Ce ne sono tanti, si annidano come virus nei gangli nervosi e aspettano il momento opportuno per aggredire l'organismo indebolito. Lui, soprattutto se è ormai anziano (esiste la senilità dell'anima, che non necessariamente si associa a quella del corpo) non resiste all'attacco e lascia che loro spadroneggino. Si fa conquistare e quasi non se ne rende conto. Alcuni interlocutori, più sagaci di altri, capiscono che qualche cosa di fondamentale è cambiato, che l'essere dinanzi al quale si trovano non è più completamente umano, ma è stato invaso da ultracorpi micidiali, che ne mimano l'esistenza, sostituendolo in tutto e per tutto nelle funzioni vitali. E lui, il vero, chissà dov'è andato, sempre che esista ancora.
La negazione della libertà passa per tante vie e non si è mai abbastanza attenti a non farsi sorprendere. Della libertà occorre essere consapevoli, viverla intensamente e non corrivamente, non confonderla con assenza di limiti, indifferenziato, insensato. Quelli che spaccano tutto, che parlano ad alta voce, che imprecano e schiamazzano, quelli che si esprimono per via di slogan, di formule, praticano il pensiero rattrappito, non conoscono la libertà e pretendono di toglierla agli altri. Due articoli per riflettere su questo, due stimoli per cercare sempre e solo la profondità, dove i dubbi si moltiplicano, le certezze non rassicurano ma inquietano, eppure il desiderio di andare avanti, di vedere, capire, sentire, non si placa mai.
cb
[L’antropologo David Graeberha appena pubblicato un articolo in cui sostiene da una prospettiva libertaria e antiautoritaria la lotta dei combattenti curdi del PKK e delle combattenti del YJA Star e l’esperimento autogestionario nella zona di Rojava, sollevando una serie di parallelismi con le vicende della Guerra civile spagnola del 1936 (dall’importanza della lotta condotta dalle donne curde alle strategie di non intervento dei paesi circostanti). David Graeber, che ha pubblicato svariati libri in italiano, ha concesso a Carmilla la facoltà di riprendere in traduzione italiana il suo articolo, comparso in originale qui. La traduzione italiana del testo – fatte salve poche modifiche, è stata recuperata da questo link.] A.P.
In Libia è in atto una guerra che sta minacciando di allargarsi all'Europa a partire dall'Italia. Parlarne non è affatto semplice perché il quadro che si prospetta è di difficile interpretazione. Ci sono infatti aspetti e contenuti che travalicano la cronaca nella sua evoluzione ed emergono elementi che rischiano di rendere confuso ciò che già appare oscuro.
Non siamo affatto di fronte a un classico conflitto tra stati concorrenti, in cui uno più forte cerca di sottomettere e annettere gli altri. Semmai questo è riscontrabile nell'attuale situazione in Ucraina dove, soprattutto per interessi economici, si sta svolgendo un'altra guerra molto più inquadrabile: la Russia putiniana non accetta di fare a meno dell'Ucraina e sta facendo di tutto per riconquistarla, contrastata dagli USA e più tiepidamente dall'Europa che intendono ostacolare l'espansionismo russo. Un quadro d'azione senz'altro molto più decifrabile.
Quando ci spostiamo sulla Libia, invece, ogni considerazione simile alla precedente evapora; prendono corpo ben altri interpreti e protagonisti, soprattutto ben altre motivazioni. Qui siamo pienamente all'interno di fermenti jihadisti endemici nella galassia islamica, che a loro volta sono in pieno all'interno di una mutazione epocale degli stati e dei territori musulmani. Prima di ogni altra cosa quindi si tratta di una guerra interna all'islam, come dimostrano gli attacchi dell'esercito egiziano e dell'esercito giordano alle postazioni Isis in Libia e in Iraq. Ma è anche un'azione bellica che nel suo farsi e manifestarsi tende ad espandersi, ad allargare il fronte dei nemici e la linea di fuoco, nel tentativo di esercitare la pretesa universale di islamizzare il mondo attraverso una spietata assolutizzazione politica.
