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Qui fit,
Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
o fortunati mercatores gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;
contra mercator, navim iactantibus Austris,
militia est potior. quid enim? concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta.
agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
cetera de genere hoc adeo sunt
multa loquacem
delassare valent Fabium. ne te morer, audi
quo rem deducam. Si quis deus en ego dicat,
iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. eia,
quid statis? nolint: atqui licet esse beatis.
quid causae est, merito quin illis Iuppiter ambas
iratus buccas inflet neque se fore posthac
tam facilem dicat, votis ut praebeat aurem?
[…]
At bona pars hominum decepta cupidine falso
"Nil satis est", inquit, "quia tanti quantum habeas
sis":
quid facias illi? Iubeas miserum esse, libenter
quatenus id facit: ut quidam memoratur Athenis
sordidus ac dives, populi contemnere voces
sic solitus: "Populus me sibilat, at mihi plaudo
ipse domi, simul ac nummos contemplor in arca".
Tantalus a labris sitiens fugientia captat
flumina - quid rides? Mutato nomine de te
fabula narratur: congestis undique saccis
indormis inhians et tamquam parcere sacris
cogeris aut pictis tamquam gaudere tabellis.
Nescis, quo valeat nummus, quem praebeat usum?
Panis ematur, holus, vini sextarius, adde
quis humana sibi doleat natura negatis.
An vigilare metu exanimem, noctesque diesque
formidare malos fures, incendia, servos,
ne te conpilent fugientes, hoc iuvat? Horum
semper ego optarim pauperrimus esse bonorum.
At si condoluit temptatum frigore corpus
aut alius casus lecto te adflixit, habes qui
adsideat, fomenta paret, medicum roget, ut te
suscitet ac reddat gnatis carisque propinquis?
Non uxor salvum te volt, non filius; omnes
vicini oderunt, noti, pueri atque puellae.
Miraris, cum tu argento post omnia ponas,
si nemo praestet, quem non merearis, amorem?
[…]Denique sit finis quaerendi, cumque
habeas plus,
pauperiem metuas minus et finire laborem
incipias, parto quod avebas, ne facias quod
Ummidius quidam; non longa est fabula: dives
ut metiretur nummos, ita sordidus, ut se
non umquam servo melius vestiret, ad usque
supremum tempus, ne se penuria victus
opprimeret, metuebat. At hunc liberta securi
divisit medium, fortissima Tyndaridarum.
"Quid mi igitur suades?[…]: non ego
avarum
cum veto te, fieri vappam iubeo ac nebulonem:
[,,,]
est modus in rebus, sunt certi denique fines,
quos ultra citraque nequit consistere rectum.
[…]
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UNA TRADUZIONE RISALE AI PRIMI DELL’OTTOCENTO, UNA
AL 1981 E UNA
L’HO
REALIZZATA IO:RICONOSCETELE!
TRADUZIONE 1
Com’è,
o Mecenate, che nessuno vive contento della sorte,
che
la ragione gli ha dato o il caso gli ha gettato davanti, e tutti
invece
non fanno che esaltare chi persegue una vita diversa?
“Fortunati
i mercanti” dice il soldato appesantito dagli anni,
le
membra ormai rotte dalla lunga fatica.
E
il mercante, da parte sua, mentre gli Austri sballottano
la
nave “Meglio soldato. Che cos’è, in fin dei conti? Ci si scontra: nel
volger
d’un’ora viene rapida la morte o la vittoria gioiosa”.
Fa
l’elogio del contadino l’esperto di diritto e di leggi,
quando
sul cantare del gallo, il cliente gli batte alla porta.
L’altro,
invece, che per aver presentato malleverie, viene tratto a forza dalla campagna
in città,
va
proclamando felice soltanto chi vive in città.
