mi guarda. Inizio a capire perché la professoressa che non ho mai avuto manifesti una crescente insofferenza nei confronti dell’istituzione di cui fa parte, sia pur egregiamente (ossia stando perfettamente fuori dal gregge). Come si fa a scrivere seriamente amenità di questo genere, in un linguaggio tanto altisonante quanto, una volta di più, vacuo. Penso ai miei cinque anni e alle competenze che posso dire di aver raggiunto grazie alla scuola (consideratelo il mio port-folio):

stare seduto per cinque-sei ore di fila su una sedia senza cadere;

ascoltare coglioni e coglionesse (c’è nel PTOF anche una parte sul linguaggio di genere, le lesbokitty proliferano,  e io voglio essere politically correct) senza che dalla bocca o dallo sfintere esca alcunché;

resistere a impulsi naturali quali dormire, mangiare, bere, masturbarmi per più di un’ora per volta;

accettare che moltissimi argomenti che mi interessano vengano bistrattati e deturpati da cervelli completamente refrattari al sapere;

simulare l’apprendimento forzato e dissimulare l’amore vero per il sapere: Machiavelli sarebbe stato poco fiero di questa distorta applicazione dei suoi insegnamenti.

Ma basta, non voglio ripetermi.
Mi riprendo a poco a poco, mentre le parole continuano a  capovolgersi e a ruotare. Davvero l’effetto futurista, nella visione che ho, è degno di una sostanza psichedelica. Mentre la Cavicchioli (l’australopiteco, per intenderci) parla, io vedo le lettere vorticare colorate nell’aria. Competenze, abilità, conoscenze, sistematicità, linguaggio specifico e potenziamenti si congiungono gioiosamente, con  facce beffarde e un po’ lascive, e tutto senza che gli astanti battano ciglio. Anzi. Gli astanti ascoltano, certo senza sentire, alcuni con aria distratta, altri con aria compunta. 
All’improvviso, così com’è iniziata, la visione svapora. Mi ritrovo sul pavimento della presidenza in posizione fetale. Sono dietro alla scrivania, la stanza è di nuovo arredata. Si direbbe che niente, quando la scuola è chiusa e inaccessibile a tutti, riesca a stare al suo posto. Penso che possa essere un segno di consapevolezza, da parte sua, e mi rendo conto di star pensando alla scuola, alla Mia Scuola, come fosse un organismo vivente. La sto personificando, come la casa di Monster House, che contiene l’anima di una donnona triste e gelosa, che si sente tanto amata da un solo uomo al mondo e per questo divora tutto quello che le capita a tiro, in particolare i bambini e i loro giochi.
Ecco la Mia Scuola è proprio così. Un mostro che divora la gioia di vivere e di imparare.
“Adesso stai esagerando.” Sento dire nell’aria e mi vien da pensare di essere Pinocchio e che la voce sia quella del Grillo Parlante.
Invece è la mia professoressa inventata, la protagonista della mia erotica recalcatiana, rientrata chissà da dove e, come al solito, perfettamente al corrente di quello sto leggendo o pensando, come poco prima con le letture dal cassetto dei segreti.
“Esageri perché non è assolutamente vero che in questi anni è stata la scuola a divorare la tua gioia di vivere e di imparare. Sei stato tu a diventare sordo e ottuso, non so bene per quale rivolta interiore, ma di sicuro ricordo bene quando è accaduto”.
“Se è così, perché non me lo spiega?” Mi sento dire con un po’ di sbalordimento: non mi sono mai rivolto a lei con un tono così arrogante, nemmeno quando i nostri rapporti sono diventati effettivamente un po’ tesi.
Lei non si cura del mio tono, viene a sedersi a gambe incrociate (deve avere sangue hippy nelle vene, a dispetto di come si veste, da signora radical chic, purtroppo, colpa mia) vicino a me, si rolla una canna (un’altra, mi vien moralisticamente da pensare, sono quasi preoccupato per lei) e inizia  parlarmi con grande calma.
Il problema è che deve esserle successo qualcosa al cervello, oppure è successo a me, perché non riesco a capire una parola di quel che dice. Un po’ come Dante quando incontra Cacciaguida. Sento i suoni, l’intonazione sembra quella di un discorso pacato e intelligente, talvolta afferro una parola comprensibile, ma l’insieme che colgo è pressapoco questo:
“ L’oprazione grandisonante si turbola sempre. Non si previa l’orizzonte, non si grandola il mirto e nemmeno si visioprinzia l’astrogolo. Combaciare gli arzingoli spericordia pochi cistupoli, benché non saprivanti il gallo e proprio perché la risporia cispa”.
Va avanti per un bel po’ di tempo, dicendo (così pare) molto più di quello che ho qui annotato per dare un’idea dell’effetto sbalorditivo su di me della faccenda. Mi sembra che gli eventi stiano prendendo una piega che non avevo assolutamente presagito. Mi viene in mente di controllare l’ora e all’improvviso la professoressa riprende a parlare in modo intelleggibile.
“Hai fretta di andartene? Sono le nove e mezza, abbiamo tutta la notte da passare qua.”
Trasecolo: ha parlato al plurale. Quindi si sente coinvolta nella mia operazione di svelamento del reale, nel mio progetto di desacralizzazione (o sacralizzazione) del turpe recinto, non più sacro da centinaia d’anni?
Mentre esito a chiederle informazioni in merito, cioè se intenda restare con me tutta la notte sul serio,  arriva di nuovo Angelo. Questa volta barcolla decisamente, ha l’occhietto lubrico ed è preoccupantemente paonazzo. Sulla testa continua ad avere gli slip di pizzo, che gli danno un’aria interessante da pirata. Si avvicina a noi e si mette a declamare quella che parrebbe essere una poesia di sua invenzione. L’effetto è quello del discorso della mia professoressa, capisco qualche parola qua e là, colgo un sentore tra il pascoliano e il montaliano, ma  il mio cervello è palesemente prossimo al tracollo.
“MIRDAMARE
Rizzola, sul gravato fesso, un caporalmaggiore.
Colate rabdomantiche, imprìme raccole,
zoccole amate.
Cosa farai, sussurra il cariovallo, dove verrai,
virbissa incomprensibile...e da lontano vidima,
l’incorreggibile sabello, mentre il vipranto
cola, cala, con ciglia finte. 