Così paradossalmente “in Libia non c'è solo la Libia“. Più semplicemente c'è un avamposto di una nazione teocratica sovra/territoriale, che sta piazzando velocemente le sue pedine e i suoi avamposti, in Iraq, in Siria, in Libia, in Somalia, nello Yemen, in Nigeria ed è guardata con simpatia da grosse fette della popolazione musulmana. Svolge anche proseliti consistenti in Marocco, in Algeria, in Tunisia, in Egitto, collegati con avamposti anche in Afghanistan e in Pakistan, oltre a generare ragguardevoli fermenti nei vari paesi dell'occidente, dove da decenni sono cresciute comunità islamiche ben radicate. Lo jihadismo vuole dunque cambiare il mondo islamico, ma al contempo, motivato fanaticamente da una visione monoteista-teocratico-assolutista e ritenendosi dogmaticamente l'unica voce di Dio sulla terra, è “naturalmente“ spinto a cambiare anche il resto del mondo.
Gli attacchi assassini alle penne satiriche in Francia e in Olanda, le esplicite promesse, più che minacce, nient'affatto velate, di invadere Roma, luogo simbolo della cristianità responsabile delle storiche crociate contro i musulmani, sono tutti segnali chiari e dichiarati. Lo jihadismo ha intenzione di condurre una guerra mortale all'islamismo convenzionale e all'occidente, ma in tendenza anche all'ebraismo, perché attraverso lo stato d'Israele sta colonizzando abusivamente territori per loro sacri e appartenenti storicamente ai palestinesi. In definitiva mi sembra manifesta l'intenzione di diventare l'unica religione monoteista sulla terra. Come sempre quando si avviano aggressioni militari senz'altro ci sono in ballo grossi interessi politico-economici, di accaparramento e di voglia di colonizzare, ma le motivazioni fondamentali che danno senso a ciò che sta avvenendo rimangono essenzialmente quelle appena dette.
Siamo dunque sotto attacco, sia come cultura sia come popolazioni. Uno degli slogan più propagandati dallo jihadismo è che “bisogna distruggere l'occidente perché sono tutti stati atei”. Per una visione radicalmente e fanaticamente teocratica ogni laicismo è senz'altro ateo e fonte di peccato, quindi va distrutto. Di fronte a una tale più che concreta minaccia l'ONU ha scelto di essere prudente: il Consiglio di Sicurezza ha escluso ogni attacco militare in Libia. Fortunatamente, aggiungiamo noi! Si sono così evitati i famosi “bombardamenti chirurgici” che con i noti “danni collaterali” ogni volta procurano più massacri tra i civili che danni ai combattenti che vorrebbero colpire.
Non si tratta certamente di una decisione morale per ragioni pacifiste e antibelliciste, ma di una scelta di opportunità per non ripetere gli errori del recente passato. Dal Vietnam all'Afghanistan, ogni volta che si è tentato di mettere in sicurezza territori e situazioni giudicate destabilizzanti, si è sempre risolto in fiaschi clamorosi, perdendo la guerra o destabilizzando ulteriormente. Egemonizzato dall'occidente a leadership americana, l'ONU non è mai riuscito a fare il gendarme del mondo, e gli sarebbe piaciuto. Fra l'altro gli stati USA sono ormai diventati esportatori di petrolio e non han più bisogno di colonizzare nessuno per appropriarsene. Conviene allora tentare di contenere “diplomaticamente” le situazioni nei limiti del possibile, invece d'investire ingenti capitali in avventure quasi sicuramente destinate a dimostrarsi disastrose.
