PARANORMAL
PERSONAGGI in ordine di apparizione
Guido Coppi
Angelo
La professoressa che non è mai esistita
Il dirigente scolastico
Apparizioni varie (in tutto sette comparse e due cantanti)
Voci fuori scena
MUSICHE in ordine di esecuzione
·
J. S. Bach, Variazioni
Goldberg suonate da Glenn Gould.
·
David Bowie, Jean
Genie.
·
Claudio Lolli, Quanto amore
·
Patti
Smith, People have the power
·
Sangue misto, Cani sciolti (o intepretazione dal vivo)
·
Rap dal vivo (E non è una merda)
·
J. S. Bach, Ich
ruf zu dir, corale per organo BWV 639
·
Edoardo Bennato, Il rock di Capitan Uncino
·
Joan Baez,
Che Guevara
·
Gaber dal vivo (I padri miei, I padri tuoi)
·
Iggy Pop, The
passenger
·
Lou Reed, A
perfect day
I
Scena
in penombra. Dalla parte sinistra per lo spettatore una saracinesca chiusa. Si
potrebbe usare questa saracinesca per le proiezioni successive (le scritte, il
rap, il tema, il video del collegio, la tesina di Guido). Deve trasmettere una
sensazione claustrofobica e un senso di squallore. Guido arriva da destra e si
posiziona al centro del palcoscenico, a destra si vedrà poi, illuminata, la
scrivania, quindi la stampante. Tutti
arrivano sempre da destra. Luce e
buio servono per i cambiamenti di scena, quando Guido sale al quarto piano per
andare a scrivere il rap sul muro della sua aula. Quando tutto scompare e lui,
forse, sogna.
MUSICA [Variazioni Golberg, Aria, 2’50” Glenn Gould
oppure qualcuno che suoni dal vivo a quel tempo]
www.youtube.com/watch?v=Gv94m_S3QDo
GUIDO
Unde sapientia venit et quis est locus intelligentiae?
Spiritus ubi vult spirat, sed nescis unde veniat aut quo
vadat [le dice e vengono anche proiettate]
Non voglio usare queste frasi come motto, metterle in esergo.
Non mi piacciono le presentazioni ufficiali e
non mi piacciono le dediche. Odio ogni forma di pubblicità dell’anima, anche
del corpo, è la stessa cosa, in culo a Platone e al cristianesimo. Ma non in
culo a chiunque, Qualcuno lo salvo, tengo a dirlo subito. Lo salvo tutto
intero, o anche solo in parte, ma lo salvo. Per far capire bene cosa intendo,
posso fare il giochetto che alcuni di noi fanno da bambini: la casa sta per
andare a fuoco, ma tu puoi mettere in salvo qualcosa, quello che è più importante
nella tua vita, quello con cui potresti vivere per l’eternità...la musica di
Bach suonata da Glenn Gould, la Divina
commedia, l’opera omnia di Shakespeare, Le
novelle per un anno di Pirandello, Strade
perdute di David Linch, la
collezione intera di Calvin e Hobbes, il tigrotto di peluche che ti ha regalato la
nonna. Vabbè, fuor di fanfaluche e mistificazioni, un bel po’ di canne pronte e
profilattici oversize.
D’accordo, è un elenco
incongruo e irritante, il fatto è che sono io che oggi vorrei scomparire, ma non prima di aver fatto qualcosa.
Sì, si fa continuamente qualcosa, anche solo alzandosi al
mattino con l’alito cattivo, la voglia compressa di defecare, il mal di testa,
il mal di gola, l’assenza di, l’astinenza da, voglia di masturbarsi e non avere
un briciolo di forza nella mano. L’hai tenuta in posizione sbagliata e si è
atrofizzata...sogno di impotenza.
No, non le metto in esergo, ma ve le sparo in bocca, perché
possiate pomparvele ben bene, come musica oltre il sopportabile. Vedrete che
bel profitto. Perché sia tanto, ve le traduco anche.
Da dove viene la
sapienza e dove sta l’intelligenza?
Lo spirito spira dove
vuole e non si sa da dove venga e dove vada.
Per ora vi deve bastare. [MUSICA: David Bowie, Jean Genie, 1’ circa, poi può restare un
po’ in sottofondo, possibile che Guido per il primo minuto balli]
https://www.youtube.com/watch?v=CGQo6zpVzt8
Povero Jean Genie, oggi sono solo. No, adesso sono solo. Perché qualche momento fa non lo ero per niente.
Mi stavo rotolando nel letto con una mia amica, poteva anche essere un mio amico,
sono un convinto bisessuale, con cui ho
fatto sesso estremo per due ore, dopo esserci pippati una striscia di coca
condita con gin. Un abbinamento che consiglio: la coca ha un effetto
afrodisiaco (su alcuni, su noi due di certo) e unita al gin permette di fare qualunque cosa. Anche se un’educazione
cattolica originaria ti ha inibito (capita a pochi, naturalmente), anche se per
sbaglio hai visto chiavare i tuoi genitori quando avevi quattro anni e hai
creduto che tuo padre la volesse ammazzare, la mamma tua bella (quella che Ser
Ciapparello bestemmiò), così che il sesso ti è andato in malora, anche se sei
uno completamente bloccato persino con le seghe e i ditalini, anche in quel
caso lì, sta’ certo che ti farai una fottutina coi fiocchi.
Però adesso sono solo, post
coitum animal triste, e tanto per
cambiare mi è presa la voglia di parlare in latino, citando frasi nemmeno
troppo a cazzo che ho imparato a scuola, o quel che è. Gli effetti della coca
su di me sono sempre straordinari, inimmaginabili per un sacco di gente anche
amica mia.
Questa chiavata me la
sono proprio goduta, come fosse l’ultima della mia vita, e adesso voglio dare
corso all’impresa per la quale mi sono preparato in queste ultime settimane. [fine musica in sottofondo]
L’ho definito Progetto di Valorizzazione della Merda.
PVM [PROIEZIONE]
La scuola mi ha insegnato, oltre al latino, l’importanza dei
progetti e delle sigle. Così ve ne voglio ammannire un bel po’. E inoltre
voglio stupirvi con la mia padronanza della lingua italiana, ma anche un po’
della francese e dell’inglese (vi risparmio il greco). Certo non per recare un
omaggio all’istituzione di cui sopra, dio me ne scampi e liberi, bensì per
oltraggiarla. Sì, vi tratto proprio come quelli ai quali occorre spiegare
tutto, anche il tono con cui si sta parlando, le funzioni comunicative e
quant’altro. Chissà che non arrivi a farvi il gesto delle virgolette come nei Simpsons (un gesto da e per fessi, anche
questo andava spiegato).
Adesso però cerco di essere ordinato, espongo prima il mio
progetto per punti, poi procedo all’esecuzione. Che la coca m’aiuti.
Pensano gli ignari, gli ingenui, i distratti e anche un po’ i
coglioni (che c’entrano sempre), che d’estate in un edificio scolastico non
possa accadere granché. Sono giorni in
cui la segreteria è aperta solo dalle
otto alle dodici e trenta, così come l’ufficio
di presidenza. Giorni in cui l’inferriata che protegge, isola, allontana dal
reale, ingabbia l’edificio adibito a educare
le giovani generazioni (virgolette
con la mano) viene serrata intorno alle tredici e, all’interno, tutto tace
fino al mattino seguente.
Tutto tace. Così almeno si sarebbe portati a pensare. Così si
vorrebbe credere. Perché viceversa, a
chi accadesse, per qualche bizzarra ventura, o per volontà altrettanto
bizzarra, di rimanere rinchiuso nella
scuola proprio nell’arco di tempo che si estende dalle tredici alle otto del
mattino seguente, sono convinto si
rivelerebbe una verità difficilmente sopportabile dalla maggioranza delle
persone.
Nei locali,
apparentemente vuoti, accadono cose.
Il vuoto non è vuoto, l’assenza non è assenza, il silenzio
non è silenzio.
D’estate, a finestre chiuse, l’aria diventa rovente e
irrespirabile.
D’estate. Quando a popolare le aule, e tutti gli ambienti
della Scuola, rimangono i pensieri
discordanti, scordati, smodati, irriflessi e irriflessivi; rimangono pure i
sentimenti, che stagnano e non riescono a manifestarsi, ma
marciscono e iniziano a puzzare.
Mi sono convinto che, se riuscirò a restare dentro alla scuola
di notte, avrò la rivelazione definitiva di quanto durante l’anno, gli anni, trascorsi
a putrefarmi lì dentro, ho solamente potuto intuire.
Per cominciare, potrò vedere
e essere visto (virgolette con la mano). Non è così scontato, come potete
pensare voi, che si veda e si venga visti. Così come non è scontato ascoltare e
essere ascoltati. Passiamo il tempo insieme e non ci vediamo, non ci ascoltiamo
davvero. Un tormentone, se volete, uno di quei discorsi che possono fare le
ragazzine sculettanti sul tram.
“Ma tu mi ascolti, mi ascolti davvero?” “Cazzo, Samantah,
certo che ti ascolto, sennò come farei a risponderti”.
A parte la facile ironia sulle ragazzine sculettanti (ma
anche i maschi sculettano e dicono stronzate), il cui dizionario è così ridotto
che riescono a parlare solo di funzioni basilari e a usare i cellulari con il
loro corredo di abbreviazioni e faccine, conosco un sacco di gente che
preferisce non porsi nemmeno il problema. Gente adulta e laureata (virgolette) che
si sfiora appena, che non si penetra mai (non è un’allusione sessuale), che
rifugge la profondità, non sa neanche cosa sia. Quello che ci resta sono occhi
vuoti, orbite vuote, zombie che si aggirano di notte o di giorno (non sono
ipersensibili alla luce, purtroppo, così ce li si trova tra le palle
continuamente).
Sì, è facile da capire, sono un alienato, un alieno, uno
straniero, non mi sento a mio agio da nessuna parte, sento di non appartenere a
nessuna parte. Non di essere super partes
- Dante mio caro, come hai fatto, con tutto quel sangue che ti scorreva
intorno, con tutto quel senso di abbandono che hai provato, ad arrampicarti
così in alto -, ma in mezzo a tutti eppure irreparabilmente lontano, quello che
guarda sempre da, sempre attraverso,
Tonio Kröger fuori dalla
finestra, mentre all’interno tutti festeggiano e danzano.
Mi sono convinto che, se riuscirò a stare dentro alla scuola
di notte vedrò e ascolterò.
Vedrò orrendi revenants, larve ostili agli esseri umani, capaci di
succhiare loro gli occhi e con essi ogni memoria. E poi, soprattutto,
ascolterò, senza filtri protettivi, quello che nessun essere umano provvisto di
ragione e sentimento è preparato a
sopportare. E chissà che, anche
voi che siete qui, non lo siate a vostro rischio e pericolo (questa è solo
un’esibizione di stile horror e trash, modello insuperato: Lovecraft). Ma avevo detto che l’inizio deve
essere ordinato.
Oggi è il 12 agosto 2015 e io ho deciso di compiere una
profanazione a danno della scuola che ho
frequentato per cinque anni con pessimi risultati. Non parlo dei voti,
ovviamente, dei quali non m’importa niente, ma della mia crescita personale.
Che espressione ridicola, lo so, associata a un luogo del genere. Pomposa e
vacua, come solo le espressioni pompose sanno essere. La verità è che per
cinque anni ho perso tempo. Sono stato in attesa di vivere la vita vera. Chiuso
a chiave in un’anticamera ammuffita e piena di ragnatele.
Liceo, osano
definirlo, altisonanti cazzoni. Liceo classico. Ma guarda, niente meno.
Una classica vaccata,
tenuta insieme da un mucchio, non selvaggio ma fin troppo addomesticato, di Antichi Coglioni (la maiuscola ve la
concedo con piacere). Stupratori di intelletti malgré tout amanti del sapere, irregimentatori di spiriti creativi,
dediti all’apprezzamento dei soggetti disposti alla posizione prona.
Confezionatori di cervelli proni, che siano ben predisposti
all’inculata finale. E senza vaselina: il posto di lavoro.
Allora, ecco il mio progetto: il qualcosa di concreto mi è sembrato a un certo punto lì, a portata
di mano. Subito dopo l’ignobile farsa
dell’Esame di Stato dove vi ho visti svelati tutti, benevoli e malevoli, i miei educatori, ho deciso di farmi
rinchiudere nella scuola di notte e
ricoprirla di scritte.
Vi aspettavate “di merda”, eh, voi che ci ritenete solo in
grado di produrre pensieri rozzi e, ammetterò, un po’ di vero c’è, ma non potete
permettervi di sentenziarlo proprio voi: sappiamo verbalizzare egregiamente,
alcuni di noi anche meglio di
parecchi di voi.
Voglio scrivere sui muri la mia rabbia, la
mia angoscia, la mia riprovazione, il mio turbinoso scontento. Ho intenzione di iniziare con
uno di quei temi scassacazzo – il turpiloquio è prevedibile, ma si può
farne un uso pirotecnico, Aristofane e Plauto docent - “tipologia
B dell’esame di stato”, quelli nei quali devi scervellarti a discettare su
questioni internazionali degne delle menti migliori della mia generazione. Leggete Allen Ginsberg, Antichi Coglioni, chissà di chi parla: certo di nessuno di noi, ma neanche di nessuno di voi, falliti
esistenziali, proiettati lontano dall’intelligenza, lontano dal cuore, lontano dalla comprensione vera.
Sapete da dove mi proviene tutta questa sapienza (unde, unde venit)? Dalle circolari. Che
straordinarie rivelazioni le circolari e
che esilarante e triste trovata al tempo stesso: continuamente ne arrivavano in
classe, accompagnate dal bussare timido, nervoso o incurante dei bidelli
(scusate, personale ATA) sovraccariche di sigle suggestive, da far invidia a
Carroll e ai nomi dei suoi personaggi: Snark, Boojoom, Tweetheldoo e
Tweetheldee.
E così, tra una
circolare, un voto, un’annoiata lezione
e, qua e là, qualche raro soprassalto di intelligenza vera, la trappola per
deficienti, per inculati e soddisfatti,
precisa i suoi scopi. Non ci voglio cascare, nella vostra trappola, ed è
per questo che ho coltivato il mio desiderio, il desiderio segreto che è alla
base della mia iniziativa estiva.