Vedi perché?

Non sai, eppur ti movi.
Mirdanni folti ti vellicano i pianti...
Riprendi il pelo, il varco non è qui
Ripullula il frangente...”

“Bravo Angelo, vedo che hai seguito il mio suggerimento di leggere gli Ossi di seppia e Mirdamare  è uno dei miei preferiti.”
La guardo per capire  se stia scherzando, ma è serissima. Anzi, prosegue imbastendo una sorta di commento del testo.
“Nessuno come Montale riesce a evocare le raccole e le zoccole con sapiente gioco incantatorio. Ti lascia sempre il dubbio che il Varco sia lì, l’anello che non tiene, ma poi i mirdanni incalzano, la verità del pelo è troppo forte, e l’onda del mare, il mare che è dentro tutti noi, travolge ogni certezza”.
Mi sembra stia dicendo un bel po’ di cazzate, ma non oso, per rispetto di volte in cui l’ho sentita parlare con cognizione di causa di svariati e complicati argomenti, dire alcunché. Poi sono improvvisamente molto stanco. Mi ricordo allora di essermi portato un po’ di coca, casomai mi fossero mancate le forze per il mio lavoro notturno. Penso  sia una buona idea farmi una sniffata, così posso procedere con la scrittura e magari chiedere un aiuto ai presenti. Vado in bagno e mi faccio due strisce.

COSA ESCE DALLE PIASTRELLE (E DALLA BOCCA DI UN DIRIGENTE SCOLASTICO CON
SLIP DI PIZZO SULLA TESTA)





Mi sono purtroppo dimenticato di portarmi un po’ di gin. Quando sniffo da solo, il gin (sostanza versatile) mi serve per  un riequilibrio psicologico,   per non dare troppo di matto: dovrò farne a meno, però decido di ridurre un poco la dose. Alla seconda  e ultima striscia inizio a sentire dei rumori. Prima confusi, poi sempre più distinti: sono due donne che stanno ridendo. Non due donne qualsiasi, riconoscerei quelle risate tra mille, dopo averle sentite varie volte in questi maledetti cinque anni. Sono le risate della vicepreside e della Cavicchioli. Si direbbe che siano a pochi passi da me, che mi sono (per abitudine e in assenza di alcun motivo, evidentemente) chiuso in un gabinetto alla turca. Riprovo di nuovo quella sensazione di straniamento che ormai sta diventando un’abitudine, sembra che l’atmosfera cambi intorno a me, spalanco la porta per uscire e mi trovo di fronte a un bagno pieno di gente. A produrre l’effetto “pieno” sono solo loro due: la vicepreside e la Cavicchioli sono davanti a me,   e quest’ultima mi rivolge uno sguardo inaspettatamente (paurosamente) affettuoso:
“Mio caro, dove ti eri rintanato?”.
Sono sbalordito e la mia espressione deve essere quella di un fesso. Poi la sento dire:
“Guarda che hai uno sbaffo di coca sulla guancia” (e ride come una pazza).
Il rilievo mi sembra del tutto fuori luogo. Non è questa una battuta da lei, che è una terribile bacchettona, una Donna Prassede, sia pure con quelle crepe che hanno solitamente personalità di questo genere, dalle quali ci si immagina che da un momento all’altro fuoriesca qualche abominio, una perversione o chissà che altro. In effetti è possibile che nella Scuola Mostro si manifestino le verità delle persone che vi transitano durante il giorno, anzi, che sia un effetto della pausa estiva quello di produrre uno svelamento totale delle verità mai manifestatesi apertamente. Mentre nella mente mi frullano questi pensieri, vicepreside e Cavicchioli si avvicinano in modo preoccupante, come se volessero perquisirmi, poi si strizzano l’occhio e riprendono a ridere come pazze. “Ma lo sai che hai un’aria proprio buffa” dicono quasi in coro “vien voglia di accarezzarti come fossi un gattino tenero”. Un sesto senso mi dice che queste due sarebbero inclini a mettermi la mano nei pantaloni, a giudicare dal punto in cui entrambe dirigono gli sguardi (non avevo mai notato che la Cavicchioli avesse gli occhi azzurro-verdi, sotto la fronte da australopiteco), sicché decido si uscire di corsa, anche perché l’esperienza m’insegna che uscire dalle porte in genere rimette le cose a posto.
La speranza si realizza, appena uscito tirandomi la porta dietro, piombo nel corridoio buio, come dev’essere vista l’ora, e mi dirigo di nuovo verso la presidenza dove ho lasciato la mia unica fonte di luce (una lampada schermata che a questo punto dovrò tenere accesa, per portare avanti il mio lavoro di scrittura).
In presidenza intanto la situazione si è animata. È tornato anche il preside, che, a quanto pare, sta tenendo un discorso. Per essere più autorevole è salito in piedi sulla scrivania. Non mi stupisce più di tanto che sia a piedi nudi e abbia in testa un paio di slip neri identici a quelli che sfoggia Angelo (si vede che nel cassetto ce n’erano parecchi). Anche lui, ora, sembra un po’ a un pirata, per quanto l’aria ingegneresca nemmeno le mutandine così impropriamente indossate riescano a occultarla del tutto. In ogni caso vengo immediatamente catturato dal suo discorso, che è piuttosto lungo e  suona pressapoco così:

L’inizio di questo discorso era, fino a questa sera, alla fine. Poi mi è venuto l’impulso, l’estro, di fare una capriola. Come Dante (che sarà una presenza fondamentale) al fondo dell’inferno per poter vedere le stelle. Al fondo del discorso c’era questa memoria redatta dalla Fondazione Giovanni Agnelli per l'audizione sul Ddl 2994 di Riforma del sistema di istruzione e formazione", 7 aprile 2015, che recita così: "Il docente del XXI secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di qualità didattico-disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista che deve saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola autonoma, contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e impegnarsi nella manutenzione delle proprie competenze". La pongo all’inizio, facendo appunto una capriola, perché è importante voi sappiate una cosa: oggi, adesso, vi parlerà qui un appassionato affabulatore, non necessariamente erudito, non in possesso di qualità didattico disciplinari innate straordinarie, ma certo non un aziendalizzato professionista, non uno impegnato nella manutenzione delle sue competenze”
A questo passaggio, devo annotare, Angelo e la Valfré prorompono in uno sfrenato applauso. Io sono basito. Mi rendo conto che sta accadendo qualcosa di eccezionale. Il burocrate maniaco compulsivo di chiamate alle forze dell’ordine, l’ingegnere che io mi son sempre  figurato più o meno analfabeta, mostra di avere ampi orizzonti culturali, e sta pronunciando un discorso nel quale prende posizione contro l’aziendalizzazione della scuola, la sua definitiva trasformazione in un meccanismo di appiattimento degli intelletti, e contro la mistificante  valorizzazione delle eccellenze. Val la pena che lo ascolti.
L’analogia fra scuola e carcere non è nuova. Se è vero, come scriveva Dostoeskij, che il grado di civilizzazione di un paese si misura dallo stato delle sue prigioni, è anche vero che luoghi che dovrebbero collocarsi ai loro antipodi sono le scuole. Su entrambi i fronti la nostra società è fallimentare e il suo grado di civiltà può essere considerato vicino allo zero: dietro al muro della prigione, succede di tutto, tutto quello che noi stentiamo a immaginare o, comunque, non vorremmo mai vedere. D’altro canto, possiamo dire unitamente noi, intendo studenti e alcuni insegnanti insieme, oltre a dirigenti scolastici che io in questo momento rappresento,  l’organizzazione scolastica è  rimasta nel tempo, dal Settecento (quando se ne lamentavano gli illuministi) a oggi sostanzialmente invariata, plasmata su un modello carcerario, fatto di campanelli che scandiscono l’andamento della giornata, di costrizioni del pensiero e dell’immaginazione che invece lo studio dovrebbe stimolare e alimentare per aiutare a essere persone, cittadini attenti, vivaci, profondi, interessati agli altri, al mondo a se stessi nel modo più proficuo per sé e per gli altri. Delle zone temporaneamente autonome, frutto della teorizzazione di Hakim Bey, voglio dire solo quale sia  l’essenza: sono spazi in cui i pacefondai creano possibili felicità. Sono luoghi in cui il corpo, il pensiero e la parola rappresentano un circuito integrato, sensitivo, forse sensuale,  in grado di impegnare la totalità dell’essere: esperienze olistiche, per riassumere.
Ma adesso voglio fare un’altra premessa. Voglio condividere con voi una mia passione.

Gesù, intanto penso io, cosa sta succedendo. Il burocrate ha proprio subito una metamorfosi sostanziale: è diventato un cultore del pensiero anarchico di matrice sessantottina. Non solo cita Hakim Bey, ma dichiara di nutrire passioni e di volerle condividere. Dovrei applicarmi a capire come questo possa essere successo, ma è meglio continui a concentrarmi su quello che dice. 
“Cosa ci volete fare se avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti, all’improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste d’un tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi bruciasse dentro, spandendo una pioggerellina di scintille in ogni intima fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi?” Leggo sempre questo stralcio dal racconto della Mansfield, quando voglio parlare di felicità.

Santoddio, non posso fare a meno di intervenire mentalmente, legge pure la Mansfield quello che pensavo avesse lo sfintere al posto del cervello: che bello potersi stupire ancora.