Noi però non possiamo ragionare negli stessi termini della diplomazia bellicista occidentale. Non ci coinvolge la salvaguardia degli interessi politico/economici di un capitalismo globale a egemonia finanziaria. Per noi lo jihadismo rappresenta un pericolo più insidioso perché nasce come negazione di ogni libertà e proposta di morte. Non sente le sirene della pace, che anzi detesta perché è sorto proprio per ripudiarla e per combattere. Come dimostrano i fatti finora successi, la guerra dichiarata che sta conducendo può colpirci in modo indiscriminato in qualsiasi momento e in ogni dove, ferocemente brutale e antiumanista. Personalmente non credo che questi signori della morte siano particolarmente più efferati degli altri guerrafondai. Da sempre qualsiasi guerra, di eserciti di principi e di stati, ha mostrato e dimostrato un livello di ferocia e disumanità che ogni volta viene eguagliato o superato soltanto da nuove guerre. Ciò che distingue costoro è che hanno fatto della loro spietatezza una bandiera, che propagandano con orgoglio dichiarando che arriveranno nelle nostre case e ci faranno altrettanto se non di peggio.
Lo scempio che costoro fanno della libertà è davvero insopportabile. Non tanto della democrazia rappresentativa, che già nel realizzarsi giorno dopo giorno ci pensa da sola ad annichilirsi e suicidarsi, ma della libertà come aspirazione, come visione, come realizzazione delle relazioni sociali e delle reciproche convivenze tra esseri umani. A loro la libertà non interessa, anzi ne sono dichiaratamente nemici, ed agiscono teocraticamente per sopprimerla e farla scomparire quale possibilità di legittimo anelito. Da questo punto di vista paradossalmente in un certo senso vanno incontro a un bisogno del dominio vigente, che sembra non riuscire a controllare la miriade di fermenti libertari che stanno continuamente sorgendo.
Nella Spagna del '36, in ben altra situazione, gli anarchici e i movimenti libertari organizzarono brigate internazionali in appoggio alla lotta che i compagni spagnoli stavano conducendo contro il fascismo avanzante. Con lo stesso spirito dovrebbe nascere una resistenza di popolo antijihadista che ogni libertario dovrebbe appoggiare solidalmente.
cb
David Graeber su Rojava
Pubblicato il · in Interventi · blog Carmilla
di David Graeber

Nel 1937, mio padre si arruolò volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Spagnola. Quello che sarebbe stato un colpo di Stato fascista era stato temporaneamente fermato da un sollevamento dei lavoratori, condotto da anarchici e socialisti, e nella maggior parte della Spagna ne seguì una genuina rivoluzione sociale che portò intere città sotto il controllo di sistemi di democrazia diretta, le fabbriche sotto la gestione operaia e le donne ad assumere sempre più potere.
I rivoluzionari spagnoli speravano di creare la visione di una società libera cui il mondo intero avrebbe potuto ispirarsi. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica di “non intervento” e mantennero un rigoroso embargo nei confronti della repubblica, persino dopo che Hitler e Mussolini, apparenti sostenitori di tale politica di “non intervento”, iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la fazione fascista. Ne risultarono anni di guerra civile terminati con la soppressione della rivoluzione e con uno dei più sanguinosi massacri del secolo.
Non avrei mai pensato di vedere, nel corso della mia vita, la stessa cosa accadere nuovamente. Ovviamente, nessun evento storico accade realmente due volte. Ci sono infinite differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo ora in Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria. Ma alcune delle somiglianze sono così stringenti e così preoccupanti che credo sia un dovere morale per me, cresciuto in una famiglia le cui idee politiche furono in molti modi definite dalla Rivoluzione spagnola, dire: non possiamo fare sì che tutto ciò finisca ancora una volta allo stesso modo.
La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce – un raggio di luce molto luminoso, a dire il vero – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana. Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, nonostante l’ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma si è configurato come un considerevole esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari che costituiscono il supremo organo decisionale, consigli che rispettano un attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e, in un richiamo degno di nota alle Mujeres Libres della Spagna, c’è un’armata composta esclusivamente da donne, la milizia “YJA Star” (l’”Unione delle donne libere”, la cui stella nel nome si riferisce all’antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le forze dello Stato Islamico.
Come può qualcosa come tutto questo accadere ed essere tuttavia perlopiù ignorato dalla comunità internazionale, persino, almeno in gran parte, dalla sinistra internazionale? Principalmente, sembra, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il PYD, lavora in alleanza con il turco Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), un movimento combattente marxista impegnato sin dagli anni Settanta in una lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l’Unione Europea lo classificano ufficialmente come “organizzazione terroristica”. Nel frattempo, l’opinione di sinistra lo descrive spesso come Stalinista.