PVM. Lasciare un segno, finalmente vero, nella scuola. Per
cominciare, appunto, scrivere un tema, dopo essermi assegnato l’argomento: un
argomento che sia adatto a contenere tutta la rivolta che tengo a fatica
circoscritta nell’interiorità, con sforzi che mi fanno ogni tanto scoppiare la
testa, mi nauseano, oppure mi portano ai confini di una condizione di pena
dello spirito che, poi, devo superare (o nella quale voglio naufragare)
facendomi canne a ripetizione, sniffando cocaina, bevendo litri di birra o di
vino.
E intanto gli Antichi Coglioni organizzano sapienti corsi
sulle dipendenze. L’unica che si
dimenticano di trattare è la dipendenza
dal cretino¸ che loro stessi incarnano, quasi senza eccezioni. Nello spazio
del quasi, mi permetto di inserire un
canuto professore, leggermente etilista, che insegnava storia dell’arte ed era
considerato da tutti una nullità, in quanto refrattario all’appiattimento del
pensiero. Da lui, che ho avuto solo per un anno, perché poi è andato in
pensione, ho imparato un paio di verità che forse scriverò sul muro della
presidenza, al culmine della mia operazione di autentico dileggio
dell’esistente, profanazione e espressione d’amore assoluto.
Però ora mi sento solo, tediato, arrabbiato.
STA. La seconda sigla. [PROIEZIONE]
Ecco, è meglio se
inizio così la mia operazione
profanatoria, scrivendo a lettere cubitali STA nell’atrio della scuola. Rosso
carminio, con qualche colatura qua e là, a simulare il sangue che deve pur uscire da qualche parte, a rappresentare
il sacrificio rituale di cui voglio essere sacerdote, novello Mizoguchi alla
ricerca della Bellezza, anzi, Restauratore della Bellezza, proprio nel luogo
dove è offesa quotidianamente, annegata nel torpore della ripetizione meccanica
o di una inconsistente innovazione. Profanare.
Bisognerebbe che da qualche parte ci fosse qualcosa di sacro. Ma forse,
mettendomi d’impegno, lo troverò. A ognuno
il padiglione d’oro che si merita.
Oggi, comunque, è il grande giorno. All’alba i miei genitori
sono partiti insieme a mia sorella per l’isola d’Elba, dove si trova una delle
nostre case ereditate. Che bella cosa, dicono sempre loro, questo fatto di aver
mantenuto intatti i beni di famiglia. Cari nonni, cari risparmiatori, che hanno
coltivato i loro orticelli con in mente l’unico obiettivo di lasciare in
eredità a noi le loro proprietà. Ecco, è venuta fuori la mia ossessione, sulla
quale ho intrattenuto il sapiente psicologo della scuola che mi hanno
appioppato a un certo punto i benintenzionati, per aiutarmi come sanno
fare loro. La famiglia.
Sportello psicologico (lo chiamano così, gli Antichi
Coglioni). Iniziamo dalla tua famiglia, dice lo psicologo, un ragazzo pressapoco della
mia età con l'aria spiritata di uno che per svegliarsi al mattino si deve fare
una canna (l'han scelto bene, gli Antichi, non avrei saputo fare di meglio).
Inizio. Ho un padre,
una madre e una sorella. Mio padre ci fotografa e ci filma. No, non fa il
fotografo, è un avvocato rampante. Guadagna un sacco di soldi ed è un soggetto
autistico. Almeno a livello familiare e nell'uso politicamente scorretto che
faccio io del termine autistico, come variante di stronzo asociale (la giornata
mondiale dell'autismo me la succhio). Dunque, mio padre, avvocato autistico e
fotografo compulsivo, nutre ormai una profonda indifferenza per mia madre.
Eppure scopa ancora con lei, che è anche una bella donna, ma la tradisce continuamente.
L'ho visto farsi fare un pompino dalla donna di servizio, la serva per la
precisione, così la chiamiamo tutti, ma non per dileggio, con ironia (siamo
illuminati radical chic, noi). Mia
madre è depressa, si sciroppa mix di xanax, davedax, edronax (che nome
magnifico, fa pensare a un drone che ti plana sui neuroni e li trapana uno a
uno) e quant'altro, che si fa prescrivere dal suo attuale amante, un medico
rapper di vent’anni più giovane.
Questa del medico rapper non se la beve, per fortuna, così posso
smettere di dire stronzate, mentre fino al pompino della serva non aveva
battuto ciglio. Comunque è abbastanza chiaro che non sono collaborativo, non ho
la minima intenzione di parlare a un chicchessia delle mie turbolenze
familiari.
Il fatto è che io non sono uno che sappia incassare e non
sono uno che si adatta. Il problema del mio non essere (cazzo, Parmenide, cosa volevi
dire di più e di meglio dell’ovvio? l’essere
è e non può non essere, il non essere non è e non può essere) è tutto qui:
come faccio a tornare indietro? Ad avere le spiegazioni che mi servivano allora non adesso, allora, quando il mio
sguardo bambino affondava in abissi di
non detto, e io di notte sognavo massi enormi che erano pulviscolo atmosferico,
sognavo che si creassero nell’universo delle scritte in inchiostro indelebile
che parlavano di me e di quello che non capivo.
Mi viene in mente una canzone che mia madre ascolta spesso. [musica: Claudio Lolli, Quanto amore, 1’25’’]
www.youtube.com/watch?v=qUwwji3oT_I
Quanto amore, quanto amore che
ho cercato.
Quante ore, quante ore che ho passato,
accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
mentre nessuno vedeva, mentre nessuno mi guardava. [Guido doppia la canzone in questo passaggio, poi finisce]
Quante ore, quante ore che ho passato,
accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
mentre nessuno vedeva, mentre nessuno mi guardava. [Guido doppia la canzone in questo passaggio, poi finisce]
Claudio Lolli, un cantautore della sua giovinezza la canta, e
non voglio sapere perché lei la ascolti ossessivamente e pianga sempre un po',
senza curarsi che io la veda. In compenso capisco bene cosa voglia dire. Io non
riesco a provare amore per i miei genitori, sono totalmente frenato nel provare
amore per loro. Li percepisco freddi, indifferenti. Da far rimpiangere i
termosifoni.
Mio padre mi parla come se fossi un suo coetaneo, mi confida
come partirebbe volentieri con un’altra donna perché in mia madre non trova più
un’interlocutrice all’altezza delle sue aspettative (intendi: all’altezza del
suo cazzo). Dice che lei è troppo silenziosa e troppo austera, non ha amiche e
si è ritratta in un suo mondo dal quale non vuole uscire. Tutta dedita ai
figli, trasformata in una perfetta donna di casa. Non è quella ragazza di cui mi sono innamorato, dice mio padre, e i
suoi occhi mi guardano come se fossi io il responsabile. Sei invecchiato con lei¸dovrei dirgli, siete tutti e due diversi da com’eravate. Dovreste prendere a
modello Filemone e Bauci (anche mio padre ha frequentato il liceo classico,
posso prenderlo per il culo così).
Io non ho un’idea, se
non letteraria, dell’amore assoluto, ma credo che qualcuno sappia al mondo cosa
sia. Alle volte mi commuovo quasi (senza aver bevuto) a vedere certe coppie di
vecchi che si tengono per mano. Lo sguardo è vitreo, è vero, però si tengono
per mano e evidentemente si... Non so cosa sia scritto nei puntini, ma certo
qualcosa che non esiste per mio padre e per mia madre. Comunque sono sicuro che
non abbia senso comunicare queste cose a mio padre, perché non è quello che
vuol sentire lui, che si allontana da
lei, da noi, ogni giorno di più, e lascia affondare la vecchia ragazza nel suo silenzio lancinante. Famiglia.
Una madre che fissa nel vuoto e guarda altrove, anche se la tavola è sempre ben
apparecchiata e i cibi ottimamente cucinati. Una madre che può stare a tavola
con me che mi metto a parlare apposta di uno spacciatore amico mio, poi
descrivo un inseguimento per le strade della città con me che lancio una
piccola partita di coca dentro a un bidone, mentre pantere della polizia
sgommano, e quando ho esaurito tutte le
carte lei commenta: una bella mattinata interessante, io a scuola mi
annoiavo sempre.
Comunque, qualche via di scampo si trova. Per me è stata mia
nonna. Una capace di ascoltare, e anche,
soprattutto, di stare zitta. Virtù in via di sparizione. La maggior parte delle persone non conosce il
valore del silenzio. Lo crede vuoto, nulla. In compenso non si accorge di
quanta vacuità possano produrre le parole bistrattate e usate male. Mia nonna
no. Mi vedo ancora, bambino, fanciullo, e fino all’anno scorso, poco prima che
morisse, seduto di fronte a lei nella
sua stanza di lavoro, studio, d’amore, dove teneva libri, dischi, quadri,
alcuni dipinti da lei in giovinezza, lavori di cucito, una olivetti
lettera 22 e poi quaderni, piccoli quaderni di svariati colori sui quali
annotava la sua vita; fotografie,
album che amava sfogliare in silenzio
con me.
Anche da mia nonna
potrei prendere ispirazione, imbrattando il liceo. Potrei scrivere il suo motto
preferito:
“nessuno può dare
ordini al tuo desiderio”. [eventualmente
anche proiettato]
Sì, queste son divagazioni. E poi quello della nonna è un
tormentone infame, dalla Satrapi a Cappuccetto Rosso rivisitata. Ma sono
divagazioni, a loro modo, pertinenti. Si tratta di capire cosa stia succedendo
a una generazione per colpa (responsabilità o che altro) di un’altra
generazione. O altre generazioni, a seconda del valore assegnato alla memoria
storica. Allora, tanto per capirci bene: noi siamo gli ultimi nati, quelli
dell’ultimo lustro del Novecento. Abbiamo l’età che avevano i nostri padri
quando hanno vissuto, non importa posizionati come, il Sessantotto. E da lì, mi
viene da dire, hanno iniziato a romperci i coglioni. Il padre di un mio amico
rappresenta, sotto questo profilo, la tipica incarnazione di quello che voglio
dire con una rottura di coglioni pianificata e perseguita con straordinaria
pertinacia.
“Ragazzi miei, mi sembrate
completamente addormentati. Perché non vi ribellate, non fate uno sciopero, non
vi mettete a spaccare tutto? Vi rendete conto che vi stanno predisponendo
all’accettazione di qualsiasi cosa, stanno smantellando i diritti acquisiti, vi
stanno preparando alla schiavitù?” [eventualmente detto da voce fuori scena]
La bontà dell’affermazione, dal mio punto di vista
indiscutibile, è però messa completamente in crisi da una circostanza: il
suddetto padre è perfettamente inserito nel sistema-pensiero che produce il
nostro addormentamento, anzi, la necrosi del nostro spirito. Sostiene a spada
tratta la meritocrazia, caldeggia le privatizzazioni, insomma è un tipico
esponente di quella che sta diventando la sinistra (ci vorrebbe, oltre alle
virgolette, l’emotycon di uno che
vomita) al potere. E poi a noi chiedono
come mai non ci occupiamo di politica. Magari è per evitare di diventare come
loro. Cazzate, le une e le altre. Ora basta, ci vuole azione. [MUSICA: Patti Smith, People have the power, 2”se vuole, in
questi momenti, Guido può ballare; per finire buio e luce]
www.youtube.com/watch?v=lPgEiFcNZAk
II
12 agosto 2015. Entrare a scuola e farmi chiudere dentro
senza che nessuno se ne accorga è stato uno scherzo. Mi sono fermato a parlare
con la bidella di cui sono amico, stordendola
con una serie di racconti: ho
approfittato del fatto che le sono molto simpatico e che le ho offerto
un paio di caffè ascoltando i suoi lamenti di cinquantenne in crisi con un
marito noioso e, forse, violento. Mi ha ascoltato e guardato con occhi carezzevoli:
sono il figlio che non ha mai avuto e del quale non sarebbe stata capace di
occuparsi. La sorte mi ha aiutato e ha fatto in modo che lei dovesse rispondere al telefono. Ne ho
approfittato per salutarla giovialmente con un cenno, ma invece di dirigermi
alla porta e uscire, ho scantonato veloce verso i locali della segreteria e mi sono
nascosto nel bagno con la scritta “Riservato”.
Confidavo nel fatto che, appiattendomi dietro alla porta, lei (l’ultima rimasta
nell’edificio) si limitasse ad aprirla per verificare non ci fosse nessuno, la
richiudesse e se ne andasse sprangando tutto. Le mie speranze si son rilevate
fondate: tempo un quarto d’ora, ho sentito il rumore del portone che veniva chiuso
con la catena e ho avuto la certezza che non ci fosse più nessuno nel Liceo.
Per quanto riguarda le vernici e i pennelli di cui sono
intenzionato a servirmi, ho seguito un piano ingegnoso: nel mese di luglio sono
passato da scuola con due grandi sacchi, sostenendo fossero pieni di libri da vendere al
mercatino scolastico di settembre, organizzato dai rappresentanti del consiglio
d’istituto. Sotto un po’ di libri messi a camuffare, nel caso in cui qualcuno
avesse curiosato, ho posto un po’ di bombolette spray, una tanica di colore e
pennelli. Ho ripetuto l’operazione ancora due volte, procurandomi una scorta
notevole di materiale. Un bidello distratto, dopo avermi indicato la prima
volta uno sgabuzzino al primo piano, mi ha lasciato la chiave perchè ne
disponessi a piacere, portando tutti i libri che volevo... Alle tredici del 12
agosto, dunque, mi trovo a essere padrone della scuola, in possesso di vernice
sufficiente per scrivere un saggio d’un centinaio di pagine e un piccolo poema
in endecasillabi sulle sacrosante pareti dell’istituto.
Dedico
un paio d’ore a ispezionare la scuola in santa pace. In portineria sono appesi
svariati mazzi: sono l’indiscusso
signore delle chiavi, mi sento come
Adelaide Antici nel palazzo avito di Recanati. Decido di rispettare le gerarchie, mi sembra
opportuno, visto quello che mi appresto a fare, e parto dall’ufficio del
dirigente scolastico, nel quale mi era capitato di entrare un paio di volte, ma
che non avevo mai avuto occasione di esaminare con calma.
Poster dozzinali di isole assolate, montagne azzurre, laghi
dagli improbabili colori e qualche concessione al politically correct: un
ospedale costruito con fondi di beneficenza in una missione africana.
Guido osserva tutto e ogni tanto commenta a alta voce Sulla scrivania,
una lampada con paralume rosso, un abat-jour da bordello nell’immaginazione di
Guido. Poi la scrivania, Guido inizia ad aprire i cassetti. I primi due a destra non contengono niente
d’interessante, ma il primo di sinistra è un vero forziere: deve risultare così
da sue espressioni.
