[...]Se per "rivoluzione" si intende una vera e propria rottura con il lavoro inteso come espressione feticizzata e autonomizzata della vita sociale, allora si deve concludere che nel corso di tutta la storia del capitalismo non è mai avvenuta una rivoluzione. Una simile uscita dalla "civiltà" capitalista non è mai nemmeno stata presa seriamente in considerazione. Essa si è solo vista qualche volta, occasionalmente, come un lampo di possibilità all'orizzonte. Nella storia dei movimenti di contestazione, la critica dell'apparato tecnologico, che è l'indispensabile supporto del lavoro astratto, è stata anch'essa largamente evitata. Tuttavia, una rottura di questo genere non si può considerare come puramente "utopica o "irrealista": il capitalismo - o il lavoro astratto, ed il valore e il denaro che ne costituiscono le istanze di mediazione sociale - è un fenomeno storico. Non fa semplicemente parte della vita umana tout court. La maggioranza dell'umanità l'ha visto arrivare solo negli ultimi decenni.
Se una simile rottura è possibile - e allo stesso tempo necessaria - questo non significa affatto che avvenga di per sé. Non c'è nessuna «legge storica» che possa garantire che le contraddizioni del modo di produzione capitalista facciano nascere una società migliore (qualunque sia il suo nome). La crisi della società di mercato è in pieno corso ed è irreversibile. Tutte le soluzioni che si basano sui margini di manovra ancora esistenti all'interno della produzione di mercato (come il rilancio delle misure keynesiane) si esauriscono prima o poi con la desustanzializzazione del valore, conseguenza della continua sostituzione del lavoro con le tecnologie.
Perciò non si tratta tanto di "vincere" il capitalismo quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in corso, non sfoci altro che nella barbarie e nelle rovine. I movimenti sociali che si rivolgono contro le sole banche o contro la classe politica "corrotta" costituiscono una risposta del tutto inadeguata, dal momento che scambiano il sintomo per la causa, riattivando il vecchio stereotipo degli "onesti" lavoratori sfruttati da dei "parassiti", e rischiano di degenerare nel populismo e nell'antisemitismo. In generale, ogni ricorso alla "politica" (e a maggior ragione allo Stato) è impossibile, dal momento che la fine dell'accumulazione, e quindi del denaro "reale", priverebbe i poteri pubblici di ogni mezzo di intervento. Lo Stato non è ma stato l'avversario del capitale o del mercato, ma ha sempre preparato per essi le basi e le infrastrutture. Non è una struttura "neutra" che potrebbe essere messo al servizio dell'emancipazione. Sarà inevitabile uscire tanto del mercato quanto dallo Stato - i due poli ugualmente feticisti della socializzazione attraverso il valore - se si vuole arrivare un giorno a stabilire un reale accordo diretto fra i membri della società. Pur mantenendo ovviamente delle istanze di mediazione, una società post-capitalista non dipenderà più per il suo destino dagli automatismi incontrollati di una mediazione feticista autonomizzata, come il lavoro astratto.
Non basta sommare le rivolte ed il malcontento che oggi stanno scuotendo tutto il mondo per arrivare a concludere che la rivoluzione è alle porte. In quanto tale, la decomposizione del capitalismo porta solo all'anomia. La "barbarizzazione" che genera a volte non risparmia nemmeno i movimenti di opposizione. Ormai da molto tempo, "il capitalismo" non è più solamente una parte della società (i capitalisti, la borghesia) che si oppone ad un'altra parte (il popolo, il proletariato) che rimarrebbe al di fuori del capitalismo e che sarebbe esteriormente solo "sottomesso". La società di mercato, soprattutto nella sua forma di società dei consumi, ha preso ampiamente possesso degli individui. fino a dentro le loro fibre più intime. Da tempo gli sfruttati si erano organizzati per difendere i loro interessi, anche restando nel quadro del sistema: di contro, la rabbia dei "superflui", la disperazione di coloro di cui il sistema non ha più bisogno, rischia di diventare cieca. Non dobbiamo ingannarci: diventa sempre più difficile trovare dei contenuti emancipatori nelle contestazioni che hanno luogo nel mondo.