Ma, in realtà, il PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio, organizzato verticalmente, partito Leninista che era una volta. La sua evoluzione interna, e la conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in un’isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a cambiare radicalmente i propri scopi e le proprie tattiche.
Il PKK ha dichiarato che esso non cerca nemmeno più di creare uno Stato curdo. Invece, ispirato in parte dalla visione dell’ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin, ha adottato una visione di “municipalismo libertario”, invitando i curdi a formare libere comunità basate sull’autogoverno, basate sui principi della democrazia diretta, che si federeranno tra loro aldilà dei confini nazionali – che si spera che col tempo diventino sempre più privi di significato. In questo modo, suggeriscono i curdi, la loro lotta potrebbe diventare un modello per un movimento globale verso una radicale e genuina democrazia, un’economia cooperativa e la graduale dissoluzione dello stato-nazione burocratico.
A partire dal 2005 il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha iniziato a concentrare i propri sforzi nello sviluppo di strutture democratiche nei territori di cui già ha il controllo. Alcuni si sono chiesti quanto realmente sinceri siano questi sforzi. Ovviamente, elementi autoritari rimangono. Ma quello che è successo in Rojava, dove la Rivoluzione siriana ha dato ai curdi radicali la possibilità di condurre tali esperimenti su territori ampi e confinanti fra loro, suggerisce che tutto ciò è tutt’altro che un’operazione di facciata. Sono stati formati consigli, assemblee e milizie popolari, le proprietà del regime sono state trasformate in cooperative condotte dai lavoratori – e tutto nonostante i continui attacchi dalle forze fasciste dell’ISIS. Il risultato combacia perfettamente con ogni definizione possibile di “rivoluzione sociale”. Nel Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati: particolarmente dopo che il PKK e le forze del Rojava per combattere efficacemente e con successo nei territori dell’ISIS in Iraq per salvare migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar dopo che le locali milizie peshmerga avevano abbandonato il campo di battaglia. Queste azioni sono state ampiamente celebrate nella regione, ma, significativamente, non fecero affatto notizia sulla stampa europea o nord-americana.
Ora, l’ISIS è tornato, con una gran quantità di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti alle forze irachene, per vendicarsi contro molte di quelle stesse milizie rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre in schiavitù – si, letteralmente ridurre in schiavitù – l’intera popolazione civile. Nel frattempo, l’armata turca staziona sui confini, impedendo che rinforzi e munizioni raggiungano i difensori, e gli aeroplani americani ronzano sopra la testa compiendo occasionali, simbolici bombardamenti dall’effetto di una puntura di spillo, giusto per poter dire che non è vero che non fanno niente contro un gruppo in guerra con i difensori di uno dei più grandi esperimenti democratici mondiali.
Se oggi c’è un analogo dei Falangisti assassini e superficialmente devoti di Franco, chi potrebbe essere se non l’ISIS? Se c’è un analogo delle Mujeres Libres di Spagna, chi potrebbero essere se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobané? Davvero il mondo – e questa volta, cosa più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale, si sta rendendo complice del lasciare che la storia ripeta se stessa?
Venti e minacce di guerra
di Andrea Papi (A- Rivista Anarchica)
Ecco perché dovrebbe nascere una resistenza di popolo antijihadista che ogni libertario dovrebbe appoggiare solidalmente.
In Libia è in atto una guerra che sta minacciando di allargarsi all'Europa a partire dall'Italia. Parlarne non è affatto semplice perché il quadro che si prospetta è di difficile interpretazione. Ci sono infatti aspetti e contenuti che travalicano la cronaca nella sua evoluzione ed emergono elementi che rischiano di rendere confuso ciò che già appare oscuro.