No...non ci posso credere... il burocrate, il dirigente
scolastico tutto d’un pezzo, quello il cui tic nervoso principale consiste in un rientro compulsivo nel collo
della giacca [imita], ha qualche
inatteso, inesplorato anfratto, nel quale s’annidano passioni, ossessioni,
chissà che altro...[il pubblico non vede
quello che Guido ha trovato]
Si sente un rumore provenire dal piano di sopra...rumore
di banchi smossi, voci, il classico frastuono dei giorni di scuola qualunque.
Com’è possibile? Sono le tre del pomeriggio del 12 agosto, a
scuola ci sono solo io...magari è ancora l’effetto della coca, devo stare
tranquillo..
Il rumore esterno si fa
sempre più forte, come se una classe intera stesse spostando i banchi per un
compito. Poi tutto tace e Guido si
tranquillizza.
Il rumore magari
proveniva da fuori e la situazione in cui mi trovo ha determinato l’inganno: in
fondo sto commettendo una grave violazione, e probabilmente questo genera in me
uno stato di debolezza psichica favorevole all’esasperazione delle percezioni.
Basta, riprendo la ricerca.
Improvvisamente la
stampante accanto alla scrivania emette suoni e Guido si accorge che ne stanno
uscendo fogli stampati. Li raccoglie e si mette a leggere ad alta voce.
AIUTO. Non so più chi
sono. Non so dove sono e nemmeno come ci sono arrivato. Non so nemmeno se sia
un uomo o una donna, un ragazzo o una ragazza, un bambino o una bambina. Sento
di avere pensieri multipli, di essere uno e contemporaneamente tanti. Provo a
tastarmi, per capire qualcosa, ma le mani non obbediscono alla mia volontà:
sento di averle, ma non so come dirigerle, così come tutte le altre parti del
corpo. Eppure nella mente si formano pensieri, potrei provare a esprimerli ad
alta voce, ma un istinto mi suggerisce di non farlo, come se potessi incorrere
in qualche disastrosa, magari letale conseguenza. Com’è possibile che io mi
figuri qualcosa di letale, quando nello stato in cui mi trovo mi sembra di
essere morto? Il sospetto che ho è proprio questo: sono morto e ho perso già
memoria completa di me, dell’io che mi teneva unito e strutturato finché ero in
vita. Vita, morte. Se queste due idee sopravvivono e significano qualcosa, vuol
dire che non sono morto e che sono io. Ma io chi? Questo è il problema.
Chi mi sta dicendo qualcosa? Chi vuole comunicare con me? Forse
in questo luogo in cui l’intelligenza in forma umana ha smesso di operare, o
opera a corrente alternata, ha preso forma un’altra forma di intelligenza,
ectoplasmatica, che si manifesta attraverso l’elettronica? Sono aperto a
qualsiasi rivelazione, tanto non ho niente da perdere.
Ritorna al cassetto in
cui aveva trovato qualcosa, lo riapre e tira fuori quello che lo aveva stupito.
Biancheria femminile in pizzo nero: calze autoreggenti,
mutandine e top. La biancheria in pizzo
è, secondo me, quanto di più arrapante esista per chiunque, uomo o donna che
sia nella sua interiorità. Una volta che mi sono fatto un bel po’ da solo
(normalmente evito, perché volge sempre alla disperazione) ho provato a
indossare le mutandine di mia sorella, per vedere se favorissero una
masturbazione conturbante. Ho iniziato a accarezzarmi i glutei, percorrendo piano la linea delle
natiche. L’effetto è stato notevole, ma non escludo ci fosse di mezzo lo
stupefacente.
La stampante emette di
nuovo suoni e un foglio, Guido legge.
Sono un uomo
malato...sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente. Credo di
essere malato di fegato. Del resto di questa mia malattia non ne capisco
niente, e in verità non so nemmeno io di che cosa soffra. Non mi curo e non mi
sono mai curato, sebbene nutra il massimo rispetto per la medicina e per i
dottori. Per giunta, sono anche estremamente superstizioso; o per lo meno lo
sono abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto da non essere
superstizioso, eppure lo sono ugualmente). No, io non voglio curarmi per
cattiveria. Questo probabilmente voi, non lo capirete, ma io invece lo capisco.
Naturalmente non sarei mai capace di spiegarvi a chi esattamente voglio far
dispetto in questo caso con le mie ripicche; so benissimo che non sono
assolutamente in grado di nuocere nemmeno ai dottori per il fatto che non vado
a farmi curare da loro; anzi, so meglio di chicchessia che con ciò faccio del
male unicamente a me stesso e a nessun altro. Ciononostante, se non mi curo lo faccio proprio per cattiveria; il
fegato mi duole, ebbene che mi faccia ancora più male!
Ah ah, ti stai scoprendo...ancora un messaggio e capisco chi
sei... Ho letto per l’estate dalla seconda alla terza I ricordi dal sottosuolo, e questo è l’incipit...l’ectoplasma che si agita in questo luogo di pena è
Dostoevskij, niente meno...certo, poveretto, deve averne passate di brutte in
questi anni...il mio autore russo preferito non si addice minimamente allo spirito burocratico e ingegneresco, non si
addice al codice amministrativo, non si può tradurre in capitolati, in richiami
e in circolari, non si addice a una scuola azienda...
Non riesco a trattenere un pensiero divagante. Una circolare
concepita in stile dostoevskiano.[PROIEZIONE E VOCE FUORI SCENA]
Circolare
numero 4566 (a rettifica, parziale, della precedente, che non è la 4565, ma la
4544).
Oggetto:
casi di sofferenza interiore nell’Istituto.
Siamo
tutti prigionieri in questa casa dei morti. Le notti bianche ci aspettano: demoni, umiliati e offesi,
idioti senza memorie del sottosuolo. Povera gente... né sosia né giocatori
potranno mai salvarvi.
Il
Dirigente scolastico
Anghelos
Grekopchova
Immagino, a leggerla con seria circospezione, la mia isterica
insegnante di matematica, una cinquantenne coi tratti somatici di un
australopiteco: fronte bassa e sguardo obliquo, pronta a scrosciare in
stridule, inattese e del tutto fuori luogo risate cavalline, dedita allo stupro costante della
lingua italiana per via di alcuni logori tormentoni espressivi, che lei
evidentemente considera vezzi e manifestazioni della sua colta (coltivata?)
personalità.
“Posso dire,” la
sento prorompere, “che questa circolare
mi pare un po’ fuori luogo? Lo dico e
poi mi taccio” (ahimè Dante, contrappasso per l’australopiteca: doverti
leggere sul serio).
Però pensare a lei mi
tedia, la matematica è sempre stata una mia passione e sentire le sue
spiegazioni mi ha causato non pochi tracolli. Buona insegnante alla fin
fine, dicevano alcuni miei compagni amanti dell’ordine e della disciplina:
sì, per
chi della matematica pura se ne fotte e chiede solo di essere allenato
al test del politecnico. A me sentir
dire che “prima di porsi delle domande bisogna
aver imparato l’abc” (quello che secondo lei è l’abc) fa venire brividi di taedium,
ennui e spleen allo stato puro. C’è qualcuno che mi ha insegnato
qualcosa, in questo antro maledetto, ma
non ne voglio assolutamente parlare. Lo spazio deve essere riempito di
invettive e di lamenti, poi, forse, lancerò il mio messaggio d’amore.
Comunque, adesso basta con la divagazione dostoevskiana,
torno al mio cassetto dei segreti.
Guido trova delle
fotografie. Ne esamina con cura tre uscendo in esclamazioni e ridendo
sfrenatamente.
Guarda guarda il nostro preside burocringegnerizzato col tic
del rientro nella giacca [imita] Si tiene nel cassetto
le foto delle tre grazie, tre erinni mai disposte a diventare eumenidi, di cui
si è circondato. Prima di tutto la vicepreside. Un’assatanata ninfomane più o
meno occulta, che squadra i maschi della scuola come volesse scoparseli tutti, e
soprattutto ride come una pazza a ogni piè sospinto. Una risata spaventosa, che
potrebbe farmi impazzire [si
sente la risata, ma Guido non fa una piega]. Insegna matematica anche
lei, chissà che sia un contagio diffusosi nel dipartimento. Ma soprattutto è
una nata, cresciuta e putrefatta in questo istituto da sempre. Per quel che ne
so io, potrebbe esserel’ectoplasma che cerca di comunicare questa sera.
Poi la duchessa di Windsor [imita], allampanata e rinsecchita insegnante di
filosofia, con un paio di improbabili enormi tette in degne condizioni, spesso
visibili per una tendenza all’ostentazione che non sfugge alla maggior parte di noi studenti. La terza
è un ossimoro vivente: labbra sensuali, chiappe da Venere callipigia, associate
a una pettinatura castana conformata
(come si dice delle feci non diarroiche)
e sempre identica (come se i capelli avessero trovato una volta per
tutte una posizione, e da lì non si scostassero), a una gestualità contenuta e
a un modo di parlare elegantissimo e, ça
va sans dire, vuoto. Capace di discettare per un’ora intera su Leopardi
senza dire assolutamente niente. L’ho ascoltata in un paio di occasioni
pubbliche (dato che si picca di tenere lezioni pomeridiane allargate, pensando
di essere una didatta eccezionale) e ho rischiato tre cadute dalla sedia per
irrefrebabile sonnolenza.
Ora però è il momento
di scrivere sul muro. Andrò nella classe
che è stata la mia nell’infinito, penetrante, logorante, intrusivo, invasivo quinto anno, situata al quarto piano: un’aula
esposta al sole e quindi caldissima, con due veneziane cadenti e dipinta di
azzurro violento. Una specie di gigantesco water, dove spesso mi trastullavo,
per associazione d’idee, con
l’immaginazione del tuffo a capofitto nell’acqua merdosa, stile Trainspotting, ma senza nobili fini di
ritrovamenti aurei per eroinomani estremi, solo così, per passare il tempo.
[LUCI SPENTE, NON SI
DEVONO VEDERE SCRIVANIA , STAMPANTE E ALTRO]Negli ultimi tempi il rap è la mia passione. Canto spesso tra me e me, durante le lezioni, 2’ circa
cani sciolti sotto
il sole
quando fuori piove
quando tutto è fermo c'è qualcuno che si muove
quando tutto è fermo c'è qualcuno che si muove
sono il cane
sciolto,
lo straniero nella
mia nazione
e fuori dal recinto
resta la mia posizione...[potrebbe entrare un rapper e cantarla dal vivo]
Spero che il
logorroico di turno alla cattedra venga esorcizzato dal mio personale mantra, ma niente accade e la testa
diventa pesantissima, gli occhi si svuotano, tutto mi sembra inutile, guardo un
gatto che passeggia su un cornicione e mi immagino di essere al suo posto,
mentremusi di pantere mi annusano il sedere
e non c’è molto da sapere
se la vita è mia lascio che sia...[altro ingresso, eventualmente]
Non ho ancora molta esperienza nell’hip hop, ma nei giorni immediatamente seguenti alla prima prova dell’esame di stato, mi sono dedicato a scrivere il tema che, se fossi stato coraggioso, avrei dato da correggere all’infame commissione (interni e esterni, nessuno escluso) capitatami. Sulle pareti, in vernice nera, riporterò solo il rap finale, ma il tema completo ce l’ho stampato nella mente. Non sarei mai riuscito a scrivere una cosa del genere senza le confidenze di qualcuno. Ma non posso proprio scoprire tutte le mie carte. Certo è che ho un infiltrato (o infiltrata) tra i Secondini della scuola, sicché mi è molto più facile concepire cose come queste, che vi lascio leggere mentre io riporto sul muro azzurro della mia vecchia classe solo il rap. Video e poi luce su Guido che scrive
VOCE
FUORI SCENA E VIDEO (ad esempio si possono riportare i documenti)
Se l’inferno esiste, ha pensato quell’inguaribile ateo
che è in me, deve essere proprio così. Un’aula sudata, in cui s’inscena
eternamente la pantomima dell’esamedistato.
Tutto attaccato evoca meglio dissesto, distanza, dissennatezza e quant’altro
convergono nel produrre il turpe spettacolo. Ma voglio procedere con ordine,
evocare con pennellate precise, fotografare senza particolare pathos, come si
trattasse di scrivere un articolo di tipologia B2, ambito socio- economico,
argomento
“La catastrofe educativa negli ultimi cento anni”.
Il documento
numero uno, utile per sviluppare l’inquietante tema proposto
(inimmaginabile che il proponente sia il ministero), è la circolare 1152 bis di
una scuola della Repubblica italiana. Avverte una nota a piè
di pagina che la 1152 non esiste: il fervore burocratico ha siffatte impennate,
produce le bis nell’inesistenza
della semel. La circolare,
datata 20 giugno 2015 recita:
“Si comunica a tutti i docenti interessati che sono a
disposizione i moduli da compilare per i desiderata, da consegnare
improrogabilmente entro il 10 giugno. È possibile esprimere un’unica preferenza
fra due opzioni proposte”.
Il discente impegnato nell’analisi del documento numero uno noterà
subito la richiesta d’ottemperanza alla compilazione in data antecedente
alla comunicazione medesima, l’impropria declinazione plurale di quello che è
evidentemente un singolare, la pleonastica, o pedante, sottolineatura
della possibilità di esprimere “un’unica preferenza”
a fronte di due uniche opzioni
e metterà da parte il documento per ricavarne qualche sapida battuta che
potrebbe aiutare a concludere lo svolgimento. Magari, se gli viene un colpo di
genio, gli suggerirà il fulmen in
clausula.
Il documento
numero due è uno stralcio del ddl noto come Buona
scuola, di cui si è parlato e straparlato negli ultimi mesi, e che
è stato definitivamente approvato il 10 luglio 2015.
“
”
Si noterà che lo stralcio è invisibile, ma la trovata
(futurista) è da leggersi in chiave metaforica.
