Orrida maestà nel fero aspetto
terrore accresce, e piú superbo il rende:
rosseggian gli occhi, e di veneno infetto
come infausta cometa il guardo splende,
gl'involve il mento e su l'irsuto petto
ispida e folta la gran barba scende,
e in guisa di voragine profonda
s'apre la bocca d'atro sangue immonda.
Qual i fumi sulfurei ed infiammati
escon di Mongibello e 'l puzzo e 'l tuono,
tal de la fera bocca i negri fiati,
tale il fetore e le faville sono.
Mentre ei parlava, Cerbero i latrati
ripresse, e l'Idra si fe' muta al suono;
restò Cocito, e ne tremàr gli abissi,
e in questi detti il gran rimbombo udissi:
"Tartarei numi, di seder piú degni
là sovra il sole, ond'è l'origin vostra,
che meco già da i piú felici regni
spinse il gran caso in questa orribil chiostra,
gli antichi altrui sospetti e i feri sdegni
noti son troppo, e l'alta impresa nostra;
or Colui regge a suo voler le stelle,
e noi siam giudicate alme rubelle.
Ed in vece del dí sereno e puro,
de l'aureo sol, de gli stellati giri,
n'ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
né vuol ch'al primo onor per noi s'aspiri;
e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
quest'è quel che piú inaspra i miei martíri)
ne' bei seggi celesti ha l'uom chiamato,
l'uom vile e di vil fango in terra nato.
Né ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
sol per farne piú danno, il figlio diede.
Ei venne e ruppe le tartaree porte,
e porre osò ne' regni nostri il piede,
e trarne l'alme a noi dovute in sorte,
e riportarne al Ciel sí ricche prede,
vincitor trionfando, e in nostro scherno
l'insegne ivi spiegar del vinto Inferno.
Ma che rinovo i miei dolor parlando?
Chi non ha già l'ingiurie nostre intese?
Ed in qual parte si trovò, né quando,
ch'egli cessasse da l'usate imprese?
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