Non siamo affatto di fronte a un classico conflitto tra stati concorrenti, in cui uno più forte cerca di sottomettere e annettere gli altri. Semmai questo è riscontrabile nell'attuale situazione in Ucraina dove, soprattutto per interessi economici, si sta svolgendo un'altra guerra molto più inquadrabile: la Russia putiniana non accetta di fare a meno dell'Ucraina e sta facendo di tutto per riconquistarla, contrastata dagli USA e più tiepidamente dall'Europa che intendono ostacolare l'espansionismo russo. Un quadro d'azione senz'altro molto più decifrabile.
Quando ci spostiamo sulla Libia, invece, ogni considerazione simile alla precedente evapora; prendono corpo ben altri interpreti e protagonisti, soprattutto ben altre motivazioni. Qui siamo pienamente all'interno di fermenti jihadisti endemici nella galassia islamica, che a loro volta sono in pieno all'interno di una mutazione epocale degli stati e dei territori musulmani. Prima di ogni altra cosa quindi si tratta di una guerra interna all'islam, come dimostrano gli attacchi dell'esercito egiziano e dell'esercito giordano alle postazioni Isis in Libia e in Iraq. Ma è anche un'azione bellica che nel suo farsi e manifestarsi tende ad espandersi, ad allargare il fronte dei nemici e la linea di fuoco, nel tentativo di esercitare la pretesa universale di islamizzare il mondo attraverso una spietata assolutizzazione politica.
L'unica voce di Dio sulla terra
Il punto principale però resta sempre interno al mondo musulmano. L'islam politico che si è consolidato non vorrebbe affatto questa jihad assolutista, mentre vorrebbe conservare, semmai ampliare, il posto conquistato, convivendo con l'occidente e il resto del mondo, cercando di farsi accettare e apprezzare nella sua dignità di elevata civiltà storicamente determinata. Al contrario la jihad attualmente in azione vuole rompere questo schema conservatore. Lo ritiene falsamente idilliaco ed agisce attraverso un estremismo guerriero proposto come il massimo della radicalità.Così paradossalmente “in Libia non c'è solo la Libia“. Più semplicemente c'è un avamposto di una nazione teocratica sovra/territoriale, che sta piazzando velocemente le sue pedine e i suoi avamposti, in Iraq, in Siria, in Libia, in Somalia, nello Yemen, in Nigeria ed è guardata con simpatia da grosse fette della popolazione musulmana. Svolge anche proseliti consistenti in Marocco, in Algeria, in Tunisia, in Egitto, collegati con avamposti anche in Afghanistan e in Pakistan, oltre a generare ragguardevoli fermenti nei vari paesi dell'occidente, dove da decenni sono cresciute comunità islamiche ben radicate. Lo jihadismo vuole dunque cambiare il mondo islamico, ma al contempo, motivato fanaticamente da una visione monoteista-teocratico-assolutista e ritenendosi dogmaticamente l'unica voce di Dio sulla terra, è “naturalmente“ spinto a cambiare anche il resto del mondo.
Gli attacchi assassini alle penne satiriche in Francia e in Olanda, le esplicite promesse, più che minacce, nient'affatto velate, di invadere Roma, luogo simbolo della cristianità responsabile delle storiche crociate contro i musulmani, sono tutti segnali chiari e dichiarati. Lo jihadismo ha intenzione di condurre una guerra mortale all'islamismo convenzionale e all'occidente, ma in tendenza anche all'ebraismo, perché attraverso lo stato d'Israele sta colonizzando abusivamente territori per loro sacri e appartenenti storicamente ai palestinesi. In definitiva mi sembra manifesta l'intenzione di diventare l'unica religione monoteista sulla terra. Come sempre quando si avviano aggressioni militari senz'altro ci sono in ballo grossi interessi politico-economici, di accaparramento e di voglia di colonizzare, ma le motivazioni fondamentali che danno senso a ciò che sta avvenendo rimangono essenzialmente quelle appena dette.
Siamo dunque sotto attacco, sia come cultura sia come popolazioni. Uno degli slogan più propagandati dallo jihadismo è che “bisogna distruggere l'occidente perché sono tutti stati atei”. Per una visione radicalmente e fanaticamente teocratica ogni laicismo è senz'altro ateo e fonte di peccato, quindi va distrutto. Di fronte a una tale più che concreta minaccia l'ONU ha scelto di essere prudente: il Consiglio di Sicurezza ha escluso ogni attacco militare in Libia. Fortunatamente, aggiungiamo noi! Si sono così evitati i famosi “bombardamenti chirurgici” che con i noti “danni collaterali” ogni volta procurano più massacri tra i civili che danni ai combattenti che vorrebbero colpire.