Il documento
numero tre è una fotografia di un pacco contenente i lacerti
dell’esame di stato medesimo. Un paccone bianco, confezionato con cordino
ceralaccato, al cui interno si trovano tutte le prove, le griglie di
valutazione, le schede dei candidati, le tesine, e poi firme, firme, firme, un
delirio di firme dei commissari, impresse sul pacco medesimo, sui pezzi di
nastro adesivo, su ogni scheda, ogni compito, ogni singola pagina di verbale
stilata, un delirio di deforestazione, uno spreco di pezzi di carta in numero
di almeno dieci per ogni candidato, una media di 250 fogli per classe. (senza
l’inflitrato/a questo documento non sarei riuscito a inventarmelo...la realtà
supera l’immaginazione)
Il documento
numero quattro è una breve registrazione degli scrutini, che
seguono alle interrogazioni dei candidati. “Ha detto che verismo e naturalismo
sono la stessa cosa.” “E ha sostenuto che in un campo elettrico gli elettroni
si muovono alla velocità della luce.” “Di storia non sapeva niente di niente,
le ho cambiato tre domande, alla fine ho chiesto il ’68 e neanche di quello
ricordava qualcosa”. “Di quale punteggio ha bisogno per arrivare a 60?” “18”.
“Allora diamole 18 e finiamola qui”. (anche per questo, ringrazio chi so io)
Il documento
numero cinque è l’articolo 34 della Costituzione italiana: “La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e
gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo
diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso.”
E ora lo svolgimento. [legge un’altra voce, può anche
essere qulle di Guido, ma registrata]
ARTICOLO DI GIORNALE
No, non lo pubblicherò su nessun giornale. Lo scriverò
sui muri, piuttosto, o diventerà una graphic novel. Non obbedirò così alle
vostre regole, dovete iniziare a conciliarvi con questa idea. Faccio quello che
posso, non quello che devo. Faccio quello che voglio, consapevole della
limitazione del volere da parte della realtà. Non immagino quello che volete
voi, ma quello che posso io. Dicevate, voi, miei genitori, alcuni di voi
almeno, una cinquantina di anni fa, che l’immaginazione sarebbe dovuta salire
al potere. Ebbene, ora accadrà, e io magari andrò fuori tema, ma sarà esattamente
quello che avrò voluto fare.
Il titolo però ve lo scrivo, mi sono sempre piaciuti i
titoli, non è per guadagnarmi ½ punto sulla griglia di valutazione. Inoltre
scrivo su una colonna, come richiesto dalle consegne ministeriali.
C’È CACCA PER TUTTI
Non ricordo dove l’abbia letto, ma qualcuno ha
scritto che oggi la
scolarizzazione è amnesia pianificata. Ecco, già fin dall’inizio emerge
con chiarezza il mio punto di
vista. Non devo, dite voi che mi insegnate come scrivere, non devo far emergere così chiaramente fin
dall’inizio il mio punto di vista. Deve essere un processo graduale, una
dimostrazione che avvenga per via di logica induttiva, deduttiva, applicando il principio di non
contraddizione. Sì? Davvero? Volessi pigliarvi per il culo (dio me ne
guardi), dovrei inserire a questo punto una serie di emotycon, sui quali
potreste intrattenervi e esercitare la vostra logica (induttiva, deduttiva, aristotelica,
kantiana). Guardate un po’:
Allora che cosa capite? Attempati lettori, utenti di
facebook, intenti a ringiovanire le facce e le voci (dell’anima vi siete
dimenticati millenni fa, se mai l’avete avuta, con buona pace delle dispute su
quella delle donne), cosa capite di queste faccine? “Vi prego di non fare smorfie inutili, di non
guardarmi male, di piangere, d’incazzarvi un poco, e alla fine rimanere
perplessi.”
Bella parola, perplessi: vuol dire intricati, confusi, con un
che di indeterminato. Leopardi mi capirebbe subito, lo so, senza tanti
giri di parole. Come guardare di là dalla siepe e percepire interminati spazi,
sovrumani silenzi. Sono i vostri, i sovrumani silenzi, che non dischiudono
l’infinito, oh no, piuttosto dicono quanto siete vuoti, ipocriti, negletti,
insipienti. E noi, che in voi ci specchiamo, non possiamo che riflettere il
vuoto, l’assenza, il tedio. Senza riscatto, senza nobilitazione. Non è il taedium vitae, non è lo spleen, non è l’ennui. No, non c’è una traccia d’oro
in questo crogiuolo, solo escrementi che non possono nemmeno ambire al
privilegio di concimare un terreno in grado di fruttificare.
Ce l’ho con voi. Sì, non è un gran segno di intuito da
parte vostra averlo capito. Ce l’ho perché non capite niente. D’accordo, c’è
cacca per tutti e cacca ovunque, ma non è turandoci il naso e il cuore
che possiamo liberarcene. Dovremmo, piuttosto, imparare a vederla anche dove si
occulta, dove si maschera meglio, per esempio da progetti culturalmente vantaggiosi: ma sul serio? Per noi?
Davvero? Non per caso per
i soggetti che li propongono e li organizzano, non per caso per le associazioni profit-non profit che s’approfittano della latitanza dello stato, del pubblico allo
sbaraglio, della svendita dei beni comuni?
Ah sì, dobbiamo credervi padri e madri
benevolenti, come quelli di Hänsel e Gretel, di Pollicino: fate sempre
tutto per il nostro bene, volete che nel bosco noi troviamo la nostra strada,
ma chissà, forse il sentiero che voi ci additate porta dritto dritto nella casa
di una strega o in quella di un orco, e poi toccherà a noi, piccoli,
indifesi, perplessi,
trovare il modo di uccidere qualcuno, cuocendolo al forno o facendolo
sgozzare, indossare stivali delle sette leghe, racimolare qualche tesoro da
portare a casa per donarlo a voi (che spreco) e poter continuare così stirpi e
generazioni.
Quanto ce l’abbia con voi si capisce molto bene, ma
non abbastanza quanto ce l’abbia con me stesso. Perché il testimone occorre
saperlo passare, ma anche saperlo afferrare: le due abilità, è chiaro, sono
complementari. E noi non vogliamo parlarci, riduciamo la comunicazione a
messaggi stereotipati, per poi rinchiuderci ciascuno nel suo mondo e parlare
male gli uni degli altri. Così non ci libereremo della cacca. Perché lei,
a differenza di noi, ha sviluppato una grande capacità di sopravvivenza, un
grande potere pervasivo e anche possiede qualità mimetiche. Per esempio, parla
alla perfezione il linguaggio della burocrazia (mi sto servendo, se non l’avete
capito, del documento numero 1), poi anche quello delle leggi (documento numero
due, criptico ed eloquente): il nulla che si autodefinisce bene. Autonomi, progettuali,
collegati col mercato del lavoro, competitivi, in una parola UTILI. No, lo so,
non dovrei usare le lettere cubitali, ma mi è venuto dal cuore, o da un’altra
parte, non so, alle volte mi confondo e mi sembra che a parlare sia
preferenzialmente un vuoto, un buco e…sì è proprio quello che vi state
immaginando, credo che non potreste darmi la sufficienza per un tema del
genere, probabilmente mi sto giocando l’esame di stato, che stupido, l’ultima
cosa che dovrei fare, inutile e doloroso, come giocare a tirarsi freccette sul
cazzo. Questa però mi sembra l’unica rivolta possibile. Contro il vostro circo
Barnum che mira esclusivamente a piccoli vantaggi personali. Diventare
sottilmente (si fa per dire) autolesionista, dire fino in fondo la verità.
Ora mi esibirò per voi: funambolicamente collegherò
tutti i documenti proposti in un mio breve hip hop, tanto è chiaro
che questo non è uno svolgimento di tipologia B, articolo di giornale, ma una
produzione scritta che non rientra negli standard aziendali.
Così, tra l’altro, posso introdurre un nuovo titolo,
variazione su tema del precedente, di chiara ispirazione surrealista (il
discente sta utilizzando materiali culturali trasmessigli dall’istituzione, la
griglia di valutazione potrebbe rilevarlo):
E NON È UNA MERDA [CANTATO dallo stesso rapper di Cani sciolti; sullo schermo deve apparire il rap e Guido deve essere intento a scrivere l’ultima parte]
Sono
privo di mezzi
mi
mancano pezzi,
questa
vita cittadina mi fa male alle palle,
ma
non ti giro le spalle,
lo so
che non ti piace, vuoi essere obbedito,
ma se
penso ai tuoi ordini mi sento tradito.
Eppure
no, eppure no, sono capace di scegliere la via,
solo
voglio che sia storta e soprattutto sia la mia.
E chi
sei tu che vuoi dettare ordini,
e non
conosci uno dei miei disordini,
con
Mickey Mouse hai cercato topoline,
mentre
io con Pippo mi faccio le pippine,
che più
son piccole e più sono carine.
E quel
senso di vuoto che mi dai,
quando
guardi nei miei occhi e non lo sai,
perché
tutto è uguale per quelli come voi,
che non
conoscono che il regno del poi.
E se ti
parlo di funcia non capisci,
fatti
una sega ch’è possibile sparisci,
poi ci
vediamo un altro giorno, un altro mondo,
e
vediamo se giriamo in tondo.
No però
con te non torno,
no che
non ci torno.
Mi hai
scalpellato il cazzo,
credevo
fossi il jolly nero nel mio mazzo,
invece
siete un gruppo numeroso,
il nome
giusto per parlarne è merdoso.
E per
sperare in qualcosa il tempo è poco,
farmi
le canne non è più un gioco,
qui con
la musica non c’è domani,
pistole
dentro tascapani.
Borse
di studio non ne voglio avere,
e poi
mi piace il formaggio con le pere.
Dammi
la mano che non so più che fare,
saliamo
in moto e ti porto al mare,
non
farmi ridere non farmi piangere
non
sono una mucca da mungere,
voglio
trovare il modo di sverginare tutto,
voglio
qualcosa che abbia un costrutto.
E tu,
smettila di voler capire:
questo
è solo il mio modo di sentire.
Arrivato alla e finale, si sentono dei rumori, la scena si anima, ragazzi in classe che chiacchierano e un’insegnante che spiega] ma deve sembrare un’allucinazione...Guido scende dalla sedia su cui era salito per scrivere sui muri e va ad aprire alla porta a cui qualcuno ha bussato...tutto torna silenzioso e scuro. Quando si riaccende la luce, Guido è in presidenza.
Devo farmi una canna. Il mio fornitore personale è un intenditore: il charas è senza alcun dubbio l’hashish che preferisco. Gliene ho comprato un bel po’ e lo alterno a qualche pippa di coca. Ho la situazione sotto controllo: alterno l’uno e l’altra in modo da creare una specie di equilibrio. Quando con l’hashish diventavo troppo sonnolento, e qualche Antico Coglione se ne accorgeva, una sniffatina mi riportava al giusto tenore e sostenevo impeccabili interrogazioni. Certo ho fatto sempre in modo di non farmi beccare a scuola, le mie operazioni chimiche le faccio tutte in posti sicuri.
[Fuma] Inizio a pensare di essermi immaginato tutto. Magari mi sono addormentato per un attimo. Poi comunque sono disposto anche a vivere un’avventura in un’altra dimensione. Magari le scuole sono Varchi Lovecraftiani o da qualche parte in cantina c’è un Bevatrone come quello di Philip Dick nell’Occhio nel cielo, e io mi trovo in una realtà parallela inventata da me, dove accadono cose leggermente stupefacenti (essendo io uno che fa uso di stupefacenti, che ridere). In effetti quando fumo mi vengono idee stupide che mi fanno ridere un sacco, ma non sono proprio sicuro sia tutta responsabilità del fumo.
E ora sono pronto a procedere con l’esplorazione della presidenza.
Ritorna la luce sulla scrivania del preside. La stampante emette un foglio e Guido legge.
L'aveva scelta con cura, tra tante che gli si erano offerte. Tutte erano degne di nota, per qualche dettaglio o, in certi casi, per la loro medesima essenza. Una si segnalava per la diligenza nell'eseguire i compiti assegnati, un'altra per l'istinto sicuro che le dettava in quali momenti lui sentisse la necessità di un sorriso, in quali di non essere nemmeno guardato fugacemente, in quali provasse la mancanza di una carezza, in quali rifuggisse il contatto anche occasionale di un braccio. Un'altra ancora sapeva intuire la fine delle frasi, che lui per noncuranza o presunzione preferiva non terminare nemmeno, un'altra conosceva l'arte della contraddizione condotta agli estremi limiti, per lui, dell'ira. C'era quella che non lo tediava mai, per la straordinaria varietà d'umori che sapeva esibire, simulare, magari provare davvero, quella che riusciva a placarne le ire subitanee e immotivate, quella che lo trafiggeva con uno sguardo d'odio nei momenti del compiacimento intellettuale, quella che viceversa lo guardava con benevolenza persino se lui eccedeva in crudeltà o ingiustizia.
Tutte degne di nota, certo, ma lei era l'impareggiabile. Sapeva essere dolcemente fragile, intuitiva, rispettosa senza venir meno all'orgoglio, penetrante senza sconfinare nella presunzione; lo ascoltava sempre senza mostrare fastidio per le sue prolissità, col tempo divenute la norma, ricordando con precisione ogni particolare dei suoi interminabili discorsi; attendeva pazientemente che lui si calmasse quando all'improvviso si sentiva travolgere da ondate di tedio e desiderio di distruggere qualsiasi cosa avesse inventato, scritto, desiderato rappresentare o fare. L'aveva prescelta, ma non l'amava. Anzi, provava nei suoi confronti un profondo fastidio. Desiderava distruggerla, ma solo dopo averla portata al punto di credere d'essere stata scelta lei per puro amore. A tale scopo la messinscena doveva essere accurata, ma lui si sentiva in grado di reggerla. L'avrebbe discretamente corteggiata, alternando momenti d'attenzione a sconcertanti trascuratezze: sapeva quanto lei pensasse di capirlo in profondità, di possedere la chiave del suo cuore, e immaginava come avrebbe potuto ferirla palesandole all'improvviso l'irragionevole insipienza che viceversa lui sapeva la contraddistinguesse. Come poteva pensare di capirlo lei, che agiva animata dall'intento di brillare ai suoi occhi di una luce assoluta, e probabilmente non solo ai suoi ma anche a quelli di tutti gli altri che avrebbero dovuto invidiarla in quanto la prescelta.
Da destra entra Angelo
Bene, bene, vedo che stai scoprendo i segreti del nostro amato preside.
Guido è colto alla
sprovvista, si volta e inquadra chi ha
parlato, evidentemente entrando senza che se ne potesse accorgere, dato
che sta seduto all’indiana dietro alla
scrivania.
ANGELO
ANGELO
Di chi pensi sia la biancheria di pizzo?
GUIDO
Allora l’avevi già vista?
ANGELO
No, l’ho vista insieme a te prima.
GUIDO
Ma se prima ero solo
Entra quella che non è mai esistita.
LA PROFESSORESSA
Ciao, Guido, ciao Angelo, mi fate fare un tiro? Si siede accanto a loro.