Gli
altri casi di questo genere varrebbero, tanto son numerosi, a sfinire
una
lingua come quella di Fabio. Per farla breve, ascolta
dove
vado a parare. Se un dio dicesse: “Ecco,
ora
farò ciò che volete: sarai mercante, tu ch’eri pocanzi soldato,
tu
prima giureconsulto, sarai campagnolo. Voi da questa parte,
voi
andate da quest’altra, a ruolo scambiati. Ehi,
che
fate lì impalati?”, non vorrebbero. Eppure è dato loro di essere felici.
E
allora, c’è ragione perché Giove, giustamente adirato,
non
debba gonfiare tutt’e due le guance e dire
che
d’ora in avanti non sarà più tanto condiscendente da porgere orecchio alle
preghiere?
[…]
Eppure
buona parte degli uomini, sviata da un desiderio ingannevole,
“niente
è mai abbastanza”, dice, “perché quanto hai, tanto vali”.
Che
gli vuoi fare a un uomo così’ Lascialo alla sua miserabile vita,
dal
momento che così gli piace, come quel tale di Atene che,
si
racconta, spilorcio e ricco, era solito sprezzare le critiche
della
gente con queste parole: “Il popolo mi fischia, ma io da me stesso mi batto le
mani,
a
casa mia, appena mi metto a rimirare i denari nella cassa.”
Tantalo,
assetato, cerca di catturare l’acqua del fiume che gli fugge via dalle labbra.
Che
ridi? Cambia il nome, è di te che parla la storia: sui sacchi che hai
ammucchiato
da
ogni parte ci passi anche la notte a bocca aperta e ti fai forza a rispettarli,
come fossero reliquie, e a trarne il piacere che si prende dai quadri dipinti.
Non
sai a cosa serva il denaro, i vantaggi ch’esso può procurare?
Compraci
il pane, le verdure,un mezzolitro di vino, aggiungi
le cose che la natura dell’uomo soffre a
vedersinegate.
O
forse vegliare senza fiato per la paura, vivere e notte e giorno nel terrore
dei
maledetti ladri, degli incendi, degli schiavi,
che
non t’abbiano a saccheggiare la casa e scappar via, è questo che ti piace?
Di
beni siffatti io sempre preferirei essere il più povero al mondo.
Ma
se il corpo attaccato dai brividi ha preso a dolerti,
o
se qualche altro malanno ti ha costretto a letto, hai tu
chi
ti assista, prepari gli impiastri, chiami il medico,
perché
ti rimetta in piedi e ti restituisca ai figli e ai cari parenti?
Non
ti vuol salvo tua moglie, tuo figlio nemmeno: ti odiano
Tutti
i vicini, i conoscenti, giovanotti e ragazze.
E
ti meravigli, quando tu metti il denaro davanti a ogni cosa, se nessuno
Ti
porta quell’amore che tu non fai niente per meritare?
[…]
Ci
sia un limite, insomma, alla ricerca del guadagno e,
siccome
hai di più, temi di meno la povertà, e comincia
a
por fine a codesto affannarti, ora che hai ottenuto ciò che bramavi,
perché
non ti succeda come a quel tale, Ummidio; non è
lunga
la storia: ricco, da misurarli a staia, sordido tanto da non vestirsi
mai
meglio di uno schiavo, fino all’ultimo giorno stava
sempre
con la paura di morire per penuria di viveri. Ma poi finì che lo spaccò in due,
con
la scure, una liberta, la più ardita delle figlie di Tindaro.
“Che
cos’è dunque che mi consigli? […] quando ti dissuado dal farti spilorcio, non
ti voglio per questo scioperato e dissipatore. […] C’è nelle cose una misura,
ci sono
Insomma
confini precisi, al di là o al di qua dei quali non può esserci il giusto.
La satira si conclude poco oltre, con un’ultima
riflessione, all’interno della quale ritorna il motivo iniziale dell’incontentabilità:
nel guardare agli altri, soprattutto in tema di ricchezze, si scelgono quelli che hanno di più, non la
moltitudine che ha di meno, ci si lancia in una corsa affannosa, al termine
della quale si scopre di essere sempre stati insoddisfatti, sicché di rado
accade che si allontani dalla mensa della vita uno che si senta conviva satur, convitato sazio.