Non solo per la diretta pertinenza del titolo, ma proprio per questo singolo periodo, che mi piace recitare come un mantra, la parola sanscrita che significa preghiera nella filosofia buddista. Luce che brucia intensamente, pioggia che pervade ogni intima fibra, nessuno spazio vuoto, pienezza dell’io, carpe diem correttamente inteso. La felicità ha dunque a che vedere necessariamente con la libertà interiore, e anche  l’arte,  nelle sue svariate declinazioni, certo non ne può prescindere. Anzi, lei ha sempre bisogno di libertà e in tutte le occasioni storiche in cui questa sia venuta meno, per ragioni politiche o per via di decadenza culturale, ha subito arresti di sviluppo,  stagnazioni.
 Si potrebbe pensare che la libertà interiore sia inattaccabile, che il ferro rovente del controllo, della censura, non possa addentrarsi nelle pieghe dell’anima, ma è facilmente dimostrabile che questo non è vero. Tant’è, che nel Novecento artisti italiani, tedeschi, dell’Unione Sovietica sono emigrati dai loro Paesi all’interno dei  quali vigevano meccanismi di controllo autoritario della cultura, per cercare altrove possibilità di esprimersi. Altrove. Ecco un punto che non toccherò direttamente oggi, ma resterà in controluce: dove potrebbe essere l’altrove in cui scappare, oggi, per trovare la libertà che cercavano lo scrittore Thomas Mann in fuga dal totalitarismo hitleriano o  il violoncellista Rostropovich da quello sovietico. Forse l’altrove sono le zone temporaneamente autonome.
Adesso però basta. Ora inizio sul serio.
Che noia il paradiso. No, non quello di Dante, non la III cantica che secondo Croce non sarebbe stata poetica. No, sono convinto che nel Paradiso di Dante ci sia tanta poesia, e che da questo non possa sortire noia,  come è facile  dimostrare recitando un paio di terzine, magari non del tutto a caso: (canto XV)

Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; 33

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.

Sì, non del tutto a caso: gli occhi sono importanti. Ma prima c’è la questione della noia. La noia del paradiso è l’eterna beatitudine. Quella pretesa che si possa trovare felicità nell’essere in stato di quiete, nell’assenza di desideri, nella luce eterna. Nello sguardo rivolto eternamente all’Uno. E noi? Noi lì da chi verremmo guardati? Perché, è inutile,

“tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico. [...] La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti [...] C'è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata [...] E c'è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.”

Voglio oggi evocare, sotto lo sguardo di persone assenti, di sognatori di ieri e di oggi, morti, vivi, mai nati, sognati da qualcun altro, un paradiso non di luce, non di sorrisi, ma pieno di ombre sinestetiche, ombre dall’eco oscura, che immagino collocate nel quinto cielo, quello di Marte, degli spiriti battaglieri, gli spiriti indomiti, abitati da quello di memoria giovannea, spiritus ubi vult spiratmai disposti a guardare in un’unica direzione, fosse anche quella in cui si trova “colui che tutto move”, l’eterno, colui che non può essere circoscritto.
 “Io odio a morte tutti coloro che si son composti e quasi automatizzati in un dato numero di pensieri e di movimenti, paghi, tranquilli e sicuri d'aver capito il congegno dell’universo, di aver trovato la chiave per caricarne o scaricarne le molle, per regolarne il registro. Io li chiamo conclusioni ambulanti. Vogliono vedere in tutto, trarre da tutto una conclusione, dalla storia antica e moderna, da ogni avvenimento, da ogni piccolo incidente. Amo invece ed ammiro le anime sconclusionate, irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, di irrigidirsi in questa o in quella forma determinata.” 
Sì anche Pirandello ce l’ha col paradiso, e io con lui. Non è a quello di Dante che pensiamo, che emozione parlare al plurale di me e di Pirandello, mio unico nume tutelare originario, nella dimensione letteraria intendo, ma a quel paradiso di cui dicevo all’inizio, quello stato di quiete, quell’assenza di desideri, quell’uniformità agghiacciante, quel mondo globalizzato, dove la democrazia ha diffuso la schiavitù e le multinazionali hanno creato per noi una facciata comoda di consumi dietro alla quale, edizione a nostro uso e consumo di matrix, si cela un vero e proprio marasma commerciale. E allora non c’è che cercare le zone temporaneamente autonome, gli spazi di felicità possibile e persino probabile che esistono al mondo.





























IL TEMPO DEGLI SCAMBI





Rimango steso al suolo per un po’. Il burocrate a piedi nudi con mutande di pizzo sulla testa, il pirata libero di solcare il mare, ha pronunciato un discorso culturalmente orientato, ha trasmesso un’idea di scuola, di conoscenza, di sapere. Ha citato praticamente tutti i miei numi tutelari, in letteratura e in altri ambiti,  ha introdotto riferimenti pertinenti alla rivoluzione zapatista. La sua metamorfosi regge quasi il confronto con  l’invenzione ovidiana di  Mirra albero incinto. Per questo rimango schiantato al suolo. Sono curioso di sapere come la prendano Angelo e la Valfré, ma mi basta poco per rendermi conto che si è di nuovo prodotto il fenomeno. Sono tutti scomparsi. I mobili no, questa volta, l’arredo è rimasto fermo, ma nella presidenza ci sono solo io, con la mia lampada, steso a terra nella penombra e nel silenzio. Controllo l’ora: le 11 e mezza. Almeno il tempo sta procedendo normalmente, anche se capitano più cose in questo posto vuoto, che quando è pieno di gente.
La stampante parla di nuovo e io mi ritrovo a leggere un messaggio.
Pratica le profondità del tuo io, cerca di essere integralmente presente nel qui e ora, ascolta la voce del desiderio di apprendere, ama l’intero processo nel quale sei coinvolto, storna l’attenzione dai risultati che non possono essere l’esclusivo motivo della tua applicazione, ma uno dei tanti e nemmeno il più importante.  Un insegnante che prenda le tue misure e niente altro potrebbe essere un computer: certo, un sistema meritocratico  lo promuoverebbe insegnante dell’anno e gli assegnerebbe un posto dirigenziale, sollevandolo dall’insegnamento.
Le grandi opere, le grandi scoperte sono sempre frutto di un incrocio fra  “due culture”: è l’orizzonte che deve essere unitario. Analogamente è molto rischioso ascoltare le sirene incantatrici che innalzano i loro richiami al  dominio quasi esclusivo della contemporaneità: se ci lasciamo schiacciare sul piano del presente, in una sorta di Flatlandia dello spiritooltre a perdere ogni prospettiva critica sul medesimo, rischiamo di non riuscire nemmeno a metterlo a fuoco con precisione. La cultura umanistica può aiutare, a partire dalle urgenze poste dall’attualità, a riannodare il filo fra passato e futuro.
 Senti l’atavico istinto che dovrebbe portarci a uscire dall’addomesticamento e ritrovare uno spirito che è esistito e molti di noi hanno ancora in se stessi: è un istinto rivoluzionario, nonché trasgressivo. Alludo alla trasgressione che è insita nella poesia, nella letteratura, quella che sposta lo sguardo, fa assumere continuamente nuove prospettive, riesce a creare nuove forme, porta fuori dai propri angusti confini, fa sperimentare la libertà, accende gli sguardi, riempie i cuori, non addormenta gli spiriti, rende le aule luoghi aperti al mondo, nel passato, nel presente e nel futuro.
Allora non c’è che sognare. E il mio sogno è un sogno del passato, del passato recente, in verità. La tesina del mio esame.