GUIDO
“Ma prof, anche lei?
[a parte] D’accordo, vi devo delle spiegazioni. “Anche lei” vuol dire tante cose. Questa che vedete è l’insegnante che non ho mai avuto, saltata fuori dalle pagine di un libro che ho letto l’anno scorso. S’intitola L’ora di lezione di Massimo Recalcati e racconta cosa potrebbe accadere in un’ora di lezione se. Dopo il se c’è la mia vita non vissuta. Il mio desiderio rimasto tale. L’erotica dell’insegnamento, in un’unica espressione, non fosse che nel buco nero di tutti i giorni non c’è spazio per cose come quelle che descrive lui, un altro ingannevole guru del nostro tempo. Così me la sono dovuta completamente inventare, la mia Giulia personale (il nome che usa Recalcati è questo, e andava bene anche a me), ossia l’insegnante che fa nascere nel cuore dello studente l’amore per la conoscenza. Prima, veramente, fa nascere l’amore per lei (conditio sine qua non, pensa il cialtrone rincivilito che è in me, che sia almeno un po’ figa), poi per transfert, amore per la conoscenza. Insomma, io me la sono proprio dovuta inventare, visto il materiale umano a disposizione qui nell’Istituto, ma ho lavorato bene, con e senza stupefacenti, e il risultato ora è qui davanti agli occhi. Lei si chiama Valfré, La Valfré, com’è uso definire le professore, con l’articolo davanti (riprovevole maschilismo) ed è perlomeno graziosa (almeno secondo me che l’ho creata). Non sarà uno schianto, ma a me provoca sensazioni saffiche, nel senso dei brividi e sentori di febbre della famosa ode (vedete che non sono un maschilista). Poi ho un po’ voglia di toccarle una mano, un po’ di ritrarmi, ma tanto non faccio né l’una né l’altra cosa, e la fisso con sguardo vagamente imbambolato. Per fortuna che c’è Angelo a distrarre la mia attenzione: continua a armeggiare con le mutande e a me viene da ridere, così riesco anche a parlare.
GUIDO
Davvero, professoressa, vuole fumare con noi?.
PROFESSORESSA
Perché, ti sembra riprovevole?
GUIDO
Non mi sembra riprovevole per niente. Le passa cartine e quanto serve per farsi una canna mentre dalla stampante esce un altro foglio, che Guido legge come sempre, mentre Angelo si prova i completi di pizzo e la professoressa fuma voluttuosamente.
"La Pizia, che aveva gli occhi spalancati, ascoltava distrattamente guardando attonita il mendicante dinanzi a lei, il quale si appoggiava alla figlia che era anche sua sorella, e dietro di lui c'erano le rupi, e i boschi, e più in giù il cantiere del teatro, e per finire il mare inesorabilmente turchino, e dietro tutto il cielo, il cielo di piombo, la superficie di quel nulla assoluto in cui gli uomini, per poter tirare avanti, proiettano ogni sorta di cose, divinità e destini di ogni genere, e quando il tutto cominciò a chiarirsi nella sua mente, quando riuscì a ricordare che pronunciando quell'oracolo lei aveva solo voluto fare uno scherzo mostruoso a quel giovane chiamato Edipo perché lui, una volta per tutte, si togliesse dalla testa la sua fede negli oracoli, allora tutt'a un tratto Pannychis XI scoppiò a ridere, e la sua risata diventò immensa, incommensurabile; dopo che il cieco se n'era andato zoppicando con la figlia Antigone già da un bel po', lei stava ancora ridendo. Eppure, come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la Pizia ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso."
Pannychis è una Pizia vecchissima, una delle tante avvicendatesi nell'Antico, annoiata dal suo lavoro ripetitivo e pure dalla sua vecchiaia infinita, cinica e insoddisfatta, cicala che ripete cantilene senza tempo, sagace ancora, a volte, nel tessere le tele, ma anche nel capire quelle intessute da altri, i mefistofelici sacerdoti dei templi rivali, gli intriganti collaboratori con il potere costituito. E il cerchio di ferro del fato, il destino a spirale che stringe in un abbraccio mortale il mondo, è una presenza invisibile ma incombente, nessuno ne può prescindere, nessuno sa se quello che dice e che fa, o quello che fa fare agli altri, sia dettato da una ragione profonda, interiormente fondata, o frutto di impennate improvvise del pensiero, soprassalti di follia, divagazioni sentimentali, capricci, effetti d'ossessioni. Più labirintico di un giardino dai sentieri che si biforcano continuamente, il territorio mitico che Dürrenmatt evoca nella folgorante narrazione è un rompicapo senza soluzione, come la vita per molti di noi: quali e quanti pensieri, gesti abbiamo concepito, quali e quante risoluzioni abbiamo preso, quali e quante scelte compiute in libertà dell'anima, per libertà dell'anima e approdando a un risultato non già prevedibile o previsto ma voluto davvero? Gli esseri umani amano immaginare di essere liberi in un mondo ordinato e regolato. Ma potrebbe anche essere che non esista nessuna regola, che siamo immersi in un vortice caotico simile a quello dal quale i miti narrano si sia originata la vita e che tutto debba ancora iniziare davvero. "La Pizia non rispose, tutt'a un tratto non c'era più, e anche Tiresia era scomparso, e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata".
PROFESSORESSA
Straordinario come Pannychis mi somigli.
GUIDO
Pannychis è cinica, mentre lei non mi è mai sembrata tale.
PROFESSORESSA
Io sono molto cinica, ma certo con voi ragazzi mi trattengo. Non posso svelarmi completamente con voi.
Nell’ufficio di presidenza entra il preside in persona. Affonda nella giacca a ritmo di un parola/un affondo, segno di uno stato di nervosismo particolarmente accentuato
PRESIDE
Buonasera professoressa Valfré, buonasera Angelo, buonasera Guido. Vedo che siete molto indaffarati.
GUIDO [a parte]
Straordinario. Si è ricordato i nomi di tutti noi. Un suo vezzo, se così si può definire, è notoriamente quello di non ricordare i nomi delle persone e scambiarli. L’esito potrebbe essere esilarante, non fosse che il soggetto vittima di scambismo nominalistico sente di essere sottilmente, si fa per dire, preso per il culo.
Il preside si avvicina a Guido e sbircia il foglio. Non sembra particolarmente preoccupato dalle multiple violazioni che si stanno commettendo e che comunque si mette a elencare.
PRESIDE A ogni affermazione rientra nella giacca e sbaglia a pronunciare tutte le z, ad esempio polizia pronuncia come zia, sonora.
Un’insegnante della scuola sta fumando uno spinello con un componente del personale ATA e con uno studente (da poco ex, per essere precisi).
Uno studente (ex) sta frugando nei cassetti della presidenza.
Un componente del personale ATA ha in testa quelli che indubitabilmente sono slip da donna in pizzo nero e che sono stati tirati fuori da un cassetto della mia scrivania.
Inoltre è quasi notte è la scuola, tecnicamente, è chiusa. Quindi c’è stata un’effrazione.
Si tratta di una serie di infrazioni gravi. Ora consulto il mio libro delle rivelazioni e decido se chiamare la polizia. Tira fuori dalla scrivania un catalogo molto spesso, su cui campeggia la scritta ....Intanto la Valfrè si alza in piedi e inizia a parlare come se recitasse.
LA PROFESSORESSA
“Incompresi, insoddisfatti, troppo comodi, da
un lato, dall’altro incalzati dal tempo,
dall’incombere di scelte, da un bombardamento di aspettative multiple, che
provengono da lontano, un generico “mondo” in attesa del vostro ingresso, o da vicino, la famiglia, con la sua
proiezione di riuscita o la sua giustificata preoccupazione in merito
all’inserimento nel sistema, al sostentamento, alla sopravvivenza.
Poi le persone intorno, i punti di riferimento, i
genitori soprattutto, che prendono decisioni condizionanti per il vostro
destino, modificando irrevocabilmente assetti che si sarebbero desiderati
stabili, che volentieri si sarebbero mantenuti se non per sempre, almeno ancora
un po’.
E
in aggiunta, dagli altri, vicini e lontani, non di rado promanano
freddezza, ostilità, incomprensione, sicché vi viene da ritrarvi tutti
in voi stessi, eleggendo come compagna la vostra paura, magari ridendo un
po’ amaramente, con l’aria di uomini e donne (la crescita incalzante) che le
hanno viste già un po’ tutte, non hanno più niente da sperare, niente da
desiderare, e si concentrano su se stessi, sul breve passato, sull’insondabile
futuro, su colpe vere e presunte, dimenticando l’unica cosa importante da
fare, della quale comunque, spesso, voi avete un’idea precisa.
Il
nemico è dentro di voi, siete voi stessi. Sdraiato sul divano, circondato di
dolci e di patatine, incapace di proferire parole, privo della volontà di
farlo, vagamente autocompiaciuto, emette rutti dalla bocca e dall’anima. E
alimenta insoddisfazione. Non vi piace essere visti così, nemmeno da voi
stessi, ma non abbastanza per smettere di farlo. E bisogna pure stare attenti a
non manifestare troppa comprensione, in questo caso “condividere” è reato,
soprattutto se si appartiene a un’altra generazione, ma anche in generale. Ci
sono momenti in cui si desidera essere abbracciati, altri in cui persino un
abbraccio è sbagliato.
Oggi
voglio commettere due trasgressioni. La prima dicendo che comprendo tutto. Luce e amor d’un cerchio lui comprende, scrive Dante, e di questa natura è la
mia comprensione, in cui ragione e sentimento si trovano congiunti.
Vi
comprendo, ma non sono indulgente. L’io pigro, insoddisfatto, refrattario,
oppresso dalla non volontà va scosso. E senza chiedersi con quale immediato vantaggio. Ve ne saranno, di vantaggi, ma
non su quelli occorre concentrarsi, almeno inizialmente. Non aspettate
l’appagamento immediato, perché questa è l’insidia della comodità che genera
insoddisfazione: l’animale, legato a una catena che lui stesso si è infilato al
collo, che aspetta un bocconcino. Mordete quella mano: vuole che siate polli da
allevamento, galline che non riusciranno mai a fuggire.
Seconda
trasgressione. Vi invito alla sfrenatezza. Siate sfrenati nel desiderio di
vincervi. L’unica vittoria che vale la pena conseguire è quella su se stessi.
Ed è in questo che il processo educativo può svolgere una funzione importante.
Se non riuscite da soli, qualcuno vi deve aiutare, e non è con l’indulgenza che
si ottengono risultati, anche se pure il suo opposto, l’inflessibilità, può
produrre effetti controproducenti. Dunque, una volta di più, occorre trovare
una terza via, ma che una via sia, non un vacuo brancolare nelle tenebre, in
attesa di risposte che non si è disposti ad ascoltare.
La
via che vi propongo non è quella facile e non dà soddisfazioni immediate.
Me la suggeriscono però due capisaldi della mia vita, che mi hanno dato
tantissimo, sul lungo periodo. Autenticità e concentrazione. Non auto
ingannarsi, non vivere su due livelli, ma cercare di essere profondi e intensi,
di aderire a quello che si sta facendo, di non cercare ovunque il divertimento,
perché ciò è nocivo all’essenza stessa del medesimo, contribuisce
all’indeterminato, al senso di assenza di confini, di cui vi lamentate, per cui
deperite intellettualmente e sentimentalmente.
A
proposito di sentimenti, voglio commettere una terza trasgressione. Voglio dire
a tutti voi quale sia il mio peggior nemico. Il mio peggior nemico è il vuoto.
Il vuoto di sentimenti, per cominciare, e poi quello di idee. E lo devo
combattere ogni giorno, perché la tentazione di difendermi da un assalto che è
sempre stato intenso, ma oggi forse è aumentato, è molto forte. Ad
assalire sono i dolori degli altri, i più vicini, i prossimi, i lontani, e la
tentazione è quella di creare una bolla che isoli, che allontani, con la sua
superficie trasparente, cangiante e affascinante tutto quell’assalto. Però,
questo è sempre stato un mio principio, non voglio vivere anestetizzata. La
gioia e il dolore sono componenti essenziali della vita, e non conosce gioia
profonda chi non sa sentire il dolore profondo. Quanto al vuoto di idee,
ammetto che anch’esso è una tentazione. La tentazione della facilità, che porta
a collazionare idee preconfezionate. Le lezioni già fatte, persino le mie, non
le voglio considerare. Anche perché non voglio ingannarvi con esperienze
inautentiche in quanto non passate attraverso il mio io, oggi. La cultura è
vita e può essere tramite di felicità, nel senso di pienezza dell’io. Ma perché
ciò sia, deve essere intrisa di emozioni. Un insegnamento che non passi
attraverso le emozioni non è tale, né per il docente né per il discente, di
certo in base alla mia esperienza.
La
strada, allora. Può anche esser storta, l’importante è sia la mia. Cioè quella
da me vista e prescelta. Non per un colpo di fulmine, che pure è un evento che
potrei augurare a tutti nella vita, ma per una scelta convinta, compiuta con
adesione di tutti voi stessi. Smettetela di essere a metà, provate a essere
tutti in un punto, non chiusi e circoscritti, ma aperti, ricettivi, vitali e
partecipativi.
Guardate
nell’abisso, senza paura che lui voglia contraccambiare guardando dentro di
voi. Non c’è niente di peggio di una paura preventiva, che ostacoli qualsiasi
agire. D’altronde, è anche possibile che, persino nei momenti di maggior
ambasce, qualcosa di inatteso sopraggiunga a regalare sollievo a un animo
disposto a sentirlo. Come nel racconto zen in cui un uomo, inseguito da una
feroce tigre, cerca di sfuggirle calandosi in un aspro burrone. Resta attaccato
a un cespuglio, mentre la belva dall’alto lo osserva e, dal basso, un’altra
tigre si avvicina guardandolo con interesse. Sopraggiungono anche due topi che
iniziano a rosicchiare il cespuglio al quale lui si sta fortunosamente tenendo.
In questo frangente disperato, il suo sguardo si posa, a poca distanza, su una
magnifica, succosa fragola appena maturata. Senza esitazioni, l’uomo distacca
una mano dal cespuglio e la tende verso il frutto, per poi mangiarlo con
assoluto godimento. Con assoluto godimento, fra tigri che ti attendono, topi
che rosicchiano. E tu, tu, solo tu, che sai vedere la fragola cresciuta per te
e trovi la forza di afferrarla e mangiarla.