TRADUZIONE 2
Mecenate, onde vien, che nessun pago
Sia del mestier, ch’elezione o caso
Gli offerse, e lodi chi professa altr’arti?
O fortunati mercatanti, esclama
Carco d’età il soldato, a cui le membra
Fiaccò lunga fatica; e ’l mercatante,
Quando squassar dagli Austri sente il legno:
Migliore è la milizia. E chi n’ha dubbio?
Vassi al conflitto, e in un istante o pronta
Morte ti viene o lieta palma incontro.
Quando il giurista sul cantar del gallo
Picchiare ode i clienti alla sua porta,
Colma di lodi il campagnuol. Chi dati
Mallevadori è dalla villa a Roma
Citato a comparir, quelli soltanto
Che vivono in Città, felici appella,
Ma tanto innanzi va questa materia,
Che Fabio seccator ne avrìa soverchio.
Per non tenerti a bada ecco ove vanno
I miei detti a parar. Se un Dio dicesse:
I’ son qui pronto a far vostro desio:
Tu già soldato, in avvenir sarai
Mercante, e tu legal vivrai ne’ campi.
Su via cangiati impieghi ognun si parta.
Che state a far? Se così lor parlasse,
Nessuno il patto accetterebbe. Eppure
In vostra mano sta l’esser beati.
Forse che Giove non avria ragione
Di gonfiare adirato ambe le gote,
E dir che per lo innanzi esso non fia
Sì buon di dare agli uman voti orecchio?
[…]
Ma da insana avarizia una gran parte
Degli uomini accecata ognor ripete:
Non evvi mai tanto che basti, ognuno
Tanto vale quant’ha. - Che vuoi tu farvi?
Lasciali star col lor malanno in pace.
Fuvvi in Atene un tal ricco spilorcio,
Che sprezzava i motteggi della gente
Fra se dicendo: Il popolo mi fischia,
Ma in casa io mi fo plauso allorch’i’prendo
A contemplare i miei danar nell’arca.
Tantalo sitibondo anela all’acqua,
Che gli fugge dal labbro... E che? tu ridi?
La favola è di te sotto altro nome.
Su que’ sacchi ammontati t’addormenti
A bocca aperta, nè tastargli ardisci
Qual se fossero sacri, e di lor godi
Non altramente che d’un pinto volto.
Tu no non sai qual giovamento ed uso
Abbia il danar. Si compri pane e vino,
Ortaggio, e quel di più che nostra frale
Natura sdegna che le sia negato.
Forse a te piace il vegghiar notte e giorno
Col batticuor, temendo ladri, incendj,
E schiavi che ti lascino in farsetto?
Io non curo tai ben punto ne poco.
Ma tu dirai: se le mie membra assale
Ria febbre, o s’altro mal m’inchioda in letto,
Ho chi m’assista, chi i fomenti appresti,
Che al medico ricorra, affinchè sano
E salvo mi ridoni alla mia gente.
Ah non la moglie e non il figlio brama
Che tu risani. A tutti in odio sei
Conoscenti e vicin, servi e fantesche.
Che maraviglia, se qualor posponi
Ogni cosa al danar, nessuno in petto
Nutre per te quel che non merti, amore?
[…]Se non altro abbia fin la tua ingordigia,
E quanto hai più, tanto minor paura
Ti faccia povertà; quando se’ giunto
A posseder quanto bramasti, allora
Almen ti metti in calma, e non far come
Un certo Uvidio (la novella è breve).
Ei ricco sì che misurar potea
Danari a staja, era sì sconcio e lordo,
Ch’iva peggio vestito d’uno schiavo,
Sempre temendo di morir di fame.
Una sua serva, nuova Clitennestra,
Con un’accetta lo segò per mezzo!
Ehi qual consiglio mi vuoi dar? […]
E tu pur segui
Cose discordi ad accozzar tra loro.
Non io, qualor ti vieto essere avaro,
Vo’ che tu mi diventi un gocciolone
Ed uno sprecator. […]
Tutto ha le sue misure, oltra le quali
Nè di quà, nè di là risiede il retto.