LA MIA TESINA D’ESAME DI STATO






L’ultimo pensiero uscendo di casa è una speranza: che  capiscano cosa voglio dire  con la mia tesina. L’ho meditata a lungo, poi l’ho scritta di getto un caldo pomeriggio di luglio, due giorni prima dell’orale. Ho preparato anche un power point da scorrere mentre parlo, per riuscire a comunicare più cose.  Ora ce l’ho tutta ben scalpellata (in testa, per fortuna) e sono anche sicuro di me. Non sono però sicuro di loro, ossia dei miei sapienti ascoltatori. Comunque, penso ancora, una possibilità occorre pur dargliela: una volta, nella vita, ascoltare qualcosa di vero. E allora, ecco il mio reality.
Arrivo a scuola in uno stato quasi euforico. Non c’è nessuna sostanza di mezzo, faccio tutto da solo. Me l’ha insegnato sempre mia nonna, questo, che è possibile arrivare a essere strafatti per pura esaltazione interiore. Mi sono sniffato l’anima, fumato il cuore, e adesso ascoltate quello che ho da dirvi.
Nell’aula sudata chiedo di restare solo io con i miei esaminatori. I miei amici lo sanno e mi aspettano fuori.
Il protocollo iniziale lo vivo in uno stato di semiincoscienza, mi sto già preparando al discorso, capisco di poter iniziare alla frase del Presidente di commissione, un vetusto babbione autocompiaciuto della propria conoscenza del latino, che mi ricorda il tempo a disposizione: 10 minuti.
Il candidato può iniziare.
Bene, non ho bisogno d’altro.
“Il titolo della mia tesina è I maestri senza luce. Mentre parlerò farò scorrere in queste slide che ho preparato i testi di due canzoni, che mi sono sembrate pertinenti all’argomento  sviluppato. Una veloce analisi di entrambe rappresenterà il mio punto di partenza.



prima slide
Giorgio Gaber, I padri miei, da Polli d’allevamento, 1978-1979
I padri miei i padri che ci ho avuto io
erano seri e prudenti
gli abiti grigi i modi calmi e misurati
persino nei divertimenti.

Parlavano con le donne di casa
con quell’aria da vecchi padroni
quel tanto di distacco e di superiorità.

I padri miei appassionati di poesia
nei loro antichi appartamenti
sotto le lampade di vetro a sospensione
dietro discreti paraventi

Parlavano e discutevano
come vecchi europei ammuffiti
imprigionati dal glicine e dalla stupidità.

Dal 1979 a oggi sono trascorsi 36 anni. Un tempo sufficiente perché i padri miei che Gaber evoca siano diventati quasi centenari, nonni o bisnonni per uno della mia età.  Persone serie e monolitiche, poco disposte al confronto e al cambiamento, convinte di aver già fatto tutto loro (la guerra, la resistenza, la ripresa con le maniche rimboccate) e di doversi solo aspettare di essere rispettati e obbediti. Diventati statici e ammuffiti, con un glicine intorno che rischiara ma non disperde la certezza di una  stupidità, fors’anche contagiosa. Quei padri stavano lavorando per il mantenimento di uno status quo, quello che avevano deciso loro, i cui capisaldi conoscevano perfettamente e che ritenevano giusto trasmettere ai loro figli. Democristiani, liberali o comunisti che fossero, erano squadrati e prevedibili, come una medicina accompagnata da foglietto illustrativo, in cui vieni informato anche di tutti gli effetti collaterali.
Seconda slide
I padri miei i padri che ci ho avuto io
in un’Italia un po’ strana
non han potuto fare a meno di sognare
l’Africa orientale italiana.

Nei padri miei c’è un'aria che assomiglia
alle foto dei vecchi bersaglieri
che mostrano a colori la loro dignità.

I padri miei non ispiravano allegria
chiudevano le porte a tutto
e per i giovani vivaci  esuberanti
non avevano nessun rispetto.

Punivano e perdonavano
come vecchi maestri di scuola
suggestionati dal cuore
e dalla moralità.

Ma avevano una certa consistenza
e davano l’idea di persone
persone di un passato
che se ne va da sé.

Nella prevedibilità di quei padri antichi, per uno della mia generazione,  è contenuta una facilitazione: conosci il tuo interlocutore e puoi opporgli resistenza, in ogni caso. Conosci il tuo nemico, e puoi combatterlo. La consistenza è importante, anche se si accompagna alla mancanza di rispetto, del quale si può fare a meno, soprattutto se non si intende a propria volta provarlo. I figli (miei padri) di questi soggetti non avevano molto spazio comunicativo, in molti casi, ma sapevano con chi avevano a che fare: se di nemico si trattava, era un nemico visibile, non un ultracorpo mimetizzato, non un metamorfico e subdolo virus.