PRESIDE
Grazie
professoressa, ha detto la sua. [Angelo batte le mani forsennatamente, ha sempre le
mutande in testa e sembra decisamente fatto]. Adesso tocca a me. Sfodera il libro delle rivelazioni.
Inizio
da quella che, gerarchicamente, è di sicuro la principale responsabile delle infrazioni, ossia lei, professoressa Valfré
una voce femminile
fuori scena lo corregge: professora, sia politicamente corretto, insomma!
D’altronde
l’ha ripetuto lei stessa, “oggi voglio commettere due trasgressioni”, insieme a
quel Dante che non voglio ancora sapere chi sia, almeno per ora, ma suppongo un individuo senza portfolio
delle competenze e ignaro delle regole della nostra scuola, chiaramente
indicate e condivise nel nostro POF ptof, si chiama ptof adesso, se
lo ricordi preside. Certo, nel suo discorso sono risuonate alcune
considerazioni interessanti, che non posso dire di aver capito. Che l’anima
rutti, ad esempio, mi sembra insostenibile e l’invito a essere tutti in un
punto non riesco a ritenerlo vantaggioso: si starebbe stretti e la regione ci
ridurrebbe i locali, sistemandoci in un sottoscala del condominio di fronte
alla scuola. Insomma professoressa professora grida la solita voce,
ritengo che lei possa magari suggestionare quattro ragazzotti in classe con i
suoi discorsi enfatici, ma da parte mia la ritengo un soggetto da sottoporre a
test alcolemico. Il mio libro delle rivelazioni parla chiaro: "Il docente
del XXI secolo non è più un carismatico ed erudito affabulatore, in possesso di
qualità didattico-disciplinari innate e straordinarie, bensì un professionista
che deve saper prendere parte attivamente alla collegialità della scuola
autonoma, contribuire al buon funzionamento corale dell’organizzazione e
impegnarsi nella manutenzione delle proprie competenze". Questo l’ha
scritto la Fondazione Agnelli, non so se mi spiego, bravo preside,
siamo d’accordo con lei che ha perfettamente inquadrato il suo tipo:
lei non è una professionista, non partecipa alla collegialità della scuola
autonoma, e scommetto che non saprebbe assolutamente dire come si possa
impegnarsi alla manutenzione delle proprie competenze. In sostanza lei va
rieducata. Voglio essere concilante. Le propongo una settimana di flipmaster applausi, che sicuramente
capovolgerà la sua visione delle cose. Si tratta di rovesciare la sua
prospettiva sulla scuola, che è evidentemente sbagliata.
Durante questo
discorso del preside la Valfrè si è seduta di nuovo all’indiana e si è
preparata un’altra canna, che sta fumando scambiandosela con Angelo. Anche lei
si è messa in testa un paio di mutande di pizzo nero e ha un’aria piratesca.
Guido sembra agitato e dice ad alta voce di dover andare in bagno, Esce e si fa
tutto buio. Quando torna...
GUIDO
Dove
sono andati tutti? Non deve esserci più
niente, nemmeno la scrivania e la stampante.
Mi
sento svenire. E contemporaneamente inizio a avere delle visioni. Come quando
ero bambino febbricitante e mi apparivano massi come pulviscolo atmosferico.
Pesantezza e leggerezza fuse insieme, ossimori impietriti, volanti nell’aria,
minacciosi e pregnanti. Cosa mi volevano dire quelle inanità massicce, cosa mi
vogliono dire, ora, queste stranezze che stanno accadendo nella scuola dove ho
perso tempo per cinque anni.
Perso
tempo, perso tempo...la voce si
affievolisce e Guido scivola lentamente a terra fino ad assumere posizione
fetale
III
video o GIF
Quando il bambino era
bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un
fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino
era bambino, | non sapeva d'essere un bambino, | per lui tutto aveva un'anima |
e tutte le anime eran tutt'uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente
aveva un'opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, |
e di colpo sgusciava via, | aveva un vortice tra i capelli | e non faceva facce
da fotografo. Detto da
voce fuori scena su Musica: Bach, Ich ruf
zu dir, corale per organo BWV 639 www.youtube.com/watch?v=X9Dh43kVL1Q&list=RDX9Dh43kVL1Q#t=31
Rumore di sedie e di chiacchiere. L’aria è troppo chiara
per una sera d’estate, dev’essere un altro momento, un’altra stagione, forse un
altro luogo. In effetti, quella che ora percepisco, uscendo da una sorta di
torpore, è una sala grande, con finestre
ampie che guardano verso un parco. Alberi alti e montagne in lontananza.
Intorno a me, che come al solito non so chi sono, tante persone che
chiacchierano. Mi metto in ascolto e cerco di capire.
“Sono stati insopportabili tutta la mattina, non so come
faccia la Valfré a dire che siano simpatici. Sono i suoi cocchetti, d’accordo,
ma a me sembra che anche con lei facciano un casino della madonna”. “Sì, ma lei
non lo ammetterà mai, ha un rapporto sentimentale, è la loro rovina”. “Sì, è
vero, è dalla seconda che praticamente non permette che nessuno venga bocciato:
con due materie come le sue, il peso si fa sentire”. “E i genitori sono tutti dalla
sua parte, naturalmente, ascoltano solo lei, come peraltro i ragazzi: è comodo
avere un’insegnante così”.
“Iniziamo il collegio, adesso passerà il foglio firme”.
“Primo punto all’ordine del giorno: il piano dell’offerta
formativa del nostro liceo. Il Pof che d’ora in poi dovrà essere denominato
Ptof, piano triennale dell’offerta formativa. La professoressa Cavicchioli ci
presenterà il lavoro prodotto dalla commissione Ptof, già Pof, che ha lavorato
intensamente per tre mesi al fine di produrre quello che ora anche voi potrete
vedere. Poi spero che si apra una proficua discussione in merito.”
La professoressa Cavicchioli si avvicina al tavolo della presidenza e
impugna il microfono con aria decisa.
Quel che segue è un insopportabile sproloquio, con tanto di prolissa illustrazione d’un power point di 89 slides, il cui contenuto effettivo si potrebbe riassumere in un rutto e in una scorreggia, ma per obbedire a impellenti urgenze di verbalizzazioni si può onorevolmente così sintetizzare (l’Uso delle Maiuscole, da Questo Momento in poi obbedisce a URGENZE FUTURISTE, così pure la spaziatura, la sintassi e quant’altro di GRAMMATICALE e di TIPOGRAFICO vi sia sulla carta).
Quel che segue è un insopportabile sproloquio, con tanto di prolissa illustrazione d’un power point di 89 slides, il cui contenuto effettivo si potrebbe riassumere in un rutto e in una scorreggia, ma per obbedire a impellenti urgenze di verbalizzazioni si può onorevolmente così sintetizzare (l’Uso delle Maiuscole, da Questo Momento in poi obbedisce a URGENZE FUTURISTE, così pure la spaziatura, la sintassi e quant’altro di GRAMMATICALE e di TIPOGRAFICO vi sia sulla carta).
Il Regio Liceo Classico Blablabla ha quale motore
propulsivo
.ocittadid oppulivs e acrecir id oppurG ourgnoc nU
Si propone, come attività
qualificanti di
PREDISPORRE oiggarotinom id
inoiza volte a evidenziare necessità e criticità.
Qui viene il bellissimo, il
discorso si fa profondo [è una voce fuori scena, non si sa da dove venga, ma questa
è una visione di Guido Coppi che si è fatto un bel po’ di canne e non sa
neanche bene dove sia e chi sia, quindi tutto può essere accettato]
Obiettivi trasversali cognitivi Competenze,
eznecsonoc e abilità che si intendono perseguire a ollevil di ogni singolo
Consiglio di classe (come da normativa sul biennio: competenze per gli assi
culturali).
Competenze: acquisizione di una progressiva
autonomia di lavoro.
Abilità:
capacità sia orale sia scritta di esporre correttamente i contenuti
utilizzando il linguaggio specifico delle diverse discipline; potenziamento
delle capacità logiche e creative.
Conoscenze:
acquisizione di un corpo di conoscenze sistematiche nelle diverse
discipline e in interazione tra loro.
Luce su Guido che si
tira su dalla posizione fetale ridendo come un matto. Si rotola ripetendo
alcune parole come competenze, autonomia,
linguaggio specifico, capacità logiche e creative.
GUIDO ricomponendosi
Penso ai miei cinque anni e alle competenze che posso dire di aver raggiunto grazie alla scuola
(consideratelo il mio port-folio):
stare seduto per cinque-sei ore di fila su una sedia
senza cadere;
ascoltare gli antichi coglioni senza che dalla bocca
o dallo sfintere esca alcunché;
resistere a impulsi naturali quali dormire, mangiare,
bere, masturbarmi per più di un’ora per volta;
accettare che moltissimi argomenti che mi interessano
vengano bistrattati e deturpati da cervelli completamente refrattari al sapere;
simulare l’apprendimento forzato e dissimulare
l’amore vero per il sapere: Machiavelli sarebbe stato poco fiero di questa
distorta applicazione dei suoi insegnamenti.
PROFESORESSA
Adesso stai esagerando
GUIDO
Chi è? Il grillo parlante? Sono diventato Pinocchio? Lei è entrata senza che lui se ne accorgesse, la presidenza è di nuovo
arredata.
PROFESSORESSA
Esageri perché non è
assolutamente vero che in questi anni è stata la scuola a divorare la tua gioia
di vivere e di imparare. Sei stato tu a diventare sordo e ottuso, non so bene per
quale rivolta interiore, ma di sicuro ricordo bene quando è accaduto.
GUIDO
Se è così, perché non
me lo spiega?
Si siedono accanto a gambe incrociate
PROFESSORESSA
L’oprazione grandisonante si turbola sempre.
Non si previa l’orizzonte, non si grandola il mirto e nemmeno si visioprinzia
l’astrogolo. Combaciare gli arzingoli spericordia pochi cistupoli, benché non
saprivanti il gallo e proprio perché la risporia cispa.
GUIDO
Oddio, come Dante con
Cacciaguida nel XV canto che mi ha fatto morir dal ridere quest’anno:
all’inizio dell’incontro non si capisce un cazzo di quel che dice...eppure
parla e parla, ma Dante poverino non si raccapezza...
PROFESSORESSA ha notato che Guido ha guardato l’ora
Hai fretta di
andartene? Sono le nove e mezza, abbiamo tutta la notte da passare qua.
GUIDO
Quindi lei si sente coinvolta nella mia operazione di svelamento del reale,
nel mio progetto di desacralizzazione
(o sacralizzazione) del turpe recinto, non più sacro da centinaia d’anni?
Arriva Angelo. Questa volta barcolla
decisamente, ha l’occhietto lubrico ed è preoccupantemente paonazzo. Sulla
testa continua ad avere gli slip di pizzo, che gli danno un’aria interessante
da pirata. Si avvicina e si mette a declamare quella che parrebbe
essere una poesia di sua invenzione
ANGELO
MIRDAMARE
Rizzola, sul gravato
fesso, un caporalmaggiore.
Colate rabdomantiche,
imprìme raccole,
zoccole amate.
Cosa farai, sussurra il
cariovallo, dove verrai,
virbissa
incomprensibile...e da lontano vidima,
l’incorreggibile
sabello, mentre il vipranto
cola, cala, con ciglia
finte.
Vedi perché?
Non sai, eppur ti movi.
Mirdanni folti ti
vellicano i pianti...
Riprendi il pelo, il
varco non è qui
Ripullula il frangente...”
PROFESSORESSA
Bravo Angelo, vedo che
hai seguito il mio suggerimento di leggere gli Ossi di seppia e Mirdamare è uno dei miei preferiti.
Nessuno come Montale
riesce a evocare le raccole e le zoccole con sapiente gioco incantatorio. Ti
lascia sempre il dubbio che il Varco sia lì, l’anello che non tiene, ma poi i
mirdanni incalzano, la verità del pelo è troppo forte, e l’onda del mare, il
mare che è dentro tutti noi, travolge ogni certezza.
Guido è perplesso. Gli sembra che stia succedendo qualcosa di strano e
decide di farsi una striscia di coca in bagno. Appena ne esce, percepisce una scroscio di risate
femminili: il dipartimento di matematica, nella persona di due insegnanti, lo
assale...Quando torna in vicepresidenza, trova anche il preside, salito sulla
scrivania: è a piedi nudi e sfoggia anche lui slip neri sulla testa, come
Angelo e la professoressa. Guido si dirige verso il cassetto della scrivania e
ne tira fuori un altro paio, che indossa come loro. MUSICA: Bennato,
Il rock di capitan uncino...ballano https://www.youtube.com/watch?v=nnzgBvpiuFY
PRESIDE Non ha più né il tic né il difetto di
pronuncia
Sento l’urgenza di
parlarvi. Mi rendo conto di aver sbagliato qualcosa. Ho sentito di colpo
l’esigenza di fare una capriola. Come Dante (che sarà una presenza
fondamentale) al fondo dell’inferno per poter vedere le stelle. Ebbene sì, la
scuola ha bisogno di essere rovesciata, io ho bisogno di essere rovesciato, per
potervi finalmente vedere come siete, per poterci finalmente vedere come siamo.
Si mette a testa in giù Angelo e la professoressa
prorompono in uno sfrenato applauso. Guido è basito. Il preside, tornato in
piedi, riprende a parlare. L’analogia fra scuola e carcere non è nuova. Se
è vero, come scriveva Dostoeskij, che il grado di civilizzazione di un paese si
misura dallo stato delle sue prigioni, è anche vero che luoghi che dovrebbero
collocarsi ai loro antipodi sono le scuole. Su entrambi i fronti la nostra
società è fallimentare e il suo grado di civiltà può essere considerato vicino
allo zero: dietro al muro della prigione, succede di tutto, tutto quello che
noi stentiamo a immaginare o, comunque, non vorremmo mai vedere. D’altro canto,
possiamo dire unitamente noi, intendo studenti e alcuni insegnanti insieme,
oltre a dirigenti scolastici che io in questo momento rappresento, in veste di
pirata della Malesia, l’organizzazione
scolastica è rimasta nel tempo, dal Settecento (quando se ne lamentavano
gli illuministi) a oggi sostanzialmente invariata, plasmata su un modello
carcerario, fatto di campanelli che scandiscono l’andamento della giornata, di
costrizioni del pensiero e dell’immaginazione che invece lo studio dovrebbe
stimolare e alimentare per aiutare a essere persone, cittadini attenti, vivaci,
profondi, interessati agli altri, al mondo a se stessi nel modo più proficuo
per sé e per gli altri. Zone temporaneamente autonome, per intenderci, frutto della teorizzazione di Hakim Bey, spazi in cui i pacefondai creano possibili
felicità, luoghi in cui il corpo, il pensiero e la parola rappresentano un
circuito integrato, sensitivo, forse sensuale, in grado di impegnare la
totalità dell’essere: esperienze olistiche, per riassumere.