Non si tratta certamente di una decisione morale per ragioni pacifiste e antibelliciste, ma di una scelta di opportunità per non ripetere gli errori del recente passato. Dal Vietnam all'Afghanistan, ogni volta che si è tentato di mettere in sicurezza territori e situazioni giudicate destabilizzanti, si è sempre risolto in fiaschi clamorosi, perdendo la guerra o destabilizzando ulteriormente. Egemonizzato dall'occidente a leadership americana, l'ONU non è mai riuscito a fare il gendarme del mondo, e gli sarebbe piaciuto. Fra l'altro gli stati USA sono ormai diventati esportatori di petrolio e non han più bisogno di colonizzare nessuno per appropriarsene. Conviene allora tentare di contenere “diplomaticamente” le situazioni nei limiti del possibile, invece d'investire ingenti capitali in avventure quasi sicuramente destinate a dimostrarsi disastrose.
Noi però non possiamo ragionare negli stessi termini della diplomazia bellicista occidentale. Non ci coinvolge la salvaguardia degli interessi politico/economici di un capitalismo globale a egemonia finanziaria. Per noi lo jihadismo rappresenta un pericolo più insidioso perché nasce come negazione di ogni libertà e proposta di morte. Non sente le sirene della pace, che anzi detesta perché è sorto proprio per ripudiarla e per combattere. Come dimostrano i fatti finora successi, la guerra dichiarata che sta conducendo può colpirci in modo indiscriminato in qualsiasi momento e in ogni dove, ferocemente brutale e antiumanista. Personalmente non credo che questi signori della morte siano particolarmente più efferati degli altri guerrafondai. Da sempre qualsiasi guerra, di eserciti di principi e di stati, ha mostrato e dimostrato un livello di ferocia e disumanità che ogni volta viene eguagliato o superato soltanto da nuove guerre. Ciò che distingue costoro è che hanno fatto della loro spietatezza una bandiera, che propagandano con orgoglio dichiarando che arriveranno nelle nostre case e ci faranno altrettanto se non di peggio.
Lo scempio che costoro fanno della libertà è davvero insopportabile. Non tanto della democrazia rappresentativa, che già nel realizzarsi giorno dopo giorno ci pensa da sola ad annichilirsi e suicidarsi, ma della libertà come aspirazione, come visione, come realizzazione delle relazioni sociali e delle reciproche convivenze tra esseri umani. A loro la libertà non interessa, anzi ne sono dichiaratamente nemici, ed agiscono teocraticamente per sopprimerla e farla scomparire quale possibilità di legittimo anelito. Da questo punto di vista paradossalmente in un certo senso vanno incontro a un bisogno del dominio vigente, che sembra non riuscire a controllare la miriade di fermenti libertari che stanno continuamente sorgendo.
Quegli avamposti libertari curdi
Di fatto sono stati momentaneamente bloccati soltanto a Kobane. Per merito della rivolta di coraggiosissimi avamposti libertari curdi, almeno per ora nonostante il sabotaggio dei turchi, l'attacco spietato dell'Isis installatosi in Iraq è stato respinto. Lo stato turco non solo non li ha aiutati ma, preferendo favorire la distruzione dei curdi, da sempre considerati nemici perché non riesce a sottometterli politicamente e militarmente, si è dimostrato inspiegabilmente molto permissivo nei confronti degli jihadisti contro cui combattevano.Nella Spagna del '36, in ben altra situazione, gli anarchici e i movimenti libertari organizzarono brigate internazionali in appoggio alla lotta che i compagni spagnoli stavano conducendo contro il fascismo avanzante. Con lo stesso spirito dovrebbe nascere una resistenza di popolo antijihadista che ogni libertario dovrebbe appoggiare solidalmente.
Andrea Papi
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