TRADUZIONE 3
Perché,
Mecenate, sia caso o sia ragione ad assegnare la
sorte a ciascuno,
non
si è appagati e si pregia chi vive altrimenti?
Il
soldato anziano, con le ossa spezzate dalla lunga fatica,
dice:
“Fortunati i mercanti!” Viceversa il mercante, quando la nave è scossa
dai
venti, esclama: “meglio soldato: di che
si tratta poi? Si va all’assalto e, nel volgere di un istante, o si muore in
fretta o arride la vittoria.”
L’avvocato
tesse l’elogio del contadino
quando
all’alba bussa alla sua porta il cliente;
quello
che, per aver presentato garanzie, è trascinato dalla campagna in città,
dichiara
pubblicamente felici solo i cittadini.
E
ne avrei, di casi siffatti, da sfinire un logorroico come Fabio [partigiano di Pompeo, autore di trattati
stoici che Orazio riteneva evidentemente prolissi; altrove lo sbeffeggia per la
sua rigida ortodossia]. In breve, ascolta dove mi porti il discorso.
Se
un dio dicesse: “Ecco, mi farò vostro
esecutore: tu, che ora sei un soldato, diverrai mercante; tu, avvocato, contadino; di qua voi, voialtri di là,
scambiatevi le parti. Ehilà, perché non vi muovete?” Non vorrebbero. Eppure
potrebbero essere felici. Come non approvare se Giove, giustamente adirato,
gonfiasse le guance e negasse, d’ora in
poi, qualunque interesse per le preghiere umane?
[…]
Però
buona parte degli uomini, sedotta da un’ingannevole brama, dice:
“Niente
basta, perché quanto hai tanto vali.”
Che
fare di lui? Lascialo essere un miserabile, giacché gli aggrada;
come
quell’Ateniese, di cui si racconta, ricco e gretto, solito spregiare così le
critiche
della
gente: “Ai fischi del popolo oppongo i
miei applausi,
a
casa mia, ogniqualvolta contemplo i
soldi nel mio forziere.”
Tantalo, assetato, cerca di suggere l’acqua del fiume che sfugge
alle
sue labbra: cos’hai da ridere? Se si cambia il nome,
è la tua storia; passi la notte a sbadigliare
sui tuoi sacchi ammucchiati,
ti
costringi a rispettarli come reliquie, o a goderne come di dipinti.
Non
sai a cosa serva il denaro, cosa procuri?
Ci si compra il pane, la verdura, mezzolitro di vino,
in
più quello che la natura umana soffre a vedersi negato.
Ah,
ma forse tu godi a star sveglio mezzo morto di paura, a temere notte e giorno
ladri
cattivi, incendi, schiavi che ti derubino e scappino? Di simili beni
io
preferirei essere sempre a corto.
Ma
sei il corpo, percorso da brividi, ha preso a dolerti,
o
qualche altro malessere ti ha costretto a letto, hai
chi
ti assista, prepari le medicine, chiami il medico,
perché
ti rimetta in sesto e restituisca ai tuoi cari?
Non
ci tiene alla tua salute tua moglie, nemmeno tuo figlio; ti odiano tutti i
vicini e i conoscenti, giovani e
fanciulle.
E
ti meravigli, quando tu posponi tutto al denaro,
se
nessuno ti fa dono di un amore che non meriti?
[…]
Insomma, ci sia un limite al guadagnare, e se hai di più,
temi
di meno la povertà, smetti di affannarti,
ottenuto
ciò che bramavi, perché non ti accada come
a
quel tal Ummidio; è una breve storia: ricco sfondato, così sordido
da
vestirsi peggio di uno schiavo, fino alla morte timoroso di morir di fame,
lo
spaccò in due una liberta, novella Clitemnestra.
Cosa
mi consigli, allora? […] Ti ostini a
opporre
estremi: se vieto l’avarizia, non ti voglio buono a nulla e lazzarone.
[…] Esiste una giusta
misura, ci sono dei confini che delimitano il giusto.
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