Adesso voglio
condividere con voi una mia passione.
GUIDO
Gesù, cosa sta
succedendo. Il burocrate ha proprio subito una metamorfosi sostanziale: è
diventato un cultore del pensiero anarchico di matrice sessantottina. Cita
Hakim Bey e dichiara di nutrire passioni
e di volerle condividere.
PRESIDE
“Cosa ci volete fare se
avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti,
all’improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste
d’un tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi
bruciasse dentro, spandendo una pioggerellina di scintille in ogni intima
fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi?” Leggo sempre questo stralcio dal
racconto della Mansfield, quando voglio parlare di felicità.Non solo per la
diretta pertinenza del titolo, ma proprio per questo singolo periodo, che mi
piace recitare come un mantra, la parola sanscrita che significa preghiera
nella filosofia buddista. Luce che brucia intensamente, pioggia che pervade
ogni intima fibra, nessuno spazio vuoto, pienezza dell’io, carpe diem correttamente inteso. La
felicità ha dunque a che vedere necessariamente con la libertà interiore, e
anche l’arte, nelle sue svariate declinazioni, certo non ne può
prescindere. Anzi, lei ha sempre bisogno di libertà e in tutte le occasioni storiche
in cui questa sia venuta meno, per ragioni politiche o per via di decadenza
culturale, ha subito arresti di sviluppo, stagnazioni.
Si potrebbe
pensare che la libertà interiore sia inattaccabile, che il ferro rovente del
controllo, della censura, non possa addentrarsi nelle pieghe dell’anima, ma è
facilmente dimostrabile che questo non è vero. Tant’è, che nel Novecento
artisti italiani, tedeschi, dell’Unione Sovietica sono emigrati dai loro Paesi
all’interno dei quali vigevano meccanismi di controllo autoritario della
cultura, per cercare altrove possibilità di esprimersi. Altrove. Ecco un punto
che non toccherò direttamente oggi, ma resterà in controluce: dove potrebbe
essere l’altrove in cui scappare, oggi, per trovare la libertà che cercavano lo
scrittore Thomas Mann in fuga dal totalitarismo hitleriano o il
violoncellista Rostropovich da quello sovietico. Forse l’altrove sono le zone
temporaneamente autonome.
Ma voglio dirvi anche
un’altra cosa. La scuola deve essere un luogo in cui ci si guarda e ci si vede
sul serio. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. Ha scritto Kundera che a seconda del tipo di
sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro
categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di
occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico. La seconda categoria è composta da quelli che
per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti. C'è
poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere
davanti agli occhi della persona amat. E c'è infine una quarta categoria, la
più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone
assenti. Sono i sognatori. I sognatori odiano la compostezza e
l’automatizzazione, non si appagano di capire il congegno dell’universo, non
vogliono mai concludere, ma preferiscono iniziare, scandagliare, interrogare,
interrogarsi, non sapere, dubitare...Sognatori che Dante avrebbe di sicuro
sistemato nel quinto cielo, quello di Marte, degli spiriti battaglieri e
indomiti, abitati da quello di memoria giovannea, spiritus ubi vult spirat...Loro io amo, a loro vorrei che la scuola
si rivolgesse con la sua luce: anime sconclusionate, irrequiete, in una stato
di fusione continua, che odiano rapprendersi, irrigidirsi in una forma
determinata. Anime che sanno cosa voglia dire Pirandello quando scrive che la
vita è uccisa dalla forma e che questa è la sua compiuta negazione.
Buio poi luce tenue: Guido sdraiato
a terra. La stampante emette un
foglio ma a leggerlo è una voce fuori scena. Si potrebbe di nuovo sentire la
cantata di Bach in sottofondo. www.youtube.com/watch?v=X9Dh43kVL1Q&list=RDX9Dh43kVL1Q#t=31
Pratica le profondità del tuo io, cerca di essere integralmente presente
nel qui e ora, ascolta la voce del desiderio di apprendere, ama l’intero
processo nel quale sei coinvolto, storna l’attenzione dai risultati che non
possono essere l’esclusivo motivo della tua applicazione, ma uno dei tanti e
nemmeno il più importante. Un insegnante che prenda le tue misure e
niente altro potrebbe essere un computer: certo, un sistema meritocratico
lo promuoverebbe insegnante dell’anno e gli assegnerebbe un posto dirigenziale,
sollevandolo dall’insegnamento.
Le grandi opere, le grandi scoperte sono sempre frutto di un incrocio fra “due culture”: è l’orizzonte che deve essere
unitario. Analogamente è molto rischioso ascoltare le sirene incantatrici che
innalzano i loro richiami al dominio quasi esclusivo della
contemporaneità: se ci lasciamo schiacciare sul piano del presente, in una
sorta di Flatlandia dello
spirito, oltre a perdere
ogni prospettiva critica sul medesimo, rischiamo di non riuscire nemmeno a
metterlo a fuoco con precisione. La cultura umanistica può aiutare, a partire
dalle urgenze poste dall’attualità, a riannodare il filo fra passato e futuro.
Senti l’atavico istinto che dovrebbe portarci a uscire
dall’addomesticamento e ritrovare uno spirito che è esistito e molti di noi
hanno ancora in se stessi: è un istinto rivoluzionario, nonché trasgressivo.
Alludo alla trasgressione che è insita nella poesia, nella letteratura, quella
che sposta lo sguardo, fa assumere continuamente nuove prospettive, riesce a
creare nuove forme, porta fuori dai propri angusti confini, fa sperimentare la
libertà, accende gli sguardi, riempie i cuori, non addormenta gli spiriti,
rende le aule luoghi aperti al mondo, nel passato, nel presente e nel futuro.
IV
All’inizio dell’atto ci sono banchi disposti a ferro di cavallo in
prossimità dell’inferriata schermo: la situazione è quella dell’esame di Stato,
Guido sta firmando di fronte al presidente e gli altri sei insegnanti, interni
e esterni, sono seduti ai lati, e tutti
stanno guardando il loro telefonino. Durante l’esposizione di Guido uno (o una)
dei commissari si addormenta e scivola sulla spalla del suo collega, ma a un
certo punto, quando Guido dice “cazzo” tutti devono avere un soprassalto di
interesse)
PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE con
compiaciuta bonomia
Le rammento, Guido
Coppi, che lei ha a disposizione dieci minuti per la sua esposizione, sappia
regolarsi, può iniziare.
GUIDO
Il titolo della mia
tesina è I maestri senza luce. Mentre
parlerò farò scorrere in queste slide che ho preparato i testi di due canzoni,
che mi sono sembrate pertinenti all’argomento
sviluppato. Una veloce analisi di entrambe rappresenterà il mio punto di
partenza.
prima slide
Giorgio Gaber, I padri miei, da Polli d’allevamento,
1978-1979 (cantata dal vivo, magari dietro a schermo...)
I padri miei i padri che ci ho avuto io
erano seri e prudenti
gli abiti grigi i modi calmi e misurati
persino nei divertimenti.
erano seri e prudenti
gli abiti grigi i modi calmi e misurati
persino nei divertimenti.
Parlavano con le donne di casa
con quell’aria da vecchi padroni
quel tanto di distacco e di superiorità.
con quell’aria da vecchi padroni
quel tanto di distacco e di superiorità.
I padri miei appassionati di
poesia
nei loro antichi appartamenti
sotto le lampade di vetro a sospensione
dietro discreti paraventi
nei loro antichi appartamenti
sotto le lampade di vetro a sospensione
dietro discreti paraventi
Parlavano e discutevano
come vecchi europei ammuffiti
imprigionati dal glicine e dalla stupidità.
come vecchi europei ammuffiti
imprigionati dal glicine e dalla stupidità.
GUIDO
Dal 1979 a oggi sono
trascorsi 36 anni. Un tempo sufficiente perché i padri miei che Gaber evoca
siano diventati quasi centenari, nonni o bisnonni per uno della mia età. Persone serie e monolitiche, poco disposte al
confronto e al cambiamento, convinte di aver già fatto tutto loro (la guerra,
la resistenza, la ripresa con le maniche rimboccate) e di doversi solo
aspettare di essere rispettati e obbediti. Diventati statici e ammuffiti, con
un glicine intorno che rischiara ma non disperde la certezza di una stupidità, fors’anche contagiosa. Quei padri
stavano lavorando per il mantenimento di uno status quo, quello che avevano deciso loro, i cui capisaldi
conoscevano perfettamente e che ritenevano giusto trasmettere ai loro figli.
Democristiani, liberali o comunisti che fossero, erano squadrati e prevedibili,
come una medicina accompagnata da foglietto illustrativo, in cui vieni
informato anche di tutti gli effetti collaterali.
seconda slide
I padri miei i padri che ci ho
avuto io
in un’Italia un po’ strana
non han potuto fare a meno di sognare
l’Africa orientale italiana.
in un’Italia un po’ strana
non han potuto fare a meno di sognare
l’Africa orientale italiana.
Nei padri miei c’è un'aria che
assomiglia
alle foto dei vecchi bersaglieri
che mostrano a colori la loro dignità.
alle foto dei vecchi bersaglieri
che mostrano a colori la loro dignità.
I padri miei non ispiravano
allegria
chiudevano le porte a tutto
e per i giovani vivaci esuberanti
non avevano nessun rispetto.
chiudevano le porte a tutto
e per i giovani vivaci esuberanti
non avevano nessun rispetto.
Punivano e perdonavano
come vecchi maestri di scuola
suggestionati dal cuore
e dalla moralità.
come vecchi maestri di scuola
suggestionati dal cuore
e dalla moralità.
Ma avevano una certa
consistenza
e davano l’idea di persone
persone di un passato
che se ne va da sé.
e davano l’idea di persone
persone di un passato
che se ne va da sé.
Nella prevedibilità di
quei padri antichi, per uno della mia generazione, è contenuta una facilitazione: conosci il tuo
interlocutore e puoi opporgli resistenza, in ogni caso. Conosci il tuo nemico,
e puoi combatterlo. La consistenza è importante, anche se si accompagna alla
mancanza di rispetto, del quale si può fare a meno, soprattutto se non si
intende a propria volta provarlo. I figli (miei padri) di questi soggetti non
avevano molto spazio comunicativo, in molti casi, ma sapevano con chi avevano a
che fare: se di nemico si trattava, era un nemico visibile, non un ultracorpo
mimetizzato, non un metamorfico e subdolo virus.
terza slide
I padri tuoi i padri tuoi
i padri come potrei essere io
non sono austeri e riservati
si vestono più o meno come noi
sono padri colorati
i padri come potrei essere io
non sono austeri e riservati
si vestono più o meno come noi
sono padri colorati
I padri tuoi si sentono vicini ai
tuoi problemi
parlandone così da pari a pari
senza fare i signori senza falsa dignità.
parlandone così da pari a pari
senza fare i signori senza falsa dignità.
I padri tuoi
di cosa mai li puoi rimproverare
non certo di un’assurda incomprensione
nemmeno di cattiva educazione o di abuso di potere
I padri tuoi
che sembrano studenti un po’ invecchiati
non hanno mai creduto nel mito
del mestiere del padre nella loro autorità.
che sembrano studenti un po’ invecchiati
non hanno mai creduto nel mito
del mestiere del padre nella loro autorità.
GUIDO
Sì, padri colorati, padri che non si possono
rimproverare perché non ti sgridano mai, o poco, o per niente autoritariamente
e di rado autorevolmente; non abusano di potere perché non ne hanno, neanche su
se stessi. Non sanno più chi sono, non hanno più miti, non hanno certezze e ci
guardano come fossimo loro coetanei, trasformano la loro invidia per la nostra
forza, per la nostra giovinezza in un’autocompiaciuta assoluzione. Stolti e
impotenti.
quarta
slide e quinta slide
I padri tuoi nel ruolo di moderni
animatori
son tutti diventati libertari
collezionano invenzioni innovazioni e attualità
[...]
son tutti diventati libertari
collezionano invenzioni innovazioni e attualità
[...]
I padri come potrei essere
io
come potrei essere io
come potremmo essere noi
spalanchiamo le porte a tutto
per il progresso del mondo
come potrei essere io
come potremmo essere noi
spalanchiamo le porte a tutto
per il progresso del mondo
Noi che non siamo certo padri
fascisti
padri autoritari
liberi e permissivi
non rappresentiamo vecchie istituzioni
spalanchiamo le porte a tutto
per il risveglio del mondo
padri autoritari
liberi e permissivi
non rappresentiamo vecchie istituzioni
spalanchiamo le porte a tutto
per il risveglio del mondo
Noi così impegnati così pieni di
rigore
allegramente noi compriamo
biciclette da cross per i nostri figli
spalanchiamo le porte a tutto
per l’esultanza del mondo
del solito mondo [...]
allegramente noi compriamo
biciclette da cross per i nostri figli
spalanchiamo le porte a tutto
per l’esultanza del mondo
del solito mondo [...]
Noi che continuiamo a regalare
centinaia di palloni biliardini e macchinine giapponesi
spalanchiamo le porte a tutto
per lo sviluppo del mondo
centinaia di palloni biliardini e macchinine giapponesi
spalanchiamo le porte a tutto
per lo sviluppo del mondo
Noi che non facciamo nessuna
resistenza
e che ci stravacchiamo nel benessere
e nella mascherata della libertà
spalanchiamo le porte a tutto
per il trionfo del mondo
del solito mondo del solito mondo
e che ci stravacchiamo nel benessere
e nella mascherata della libertà
spalanchiamo le porte a tutto
per il trionfo del mondo
del solito mondo del solito mondo
GUIDO
Ecco l’intuizione:
questi padri spalancano le porte a tutto, non c’è più filtro, non c’è più
intendimento delle cose, non c’è più possibilità di scontro ma neanche di
incontro. Questi padri condividono. E
non c’è peggior cosa, mi viene da dire, badate, proprio a me che ho diciannove
anni nel 2015, che faccio parte della generazione dei connessi, così piace dire
al mainstream, non c’è peggior cosa
che condividere. Questo condividere deturpato, stuprato, capovolto ma senza
ironia. Un condividere che sottintende mi
sto esaltando, sto parlando di me, della mia persona, del mio sentire, del mio
io, dato che del tuo non me ne fotte un cazzo, non ho
nemmeno capito come sei e chi sei, se ti incontrassi fuori di qui non ti
riconoscerei nemmeno, io cerco solo pezzi di specchio per riflettermi e la
condivisione è questo, offrirmi e offrirti pezzi di specchio, in cui
contemplarti e credere di capire qualcosa. Intanto il mondo non procede, ma
si solidifica, si comprime tutto in
punto, la gabbia si stringe intorno a tutti e le sbarre lasciano penetrare
parole d’ordine ossessive, che allontanano la vita vera, la costringono a
essere intrisa di lavoro, di orari, di obiettivi di produttività¸di qualità
che rispetti le regole stabilite, di eccellenza.