Tuttavia, questa difficoltà ad esprimere un'opposizione coerente non comporta affatto la «fine della storia» o la «vittoria del capitalismo». Nello stesso momento in cui il capitalismo ha trasformato l'essere umano in Homo oeconomicus, l'economia crolla. Nel momento in cui è riuscito a trasformare potenzialmente tutti gli abitanti del pianeta in degli esseri del lavoro e del denaro, li priva in larga misura della possibilità di lavorare e trasforma il denaro in una finzione. Dietro questo sviluppo non c'è nessuna strategia: la nave continua a navigare ancora un po' bruciando nella caldaia pezzi di sé stessa.
Perciò, la questione "politica" non è più quella di sapere come demolire, o modificare, un capitalismo in piena forza che, in mancanza di un avversario alla sua altezza, può continuare all'infinito nella sua espansione. Ora la questione è quella di sapere come reagire alla generale rovina prodotta dal crollo della produzione di valore. Come fare a proteggere le iniziative ed i tentativi che emergono un po' dappertutto e che si propongono di costruire dei rapporti sociali che non siano più basati sulla merce e sul lavoro? Come difenderli contro la feroce volontà, così frequente, di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere ancora un po' in mezzo ai disastri che avvengono, anche al prezzo di commettere i peggiori crimini? Bisogna andare oltre un approccio "politico" in senso tradizionale: una vera e propria «rivoluzione antropologica» deve opporsi alla rivoluzione antropologica portata avanti dal capitale. Quest'ultima comporta il rischio, soprattutto per ciò che riguarda la sua alleanza con le tecnologie, di svendere ogni futuro dell'umanità, e del pianeta stesso, pur di prolungare ancora per qualche anno l'accumulazione del valore.
La teoria da sé sola non basta, ma il militantismo privo di concetti serve ancora meno. Per trovare un'alternativa al capitalismo, bisogna innanzi tutto comprendere la natura del denaro e del denaro, del lavoro e del valore. Queste categorie sembrano decisamente "teoriche", ma le loro conseguenze alla fine determinano ciascuna delle nostre azioni quotidiane. Oggi, una parte dell'opera di Marx può sembrare superata. Ma anche se della sua opera si volesse mantenere nient'altro che la critica dell'economia politica in senso stretto, questa costituirebbe ancora la miglior fonte possibili per poter comprendere la situazione attuale, e per evitare di impegnarsi - come hanno fatto nel corso di più di un secolo i diversi movimenti di contestazione - su delle strade che rimangono, anche senza rendersene conto, nell'ambito della società di mercato.
Se una simile rottura è possibile - e allo stesso tempo necessaria - questo non significa affatto che avvenga di per sé. Non c'è nessuna «legge storica» che possa garantire che le contraddizioni del modo di produzione capitalista facciano nascere una società migliore (qualunque sia il suo nome). La crisi della società di mercato è in pieno corso ed è irreversibile. Tutte le soluzioni che si basano sui margini di manovra ancora esistenti all'interno della produzione di mercato (come il rilancio delle misure keynesiane) si esauriscono prima o poi con la desustanzializzazione del valore, conseguenza della continua sostituzione del lavoro con le tecnologie.
Perciò non si tratta tanto di "vincere" il capitalismo quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in corso, non sfoci altro che nella barbarie e nelle rovine. I movimenti sociali che si rivolgono contro le sole banche o contro la classe politica "corrotta" costituiscono una risposta del tutto inadeguata, dal momento che scambiano il sintomo per la causa, riattivando il vecchio stereotipo degli "onesti" lavoratori sfruttati da dei "parassiti", e rischiano di degenerare nel populismo e nell'antisemitismo. In generale, ogni ricorso alla "politica" (e a maggior ragione allo Stato) è impossibile, dal momento che la fine dell'accumulazione, e quindi del denaro "reale", priverebbe i poteri pubblici di ogni mezzo di intervento. Lo Stato non è ma stato l'avversario del capitale o del mercato, ma ha sempre preparato per essi le basi e le infrastrutture. Non è una struttura "neutra" che potrebbe essere messo al servizio dell'emancipazione. Sarà inevitabile uscire tanto del mercato quanto dallo Stato - i due poli ugualmente feticisti della socializzazione attraverso il valore - se si vuole arrivare un giorno a stabilire un reale accordo diretto fra i membri della società. Pur mantenendo ovviamente delle istanze di mediazione, una società post-capitalista non dipenderà più per il suo destino dagli automatismi incontrollati di una mediazione feticista autonomizzata, come il lavoro astratto.