Terza slide
I padri tuoi i padri tuoi
i padri come potrei essere io
non sono austeri e riservati
si vestono più o meno come noi
sono padri colorati

I padri tuoi si sentono vicini ai tuoi problemi
parlandone così da pari a pari
senza fare i signori senza falsa dignità.
I padri tuoi

di cosa mai li puoi rimproverare
non certo di un’assurda incomprensione
nemmeno di cattiva educazione o di abuso di potere

I padri tuoi
che sembrano studenti un po’ invecchiati
non hanno mai creduto nel mito
del mestiere del padre nella loro autorità.

 Sì, padri colorati, padri che non si possono rimproverare perché non ti sgridano mai, o poco, o per niente autoritariamente e di rado autorevolmente; non abusano di potere perché non ne hanno, neanche su se stessi. Non sanno più chi sono, non hanno più miti, non hanno certezze e ci guardano come fossimo loro coetanei, trasformano la loro invidia per la nostra forza, per la nostra giovinezza in un’autocompiaciuta assoluzione. Stolti e impotenti.

Quarta slide e Quinta slide
I padri tuoi nel ruolo di moderni animatori
son tutti diventati libertari
collezionano invenzioni innovazioni e attualità
[...]

I padri come potrei essere io
come potrei essere io
come potremmo essere noi
spalanchiamo le porte a tutto
per il progresso del mondo

Noi che non siamo certo padri fascisti
padri autoritari
liberi e permissivi
non rappresentiamo vecchie istituzioni
spalanchiamo le porte a tutto
per il risveglio del mondo

Noi così impegnati così pieni di rigore
allegramente noi compriamo
biciclette da cross per i nostri figli
spalanchiamo le porte a tutto
per l’esultanza del mondo
del solito mondo [...]

Noi che continuiamo a regalare
centinaia di palloni biliardini e macchinine giapponesi
spalanchiamo le porte a tutto
per lo sviluppo del mondo

Noi che non facciamo nessuna resistenza
e che ci stravacchiamo nel benessere
e nella mascherata della libertà
spalanchiamo le porte a tutto
per il trionfo del mondo
del solito mondo del solito mondo 

Ecco l’intuizione: questi padri spalancano le porte a tutto, non c’è più filtro, non c’è più intendimento delle cose, non c’è più possibilità di scontro ma neanche di incontro. Questi padri condividono. E non c’è peggior cosa, mi viene da dire, badate, proprio a me che ho diciannove anni nel 2015, che faccio parte della generazione dei connessi, così piace dire al mainstream, non c’è peggior cosa che condividere. Questo condividere deturpato, stuprato, capovolto ma senza ironia. Un condividere che sottintende mi sto esaltando, sto parlando di me, della mia persona, del mio sentire, del mio io, dato che del tuo non me ne fotte un cazzo,  non ho nemmeno capito come sei e chi sei, se ti incontrassi fuori di qui non ti riconoscerei nemmeno, io cerco solo pezzi di specchio per riflettermi e la condivisione è questo, offrirmi e offrirti pezzi di specchio, in cui contemplarti e credere di capire qualcosa. Intanto il mondo non procede, ma si solidifica, si comprime tutto in punto, la gabbia si stringe intorno a tutti e le sbarre lasciano penetrare parole d’ordine ossessive, che allontanano la vita vera, la costringono a essere intrisa di lavoro, di orari, di obiettivi di produttività¸di qualità che rispetti le regole stabilite, di eccellenza. Ti ripetono che devi diventare competitivo, che devi superare tutti gli altri nel fare qualche cosa, qualsiasi essa sia, anche le più dozzinali, le più cretine, ma, quel che è peggio anche le più nobili e belle. L’effetto nefasto dell’addensamento di tutto, di un buco nero di cui tu sei ancora per poco un osservatore, situato in prossimità dell’orizzonte degli eventi, ma destinato presto al risucchio.
Addio luce, addio comunicazione.
Così sono arrivato al tema centrale della mia tesina. La scuola senza luce, il buco nero dell’istruzione, che chiamano formazione, crescita,  maturazione, educazione alla cittadinanza, al pensiero, allo spirito critico e quant’altro. Recitano, alcune altisonanti dichiarazioni ministeriali da me doverosamente consultate,  che la scuola avrebbe un indiscusso ruolo chiave per lo sviluppo delle giovani generazioni. Deterrebbe la responsabilità di formare persone responsabili, ricche sul piano culturale e umano, capaci di rinnovare e sviluppare sinergie nuove tra l’uomo e l’ambiente, nella prospettiva di un cambiamento sostenibile. Le giovani generazioni, declamano le medesime, detengono le speranze future del mondo. E poi proseguono a straparlare della funzione che avrebbe, secondo loro, l’arte: la forma più complessa e autentica con cui l’uomo da sempre si è espresso e ha cercato risposte. Costruire e valorizzare gli spazi artistici nella scuola è uno dei progetti di cui vanno miseramente cianciando.
Che nobili e lodevoli intendimenti. Quante belle parole, godibili solo in astratto. Ma, penso io,  occorre sempre chiedersi come e, forse preliminarmente, perché. In aggiunta, come spesso mi è venuto da dire (oltre che pensare) in questi cinque anni: di che cosa stiamo parlando esattamente?
Ecco, allora,  il momento di arrivare  ai maestri senza luce. Sì, lo vedo che vi state facendo dei cenni per dire che il mio tempo sta per scadere, ma io devo riuscire a concludere il mio ragionamento e, pertanto, fare ancora un salto nel passato lontano.
Indietro, a  recuperare Dante. C’è una terzina, nel Purgatorio, in cui si trova la radice del mio malcontento, del mio turbamento, del mio rifiuto dell’istituzione scolastica. Ed è un’immagine meravigliosa, un’immagine pregnante.