Ti ripetono che devi diventare competitivo,
che devi superare tutti gli altri nel fare qualche cosa, qualsiasi essa sia,
anche le più dozzinali, le più cretine, ma, quel che è peggio anche le più
nobili e belle. L’effetto nefasto dell’addensamento di tutto, di un buco nero
di cui tu sei ancora per poco un osservatore, situato in prossimità
dell’orizzonte degli eventi, ma destinato presto al risucchio.
Addio luce, addio
comunicazione.
Così sono arrivato al
tema centrale della mia tesina. La scuola senza luce, il buco nero
dell’istruzione, che chiamano formazione, crescita, maturazione, educazione alla cittadinanza, al
pensiero, allo spirito critico e quant’altro. Recitano, alcune altisonanti
dichiarazioni ministeriali da me doverosamente consultate, che la scuola avrebbe un indiscusso ruolo chiave per lo sviluppo delle
giovani generazioni. Deterrebbe la responsabilità di formare persone
responsabili, ricche sul piano culturale e umano, capaci di rinnovare e
sviluppare sinergie nuove tra l’uomo e l’ambiente, nella prospettiva di un
cambiamento sostenibile. Le giovani generazioni, declamano le medesime,
detengono le speranze future del mondo. E poi proseguono a straparlare della
funzione che avrebbe, secondo loro, l’arte: la forma più complessa e autentica
con cui l’uomo da sempre si è espresso e ha cercato risposte. Costruire e
valorizzare gli spazi artistici nella scuola è uno dei progetti di cui vanno
miseramente cianciando.
Che nobili e lodevoli intendimenti. Quante belle parole,
godibili solo in astratto. Ma, penso io,
occorre sempre chiedersi come
e, forse preliminarmente, perché. In
aggiunta, come spesso mi è venuto da dire (oltre che pensare) in questi cinque
anni: di che cosa stiamo parlando esattamente?
Ecco, allora, il
momento di arrivare ai maestri senza
luce. Sì, lo vedo che vi state facendo dei cenni per dire che il mio tempo sta
per scadere, ma io devo riuscire a concludere il mio ragionamento e, pertanto,
fare ancora un salto nel passato lontano.
Indietro, a recuperare
Dante. C’è una terzina, nel Purgatorio,
in cui si trova la radice del mio malcontento, del mio turbamento, del mio
rifiuto dell’istituzione scolastica. Ed è un’immagine meravigliosa, un’immagine
pregnante.
Facesti
come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte, 69
quando dicesti: ’Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova’. 72
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte, 69
quando dicesti: ’Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova’. 72
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.
Stazio, nel XXI canto,
rende omaggio a Virgilio per il fatto di avergli illuminato un cammino,
senza trarne lui stesso giovamento, un portatore di luce immerso nel buio, non
uno che condivide, per riprendere il collegamento con quanto dicevo prima, uno
che apre le strade ma non lo fa preoccupandosi del suo tornaconto. Questa
generosità illuminante, questo inno all’umano nella sua radice più pura è stata
la mia grande illusione. Perché io sono arrivato qui, in questo liceo, pensando
di trovare non una, ma diverse guide che sapessero finalmente spalancarmi
orizzonti.
Invece ho trovato voi. I maestri senza luce.
E adesso siete costretti ad ascoltarmi, non potete nemmeno
chiamare la polizia, anche se io adesso vi stupirò con un gesto che non avevate
preventivato. Sparerò a ognuno di voi, mirando per bene alla fronte, come ho
imparato a fare in giorni e giorni di allenamento con la beretta di mio padre,
ereditata da mio nonno partigiano
(collaborazione fra generazioni). Ve la punterò addosso velocemente, e voi, che
ancora non credete a quello che dico, non farete in tempo a reagire. Nessuno
dei vostri sguardi manifesta ancora preoccupazione, e questo è molto
significativo. Siete certi di essere al
sicuro, che una generazione di sdraiati, come siamo stati definiti noi, di
capiti e accompagnati, di ragazzi bene che frequentano un liceo centrale di una
metropoli ancora benestante, non possa avere tentazioni così estreme, non possa
commettere atti di questa portata.
Vi sbagliate, è chiaro. E ve ne dovrete rendere conto.
Ora qualche vostro sguardo è un po’ inquieto. Ma prevale
l’idea che io faccia teatro, che abbia letto Il sopravvissuto di Scurati, qualcuno di voi lo conoscerà pure. Sì,
è vero. Non ho una beretta nascosta da qualche parte e sto recitando un copione già scritto. Anni di
letteratura hanno operato su di me come su Emma Bovary o su Andrea Sperelli.
Non mi è facile uscire dal vortice
metaletterario, evitare il citazionismo, non confondere l’arte con la vita e la
vita con l’arte, purtroppo senza che lo spirito dei tempi mi aiuti come
all’epoca dei decadenti. Grazie a voi, maestri senza luce, tutto è orribilmente
spento. Non è possibile dire e fare
niente che non suoni stonato o già sentito. Quanto a quelli che vogliono
provare a fare parodie, con una realtà
di per sé farsesca c’è poco da fare. La si riproduce e potrebbe già far
ridere, non fosse appunto che è una riproduzione, le manca il pregio
dell’operazione volta al riso, le manca il pregio dell’arte. Allora ecco la mia
pistola, che punto sulle vostre facce ora un po’ stupite. L’ultima slide del
mio power point. Sarebbe valsa la pena
animarla, ma non ho voluto trovare il tempo per farlo. Mi sarebbe parso
sprecato, dato che l’avrei fatta vedere solo a voi.
Ultima slide
IL DIRITTO DELL’ESSERE UMANO AL SACRO
DESIDERIO
FESTA
LIBERTÀ
GUIDO
Chissà cosa vi
aspettavate. Vedo spuntare sorrisetti di commiserazione. Naif, state pensando, già sentito già letto già superato. Un figlio
dei fiori del XXI secolo.
Sbagliato. Intanto
faccio notare l’essere umano, che è
di per sé un binomio pregnante. Essere
umano, ovvero chi non pensa che avere
sia l’unica maniera di stare al mondo. E poi umano, ossia di là dal genere, dalla determinazione forzata,
radicato nella terra, nato da lì come lì destinato a tornare. Quindi il
richiamo al sacro. Finalmente. Un ritorno, anche qui, alla radice,
all’ancestrale. Quanto avrei voluto che qualcuno ci parlasse a fondo dei cosiddetti libri sacri. Ma non è tempo di
recriminare, procedo. Nell’essere umano convivono la forza e la necessità
dell’esistere, che si articolano nella mia ultima intuizione su tre piani di
possibilità, altrettanti inviti a
prendere contatto con la memoria, restare vivi nell’istante, darsi
l’opportunità di esistere nel futuro.
Le tre parole d’ordine non sono in ordine. Il
desiderio è una linfa che scorre ovunque, senza di lui non esiste la vita.
Imparentato con le stelle, alimentato dallo sguardo che sa, vuole, decide, di
volgersi nelle direzioni in cui spira anche lo spirito. Sempre in festa per non
dimenticare quello che la parola significa originariamente: anche lei connessa
con il sacro, quello che gli esseri umani hanno ancestralmente saputo
identificare come tale. Il mondo della natura, non deturpata e asservita, non
contaminata e storpiata ma accolta nel suo essere in sé, sintesi del molteplice
e espressione del medesimo nella sua varietà.
La base ha da essere
(unico imperativo ammesso) la libertà. Nessuno può dare ordini alla natura,
nessuno può ordinare di esistere, né di desiderare, né di festeggiare. Ma
coltivare naturalezza, festosità, desiderio, coltivare il senso del sacro, è quanto io auspico per me e i miei compagni
che oggi usciremo finalmente da questa prigione del pensiero, in fuga da tutti
quanti voi, maestri senza luce.
Si fa buio all’improvviso.
Nel
buio deve sparire tutto. Deve rimanere solo una sedia davanti all’inferriata
sulla quale si trova seduto Guido. Durante il cambiamento di scena Iggy Pop, The Passenger. www.youtube.com/watch?v=hLhN__oEHaw
GUIDO
Sto
seduto scompostamente su una sedia a cui
manca una gamba. Cerco una posizione che mi assicuri stabilità, ma un battito
di ciglio, un respiro, a volte un pensiero intervengono feroci a sbilanciarmi.
Così, muovendomi su di essa come un ubriaco, ho la sensazione di trovarmi su
una barca, e mi metto a immaginare una distesa quasi infinita, dove grandi onde
mi cullino. Penso di perdermi. Penso che vorrei perdermi per sempre in questo
oceano. Bateau ivre destinato a un
ignobile naufragio in una pozzanghera.
Non
so cosa farò. Forse resterò qui appollaiato ancora per un po’, guardando un
bicchiere pieno d’acqua che ho collocato sul davanzale della finestra dalla
quale vedo estendersi uno scenario post-metropolitano, torri improbabili
mescolate a ex fabbriche ricoperte di graffiti, campi verdeggianti, piccoli
pioppi qua e là.
E
io.
Io.
Io
che bevo di colpo l’intero contenuto del mio bicchiere. Io che sento di non
aver colto un’occasione importante. Io che sento di essere stato dimenticato da
qualcuno che avrebbe dovuto prendermi a cuore come il suo figlio prediletto. Ma
forse anche lui (poteva pure essere una lei) non mi ha visto, magari stavo
oscillando sulla mia sedia, o un’onda dell’oceano in cui mi cullavo era troppo
alta e occultava la mia presenza lì, in quella pozzanghera postmetropolitana.
Fatto
sta che adesso devo finalmente fare
qualcosa. Sarà la scritta finale nell’atrio della scuola a decidere cosa
sarà della mia vita. Il mio atto d’amore
vero, dopo tutto questo tempo trascorso a maturare oltraggi, senza agire.
Potrebbe essere
rimasto di sottofondo Iggy Pop e poi riprendere prima che arrivi la
professoressa. Mentre lei parla Guido deve rimanere seduto un po’ accasciato
poi forse lei deve farlo alzare.
PROFESSORESSA
Chiaro
che non possa essere Guido Coppi, studente maldestro e velleitario, sognatore
nostalgico e malinconico, refrattario
alla redenzione, a scrivere l’ultima pagina di questa storia sgangherata. Guido
Coppi che è giovane e vecchio al contempo, è nato in un anno imprecisato, a partire
dalla metà degli anni sessanta, non è mai maturato completamente, e si ritrova
nel 2015 a immaginare di essere chiuso
nella scuola dove ha sofferto, davvero,
un infinito quinquennio, per raccontare a tutti la sua rivolta
impossibile.
Devo
essere io, la professoressa mai esistita, che lui si è inventata in giorni
e giorni di profonda insoddisfazione. Devo essere io, che ho letto con lui, nei
suoi occhi, attraverso i suoi occhi e nella sua anima compressa e scapigliata,
in una confusione impossibile eppure proficua, Pasolini, Borges, Dante, Boezio,
Ariosto, Tasso, Lucrezio, Properzio, Ovidio, Pirandello, Calvino, Perec,
Leopardi, Pascoli, Omero, Virgilio, Calderon de la Barca. E tanto altro. Non solo nomi, per chi sa
leggere nell’anima, né solo epoche e stili e modi di stare al mondo, ma giochi
dell’intelligenza che si specchia, si ritrova e si alimenta senza offendersi e
senza offendere.
Ma
penso, ora, d’un tratto, che nemmeno io
sia adatta a questa operazione importante che Pirandello rifiuta, la
conclusione di una storia. La più adatta è senza alcun dubbio Pannychis XI, la
vecchia Pizia che si è presa magistralmente beffe di tutti, senza trascurare
nemmeno se stessa.
Pannychis
sa scrivere nell’aria, nel vento, nell’acqua, nel fuoco, lei non teme lo
scorrere del tempo come capita a me, lei è davvero padrona della sua anima
perché ha saputo rinunciarvi alcuni millenni or sono, figlia di Democrito, un
po’ meno di Aristotele. Pannychis non
teme la perdita della vista perché possiede quella interiore, non teme la
paresi degli arti perché se vuole può attraversare anche i muri, non teme la perdita della lucentezza dei
capelli, la comparsa delle rughe, lei è una sibilla senza tempo, può stabilire
come essere in ogni istante, ma soprattutto lei sa parlare e sa scrivere, con
poca punteggiatura, come deve essere la scrittura dell’anima. Che non prende
fiato e vien fuori come una vampa, una fiamma, un rogo, di quelli che
illuminano la notte e non possono venire spenti. La scrittura di Pannychis è
come la torcia di Mizoguchi: la notte si spalanca per accogliere la sua
rivelazione e domattina resteranno le braci a scintillare, e poca cenere a
volare nell’aria.
Mio
caro [si avvicina a lui], hai ragione tu: devi smettere di stare
scompostamente seduto, devi alzarti e andare fino al davanzale, così potrai
vedere l’incendio che sono riuscita ad appiccare, facendo una cosa molto
semplice ma inattesa, una cosa che Pannychis sa fare meravigliosamente, con la
sua bocca senza denti.
Ridere.
Ridere
di sé, di me, di te, di loro, di tutto.
Dice
Pannychis che il riso echeggia nelle volte del tempo, e forse il mondo è nato
dalla risata di un dio ebbro di sé, divenuto improvvisamente fecondo. Ora si
tratta di ridere di questa vetusta messinscena, di smascherarla perché possa
finalmente risorgere dalle sue ceneri. Ecco la luce che andavi cercando, il
fuoco che avresti voluto ti accendesse l’anima e l’intelligenza: è lei a
prestarceli ora perché è ancora
possibile che tutto si illumini e non
tutto sia perduto. MUSICA Lou Reed, The
perfect day. https://www.youtube.com/watch?v=QYEC4TZsy-Y
agosto 2017
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