Non basta sommare le rivolte ed il malcontento che oggi stanno scuotendo tutto il mondo per arrivare a concludere che la rivoluzione è alle porte. In quanto tale, la decomposizione del capitalismo porta solo all'anomia. La "barbarizzazione" che genera a volte non risparmia nemmeno i movimenti di opposizione. Ormai da molto tempo, "il capitalismo" non è più solamente una parte della società (i capitalisti, la borghesia) che si oppone ad un'altra parte (il popolo, il proletariato) che rimarrebbe al di fuori del capitalismo e che sarebbe esteriormente solo "sottomesso". La società di mercato, soprattutto nella sua forma di società dei consumi, ha preso ampiamente possesso degli individui. fino a dentro le loro fibre più intime. Da tempo gli sfruttati si erano organizzati per difendere i loro interessi, anche restando nel quadro del sistema: di contro, la rabbia dei "superflui", la disperazione di coloro di cui il sistema non ha più bisogno, rischia di diventare cieca. Non dobbiamo ingannarci: diventa sempre più difficile trovare dei contenuti emancipatori nelle contestazioni che hanno luogo nel mondo.
Tuttavia, questa difficoltà ad esprimere un'opposizione coerente non comporta affatto la «fine della storia» o la «vittoria del capitalismo». Nello stesso momento in cui il capitalismo ha trasformato l'essere umano in Homo oeconomicus, l'economia crolla. Nel momento in cui è riuscito a trasformare potenzialmente tutti gli abitanti del pianeta in degli esseri del lavoro e del denaro, li priva in larga misura della possibilità di lavorare e trasforma il denaro in una finzione. Dietro questo sviluppo non c'è nessuna strategia: la nave continua a navigare ancora un po' bruciando nella caldaia pezzi di sé stessa.
Perciò, la questione "politica" non è più quella di sapere come demolire, o modificare, un capitalismo in piena forza che, in mancanza di un avversario alla sua altezza, può continuare all'infinito nella sua espansione. Ora la questione è quella di sapere come reagire alla generale rovina prodotta dal crollo della produzione di valore. Come fare a proteggere le iniziative ed i tentativi che emergono un po' dappertutto e che si propongono di costruire dei rapporti sociali che non siano più basati sulla merce e sul lavoro? Come difenderli contro la feroce volontà, così frequente, di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere ancora un po' in mezzo ai disastri che avvengono, anche al prezzo di commettere i peggiori crimini? Bisogna andare oltre un approccio "politico" in senso tradizionale: una vera e propria «rivoluzione antropologica» deve opporsi alla rivoluzione antropologica portata avanti dal capitale. Quest'ultima comporta il rischio, soprattutto per ciò che riguarda la sua alleanza con le tecnologie, di svendere ogni futuro dell'umanità, e del pianeta stesso, pur di prolungare ancora per qualche anno l'accumulazione del valore.
La teoria da sé sola non basta, ma il militantismo privo di concetti serve ancora meno. Per trovare un'alternativa al capitalismo, bisogna innanzi tutto comprendere la natura del denaro e del denaro, del lavoro e del valore. Queste categorie sembrano decisamente "teoriche", ma le loro conseguenze alla fine determinano ciascuna delle nostre azioni quotidiane. Oggi, una parte dell'opera di Marx può sembrare superata. Ma anche se della sua opera si volesse mantenere nient'altro che la critica dell'economia politica in senso stretto, questa costituirebbe ancora la miglior fonte possibili per poter comprendere la situazione attuale, e per evitare di impegnarsi - come hanno fatto nel corso di più di un secolo i diversi movimenti di contestazione - su delle strade che rimangono, anche senza rendersene conto, nell'ambito della società di mercato.
- Anselm Jappe - Articolo apparso inizialmente sulla rivista Cités, n°59, PUF, 2014 -
NOTE:
[*1] - Kurz lo chiama il "marxismo del movimento operaio", e Postone lo chiama il "marxismo tradizionale".
[*2] - Quasi tutte le critiche anti-staliniste si sono focalizzate sul predominio di una casta di burocrati sull'apparato della produzione. Questo era reale, ma non costituiva altro che la conseguenza inevitabile del proseguimento della produzione delle merci, la qual cosa non è stata quasi mai trattato a sufficienza.
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