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte, 
69

quando dicesti: ’Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova’. 
72

Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.

Stazio, nel XXI canto,  rende omaggio a Virgilio per il fatto di avergli illuminato un cammino, senza trarne lui stesso giovamento, un portatore di luce immerso nel buio, non uno che condivide, per riprendere il collegamento con quanto dicevo prima, uno che apre le strade ma non lo fa preoccupandosi del suo tornaconto. Questa generosità illuminante, questo inno all’umano nella sua radice più pura è stata la mia grande illusione. Perché io sono arrivato qui, in questo liceo, pensando di trovare non una, ma diverse guide che sapessero finalmente spalancarmi orizzonti.
Invece ho trovato voi. I maestri senza luce.
E adesso siete costretti ad ascoltarmi, non potete nemmeno chiamare la polizia, anche se io adesso vi stupirò con un gesto che non avevate preventivato. Sparerò a ognuno di voi, mirando per bene alla fronte, come ho imparato a fare in giorni e giorni di allenamento con la beretta di mio padre, ereditata da  mio nonno partigiano. Ve la punterò addosso velocemente, e voi, che ancora non credete a quello che dico, non farete in tempo a reagire. Nessuno dei vostri sguardi manifesta ancora preoccupazione, e questo è molto significativo.  Siete certi di essere al sicuro, che una generazione di sdraiati, come siamo stati definiti noi, di capiti e accompagnati, di ragazzi bene che frequentano un liceo centrale di una metropoli ancora benestante, non possa avere tentazioni così estreme, non possa commettere atti  di questa portata.
Vi sbagliate, è chiaro. E ve ne dovrete rendere conto.
Ora qualche vostro sguardo è un po’ inquieto. Ma prevale l’idea che io faccia teatro, che abbia letto Il sopravvissuto di Scurati, qualcuno di voi lo conoscerà pure. Sì, è vero. Non ho una beretta nascosta da qualche parte e  sto recitando un copione già scritto. Anni di letteratura hanno operato su di me come su Emma Bovary o su Andrea Sperelli. Non mi  è facile uscire dal vortice metaletterario, evitare il citazionismo, non confondere l’arte con la vita e la vita con l’arte, purtroppo senza che lo spirito dei tempi mi aiuti come all’epoca dei decadenti. Grazie a voi, maestri senza luce, tutto è orribilmente spento. Non è possibile dire e  fare niente che non suoni stonato o già sentito. Quanto a quelli che vogliono provare a fare parodie, con una realtà  di per sé farsesca c’è poco da fare. La si riproduce e potrebbe già far ridere, non fosse appunto che è una riproduzione, le manca il pregio dell’operazione volta al riso, le manca il pregio dell’arte. Allora ecco la mia pistola, che punto sulle vostre facce ora un po’ stupite. L’ultima slide del mio power point.  Sarebbe valsa la pena animarla, ma non ho voluto trovare il tempo per farlo. Mi sarebbe parso sprecato, dato che l’avrei fatta vedere solo a voi.














 

IL DIRITTO DELL’ESSERE UMANO AL SACRO


DESIDERIO



FESTA




LIBERTÀ





Chissà cosa vi aspettavate. Vedo spuntare sorrisetti di commiserazione. Naif, state pensando, già sentito già letto già superato. Un figlio dei fiori del XXI secolo.
Sbagliato. Intanto faccio notare l’essere umano, che è di per sé un binomio pregnante. Essere umano, ovvero chi non pensa che avere sia l’unica maniera di stare al mondo. E poi umano, ossia di là dal genere, dalla determinazione forzata, radicato nella terra, nato da lì come lì destinato a tornare. Quindi il richiamo al sacro. Finalmente. Un ritorno, anche qui, alla radice, all’ancestrale. Quanto avrei voluto che qualcuno ci parlasse a fondo dei cosiddetti libri sacri. Ma non è tempo di recriminare, procedo. Nell’essere umano convivono la forza e la necessità dell’esistere, che si articolano nella mia ultima intuizione su tre piani di possibilità,  altrettanti inviti a prendere contatto con la memoria, restare vivi nell’istante, darsi l’opportunità di esistere nel futuro.
 Le tre parole d’ordine non sono in ordine. Il desiderio è una linfa che scorre ovunque, senza di lui non esiste la vita. Imparentato con le stelle, alimentato dallo sguardo che sa, vuole, decide, di volgersi nelle direzioni in cui spira anche lo spirito. Sempre in festa per non dimenticare quello che la parola significa originariamente: anche lei connessa con il sacro, quello che gli esseri umani hanno ancestralmente saputo identificare come tale. Il mondo della natura, non deturpata e asservita, non contaminata e storpiata ma accolta nel suo essere in sé, sintesi del molteplice e espressione del medesimo nella sua varietà.
La base ha da essere (unico imperativo ammesso) la libertà. Nessuno può dare ordini alla natura, nessuno può ordinare di esistere, né di desiderare, né di festeggiare. Ma coltivare naturalezza, festosità, desiderio, coltivare il senso del sacro,  è quanto io auspico per me e i miei compagni che oggi usciremo finalmente da questa prigione del pensiero, in fuga da tutti quanti voi, maestri senza luce. 




























QUESTO (E QUELLO?) ERA UN SOGNO,
ORA FINISCE DAVVERO







Sto seduto scompostamente su una sedia  a cui manca una gamba. Cerco una posizione che mi assicuri stabilità, ma un battito di ciglio, un respiro, a volte un pensiero intervengono feroci a sbilanciarmi. Così, muovendomi su di essa come un ubriaco, ho la sensazione di trovarmi su una barca, e mi  metto a immaginare   una distesa quasi infinita, dove grandi onde mi cullino. Penso di perdermi. Penso che vorrei perdermi per sempre in questo oceano. Bateau ivre destinato a un ignobile naufragio in una pozzanghera.
Non so cosa farò. Forse resterò qui appollaiato ancora per un po’, guardando un bicchiere pieno d’acqua che ho collocato sul davanzale della finestra dalla quale vedo estendersi uno scenario post-metropolitano, torri improbabili mescolate a ex fabbriche ricoperte di graffiti, campi verdeggianti, piccoli pioppi qua e là.
E io.
Io.
Io che bevo di colpo l’intero contenuto del mio bicchiere. Io che sento di non aver colto un’occasione importante. Io che sento di essere stato dimenticato da qualcuno che avrebbe dovuto prendermi a cuore come il suo figlio prediletto. Ma forse anche lui (poteva pure essere una lei) non mi ha visto, magari stavo oscillando sulla mia sedia, o un’onda dell’oceano in cui mi cullavo era troppo alta e occultava la mia presenza lì, in quella pozzanghera postmetropolitana.
Fatto sta che adesso devo finalmente fare qualcosa. Sarà la scritta finale nell’atrio della scuola a decidere cosa sarà della  mia vita. Il mio atto d’amore vero, dopo tutto questo tempo trascorso a maturare oltraggi, senza agire.































L’ULTIMA PAROLA SPETTA A  PANNYCHIS


Chiaro che non possa essere Guido Coppi, studente maldestro e velleitario, sognatore nostalgico e malinconico,   refrattario alla redenzione, a scrivere l’ultima pagina di questa storia sgangherata. Guido Coppi che è giovane e vecchio al contempo, è nato in un anno imprecisato, a partire dalla metà degli anni sessanta, non è mai maturato completamente, e si ritrova nel 2015  a immaginare di essere chiuso nella scuola dove ha sofferto, davvero,  un infinito   quinquennio,  per raccontare a tutti la sua rivolta impossibile.
Devo essere io,  la professoressa  mai esistita, che lui si è inventata in giorni e giorni di profonda insoddisfazione. Devo essere io, che ho letto con lui, nei suoi occhi, attraverso i suoi occhi e nella sua anima compressa e scapigliata, in una confusione impossibile eppure proficua, Pasolini, Borges, Dante, Boezio, Ariosto, Tasso, Lucrezio, Properzio, Ovidio, Pirandello, Calvino, Perec, Leopardi, Pascoli, Omero, Virgilio, Calderon de la Barca.  E tanto altro. Non solo nomi, per chi sa leggere nell’anima, né solo epoche e stili e  modi di stare al mondo, ma giochi dell’intelligenza che si specchia, si ritrova e si alimenta senza offendersi e senza offendere.
Ma penso, ora, d’un tratto,  che nemmeno io sia adatta a questa operazione importante che Pirandello rifiuta, la conclusione di una storia. La più adatta è senza alcun dubbio Pannychis XI, la vecchia Pizia che si è presa magistralmente beffe di tutti, senza trascurare nemmeno se stessa.
Pannychis sa scrivere nell’aria, nel vento, nell’acqua, nel fuoco, lei non teme lo scorrere del tempo come capita a me, lei è davvero padrona della sua anima perché ha saputo rinunciarvi alcuni millenni or sono, figlia di Democrito, un po’ meno  di Aristotele. Pannychis non teme la perdita della vista perché possiede quella interiore, non teme la paresi degli arti perché se vuole può attraversare anche i muri,  non teme la perdita della lucentezza dei capelli, la comparsa delle rughe, lei è una sibilla senza tempo, può stabilire come essere in ogni istante, ma soprattutto lei sa parlare e sa scrivere, con poca punteggiatura, come deve essere la scrittura dell’anima. Che non prende fiato e vien fuori come una vampa, una fiamma, un rogo, di quelli che illuminano la notte e non possono venire spenti. La scrittura di Pannychis è come la torcia di Mizoguchi: la notte si spalanca per accogliere la sua rivelazione e domattina resteranno le braci a scintillare, e poca cenere a volare nell’aria.
Mio caro Guido,  hai ragione tu: devi smettere di stare scompostamente seduto, devi alzarti e andare fino al davanzale, così potrai vedere l’incendio che sono riuscita ad appiccare, facendo una cosa molto semplice ma inattesa, una cosa che Pannychis sa fare meravigliosamente, con la sua bocca senza denti.
Ridere.
Ridere di sé, di me, di te, di  loro,  di tutto.
Dice Pannychis che il riso echeggia nelle volte del tempo, e forse il mondo è nato dalla risata di un dio ebbro di sé, divenuto improvvisamente fecondo. Ora si tratta di ridere di questa vetusta messinscena, di smascherarla perché possa finalmente risorgere dalle sue ceneri. Ecco la luce che andavi cercando, il fuoco che avresti voluto ti accendesse l’anima e l’intelligenza: è lei a prestarceli  ora perché è ancora possibile che tutto si illumini e  non tutto sia  perduto.

Farinella Notte, 5 ottobre 2017

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